Ogni estate mi ritiro nella
mia terra di origine: l’amato Cilento, il cui nome – al solo pronunziarlo –
faceva battere il cuore all’eminente studioso e viaggiatore pugliese
Cosimo De Giorgi, che l’aveva percorso in lungo e in largo verso la fine dell’800.
Qui – lontano dai clamori della pazza folla e dalle aberrazioni dei nostri
tempi – mi ritaglio uno spazio appartato e silenzioso dove cerco di raccogliere
sensazioni ed atmosfere perdute, odori e colori, paesaggi e bellezze
dimenticate. Insomma, quelle memorie e quei sentimenti che attraversano l’esistenza
di ognuno di noi.
Capita, a volte, che la
memoria di un uomo si rispecchi in quella di un luogo. La conferma l’ho avuta
giorni fa mentre stavo per raggiungere, con la mia macchina, un paesino che si
chiama Vatolla, un antico borgo di poche anime sprofondato fra le colline ammantate
di castagni e ulivi nel Parco Nazionale del Cilento. Un luogo che conserva
ancora il suo aspetto medievale, a pochi chilometri da Agropoli e da Paestum,
che invita al silenzio, alla meditazione ed all’ozio creativo. Avevo appena
finito di leggere un prezioso libriccino che si intitola “G. B. Vico un ospite
d’eccezione della terra di Vatolla”, scritto dal prof. Antonio Malandrino, e avevo
pertanto deciso di seguire le tracce del grande filosofo e giurista napoletano,
il quale soggiornò da queste parti per circa un decennio (dal 1686 al 1695). E quando
si parla di Vatolla – almeno per i cilentani -
il pensiero corre immediatamente a lui, all’autore della “Scienza
Nuova”. Il paese sembra legato indissolubilmente al filosofo napoletano. La
memoria dell’uomo si riflette, come dicevo prima, nella memoria del luogo.
G. B. Vico, che per volere del
padre aveva studiato legge – pur detestando la vita forense – ebbe l’occasione
di conoscere, un giorno del 1686, monsignor Gerolamo Rocca, Vescovo di Ischia.
Questi, apprezzando le qualità intellettuali di quel giovane giurista, gli
propose – secondo quanto si legge nella sua autobiografia – di fare da maestro
ai suoi quattro nipoti presso “un
castello del Cilento di bellissimo sito e di perfettissimo clima, il quale era
in signoria di suo fratello, il signor Domenico Rocca, perché lo avrebbe in
tutto pari ai suoi figlioli trattato ed ivi dalla buona aria del paese sarebbe
restituito in salute ed avrebbe tutto l’agio di studiare…”. Ora, proviamo
ad immaginare lo stato d’animo del giovane Vico: all’epoca aveva solo 18 anni,
era povero, viveva a Napoli in una modestissima casa accanto ad una botteguccia
di libri gestita dal padre, alternando lo studio della giurisprudenza con
quello della filosofia, la sua vera passione. La proposta ricevuta dal vescovo
avrà certamente suscitato nel suo animo apprensioni e timori; egli avrebbe
dovuto lasciare la sua amata Napoli per una terra lontana e sconosciuta, per
andare a vivere presso una famiglia di feudatari, signori di Vatolla,
prendendosi cura di quattro ragazzi poco più giovani di lui. Certo, l’impiego
che gli veniva offerto, a quei tempi, non era affatto prestigioso: il
precettore, infatti, era considerato alla stregua di un servitore, di poco
superiore ad un cocchiere, con un salario molto basso. Accettando l’incarico, Vico
poté usufruire di vitto e alloggio gratis: e questo non era poco considerate le
sue ristrettezze economiche. E soprattutto quel mandato gli diede la
possibilità di dedicarsi ai suoi studi filosofici, che lo avrebbero reso
immortale, avvalendosi della ricca biblioteca padronale dove si trovavano opere
di S. Agostino, Ficino, Pico della Mirandola, Tacito ecc. Il viaggio in
carrozza durò circa tre giorni, tra soste e pernottamenti in locande di
fortuna, percorrendo strade accidentate spesso infestate da banditi, prima di arrivare
nel castello di Vatolla. In questa dimora fortilizia - che era stata costruita
