Sono rientrato da qualche giorno
nella Capitale. L’avevo
lasciata alle prime luci dell’alba di un giorno di fine luglio. Scappavo dalla
cappa di afa che l’avvolgeva; scappavo dal suo traffico caotico e dalla
spazzatura ad ogni angolo di strada; scappavo dalla calca di un turismo di
massa, mai così convulso come quest’anno. Ma la pandemia non doveva
migliorarci?
Roma, di prima mattina - quando
tutti dormono e tacciono sia le macchine, che le attività e la frenesia
isterica della gente sempre connessa - appare più umana, più vivibile. Addirittura
più pulita. Sembra quasi che i suoi abitanti e chi l’amministra siano la causa
principale di tutti i suoi mali. Ero diretto al paesello natale - il mio eremo -
capace ancora di lenire le ferite inferte da una città che diventa, di giorno
in giorno, sempre più difficile da abitare. La mia àncora di salvezza, il mio buen
retiro è proprio quel paesello, arroccato su una collina che guarda verso
il mare. Il mio luogo dell’anima che conserva il ricordo genuino e spensierato dell’infanzia
e dell’adolescenza: il mio tempo perduto. Forse il più felice, nonostante le
difficoltà del vivere di quel tempo passato. Un luogo che evoca profumi e
sapori e sensazioni e sentimenti di una certa Italia che non c’è più. Un luogo
che serba quasi le tracce dei miei anni più spensierati. E ogni volta che mi ritrovo
lì, tra quelle case in pietra e quei vicoli silenziosi, mi piace andare con la
mente a quel periodo lontano, quasi allo scopo di recuperare il senso antico di
quella stagione della vita e cercarne i significati più profondi. Non so se il
mondo di oggi è migliore: sappiamo, però, quanto sia diverso. E quanto sia
cambiato!
Man mano che mi avvicinavo con
la macchina alla mia terra di origine, sentivo la mia aria che è diversa da
quella di Roma. E’ un’aria pungente e fresca che sa di erba appena falciata e
ha il potere di rinvigorire la mente; ha il profumo muschiato del latte di
bufala e di mozzarella, mentre attraverso la piana del Sele nei pressi di
Paestum; sa di salsedine, appena percorro la strada che costeggia il mare di
Agropoli, prima di prendere la via che si inerpica sulla collina dove sorge la
mia casetta che mi aspetta come addormentata. Mi vengono in mente le parole
scritte da Lalla Romano – scrittrice piemontese, una delle maggiori del
Novecento – nel suo bellissimo romanzo pubblicato nel 1964 “La penombra che
abbiamo attraversato”, un libro che avevo iniziato a leggere prima di
partire. La scrittrice fa ritorno, dopo molti anni, al paese della sua infanzia
- Ponte Stura - una piccola località tra le montagne della provincia di
Alessandria: vuole riannodare i fili di una vita partendo dalle sue origini,
con immagini e ricordi. “Sono uscita nella strada davanti all’albergo, e ho
sentito l’aria – scrive la Romano - L’aria mi può bastare. E’ la mia
aria. In nessun’altra valle vicina o lontana c’è quell’aria. Io la riconosco
all’odore leggero che sa di latte, di strame, di erbe amare…Non è mai esaurito
il mio bisogno di quell’aria. Io la penso di lontano, e mi nutre. Mi tormenta,
anche: per qualcosa di irraggiungibile, ma anche di fatale. Essa è per me il
passato: tutto quello che è avvenuto”. L’autrice di questo romanzo rievoca,
con uno stile intimo e poetico, quel suo “buon tempo antico” in quel luogo
rimasto immobile che conserva “il fascino del tempo di prima”. Anche se
lentamente continua a morire. Ma lei ne è consolata perché quella immutabilità costituisce
la sua vera essenza. La sua felicità è legata al luogo dell’infanzia e viene riassunta
dalla madre poco prima di morire: “come eravamo felici!”. Per lei, sembra quasi
che il meglio della vita sia qualcosa di già trascorso; il tempo della felicità
sia solo quello di prima.

“La penombra che abbiamo
attraversato” è un libro tipicamente proustiano: ricorda. Il titolo è
tratto proprio da una bellissima frase di Proust relativa all’infanzia che dice:
“ci appartiene
veramente soltanto ciò che noi stessi portiamo alla luce estraendolo
dall’oscurità che abbiamo dentro di noi…Intorno alle verità che siamo riusciti
a trovare in noi stessi spira un’aurea poetica, una dolcezza e un mistero, i
quali non sono altro se non la penombra che abbiamo attraversato”. Lalla Romano, nel percorrere il paese che l’aveva vista bambina,
rivive quei tempi dolci e sereni nei minimi particolari, come se quelle antiche
immagini avessero la capacità di sciogliersi e il tepore di quel ricordo le
richiamasse in vita dal gelo dell’oblio.
Amo la “letteratura della memoria”
e il libro della Romano si colloca, con tutte le sue buone qualità di stile e
di linguaggio, in questo filone narrativo. Saper rendere universale una vicenda
umana così individuale è una delle caratteristiche migliori di una grande scrittrice:
e devo dire che tra le righe del libro di Lalla Romano io spesso ritrovo e
rivedo il bambino e l’adolescente che fui nel “leggendario tempo di prima”. Mi
piace condividere con la scrittrice l’illusione che possa esistere nel nostro
tempo un piccolo eden rappresentato da un microcosmo che è “il paese”, con il
suo silenzio, le sue atmosfere, la sua natura, la sua aria buona. Il suo paese
natale in quell’angolo di Piemonte diventa anche il mio, nel Cilento. Perché
tutti i paesi un po' si somigliano. Mi ritrovo e mi rivedo nelle sue parole quando
scrive che si sentiva come drogata “nell’odore arido delle stoppie, nel
caldo pungente del mezzogiorno, tra lo stridore delle cicale”; e quando
scrive che cercava una esaltante libertà “solo sulle montagne, nei valloni
profondi e freschi, sui costoni ventosi”; e quando parla del “castello”
(c’è sempre un castello in ogni paese) che “era il luogo di ogni
bellezza…dove il tempo pareva fermato” dove andava a nascondersi e a
giocare; mi ritrovo tra le sue pagine quando dice che “non le piaceva andare
dove e quando andavano tutti” e che preferiva “schivare la gente”.
Un po' per timidezza, un po' per la sua indole solitaria. Ha parole di
ammirazione per “i nobili”: “esseri di una specie più fine, più rara”.
Li vedeva passare sul calessino, il marchese e la marchesa, mentre andavano in
chiesa. Ricordo anch’io i marchesi del mio paese – discendenti di un’antica e
nobile casata - che uscivano dal loro palazzo marchesale, antistante la chiesa,
per la messa domenicale: li osservavo, venivano ossequiati dai contadini del
posto, ammiravo il loro portamento elegante e potevo solo immaginare la vita
appartata che conducevano in quella grande dimora aristocratica che li rendeva
così speciali, così diversi dagli altri. Girando per Ponte Stura Lalla Romano
cerca con gli occhi la bottega del fabbro, dalla quale sentiva battere il ferro
sull’incudine: “il suono più esaltante che si possa sentire”. Ma la
forgia non c’è più. Un velo di malinconia mi scende addosso.
Quel rumore ritmico del martello che batteva il ferro sull’incudine piaceva anche a me, da bambino. Mi era familiare. La modernità me l’ha portato via. E' sparito un antico mestiere. E' venuta meno una filosofia di vita.