prima dell’anno mille dai Longobardi, a pianta trapezoidale e munita di quattro
torri cilindriche (oggi palazzo De Vargas, dal nome degli ultimi proprietari di
origine spagnola, sede della fondazione G.B. Vico) - viveva il marchese Don
Domenico Rocca, vedovo, con i suoi quattro figli. Gli fu assegnata una stanza
da cui poteva ammirare, in lontananza, l’isola di Capri sulla cui
inconfondibile sagoma Vico soffermava il suo sguardo, nei momenti di malinconia
e di nostalgia. Si, perché il filosofo aveva un rapporto alquanto tormentato
con il luogo che lo ospitava tant’è che in un suo scritto definiva Vatolla “aspra
Selva solinga arida e mesta”, mentre in altre occasioni manifestava tutto
il suo amore al “bellissimo sito di
perfectissima aria” . Spesso
si sentiva triste e spaesato perché l’ambiente non gli offriva molto, tranne le
occasionali visite che il suo “datore di lavoro” faceva ai “signori” del posto,
a cui lui partecipava di buon grado. Già allora, così come per tutta la vita,
il filosofo cercava di coltivare sempre buone conoscenze in “isfere molto elevate siano stati essi dotti
prelati, eloquenti predicatori, alti magistrati, studiosi universitari e non
universitari, cavalieri e dame della più eletta aristocrazia…”. Ma, da buon
studioso, non disprezzava la solitudine e il silenzio: e naturalmente Vatolla
ne offriva in abbondanza. Così – sempre nella sua autobiografia – Vico racconta
che spesso lasciava il palazzo per recarsi nel vicino convento francescano di
Santa Maria della Pietà dove, all’ombra di un grande ulivo, godendosi l’aria
fresca e salubre che saliva dalla valle sottostante, trascorreva lunghe ore
nello studio e nella meditazione, in compagnia dei libri della biblioteca del
convento. E in questo posto così suggestivo che evoca sensazioni indescrivibili,
dove la mente del filosofo probabilmente raggiungeva vette altissime, e dove l’aria
ha un sapore diverso ed i colori della natura sembrano usciti dalla tavolozza
di un pittore, ho sostato a lungo, da solo, soggiogato dal silenzio e dalla pace.
Certi luoghi, che richiamano alla memoria vicende e personaggi di un lontano passato,
sembrano lanciare a noi contemporanei - che viviamo in un’epoca caratterizzata
dall’indifferenza, dall’eccessiva velocità e dalla scarsa sensibilità verso il
bello - un potente ammonimento a
cambiare filosofia di vita e a non dimenticare le ricchezze artistiche e
paesaggistiche della nostra terra. Elevare culturalmente un paese significa, essenzialmente, far maturare in
ogni suo abitante consapevolezza e sensibilità, affinché possa comprendere e
apprezzare la bellezza del patrimonio che gli appartiene.
Girare per le strette e
silenziose stradine di Vatolla è come tornare indietro nel tempo. Un vero tuffo
nel passato. Il retaggio vichiano, poi, è molto sentito nel paese, perché tutto
parla del suo cittadino più illustre. Vie e piazze a lui dedicate, didascalie, notizie
storiche e citazioni tratte dalle sue opere impresse su pannelli in ferro
battuto posizionati in ogni angolo del borgo: un piccolo museo a cielo aperto. Al fine di rilanciare lo sviluppo di una terra, troppe
volte umiliata e offesa, bisogna ripartire proprio dai suoi antichi
borghi che si affacciano su un mare cristallino: Vatolla è uno di questi, con
la bellezza dei suoi silenzi e la forza della sua storia, risorsa essenziale per la vita e la crescita culturale
dell’intera comunità. Ruggero Cappuccio,
scrittore e regista napoletano che ben conosce questi posti, dice che “non sono gli
uomini a possedere le cose, sono le cose a possedere gli uomini, protetti e
minacciati dal maggior difetto e dal maggior pregio di questa terra, la
memoria. Certi ricordi non aiutano a vivere. Senza certi ricordi vivere è
impossibile”.