“Scrivo
queste pagine che nessuno leggerà, perché spero di avere tanta lucidità da
distruggerle prima della mia morte”. Così scriveva Salvatore
Satta - uno dei più autorevoli studiosi italiani di Diritto processuale
civile - nel 3° capitolo del suo libro “Il giorno del giudizio” ultimato un
anno prima della sua morte, avvenuta a Roma nel 1975. Lo scrittore sardo – era
nato a Nuoro nel 1902 - evidentemente
ebbe modo di riflettere con serena lucidità sul suo estremo proposito e non
portò a termine il compito che si era prefisso; e così, chi ama la bella
scrittura, ha potuto leggere quelle pagine che lui avrebbe voluto distruggere
per sempre.
Ne “Il giorno del giudizio”, considerato
il suo capolavoro, Salvatore Satta dipinge un grande affresco storico ed umano
sui vizi, le virtù, le miserie, i bisogni
e i desideri di un intero popolo, quello a cui lui stesso apparteneva ed
a cui si sentiva legato: la gente della sua Nuoro. Il racconto si svolge, come
scrive nel libro, attraverso “onde di
ricordi che si accavallano in un assurdo disordine, come se tutta l’esistenza
si fosse svolta in un solo istante”, mentre i suoi personaggi – che sono morti
ma che il narratore ben conosceva in vita – li fa rivivere nella scrittura, li
chiama quasi a raccolta uno ad uno. Uomini e donne di Nuoro, contadini e
pastori, notabili e miserabili, notai ed avvocati, preti ed impiegati, ricchi e
poveri, sfilano davanti a noi lettori “come
in una di quelle assurde processioni del paradiso dantesco”. Personaggi che
non avevano mai avuto una seppure minima identità e visibilità, che non avevano
importanza per nessuno, perché la loro esistenza si riduceva a un atto di
nascita e di morte, sembrano quasi chiedere all’autore di essere liberati dai
propri affanni e dalle proprie miserie “…tutti
si rivolgono a me – scrive l’autore – tutti
vogliono deporre nelle mie mani il fardello della loro vita, la storia senza
storia del loro essere stati (…). E forse mentre penso la loro vita, perché
scrivo la loro vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati a
raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno dalla loro memoria”.
Un libro che ci parla della
vita di un’intera comunità attraverso la morte, perché a Nuoro, quando moriva
qualcuno era come se morisse tutto il paese e la vita e la morte erano regolate
e scandite dalle campane del borgo, dall’ave squillante del mattino all’ave
spiegata della sera, fino ai rintocchi che davano notizia che uno di loro era
passato a miglior vita: “nove per gli uomini, sette per le donne, più lenti per
i notabili”.
Un libro che mi ricorda, in
qualche modo, l’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters; infatti, così
come il poeta statunitense fa parlare i suoi personaggi sepolti in un piccolo
cimitero di un villaggio americano, attraverso componimenti poetici in forma di
epitaffi, Salvatore Satta dà voce ai morti della sua terra che potranno
finalmente essere ricordati, svela fatti e misfatti di una piccola comunità
rurale, la Nuoro della sua infanzia e della sua giovinezza, attraverso un
epitaffio funebre in prosa. Quasi a
voler significare che solo la morte può restituire dignità e verità nascoste.
Mi sembra d'averlo letto...
RispondiEliminaMa forse è passato troppo tempo.
Il tempo passa, mia cara Euridice!...ma i libri restano. Ciao
Eliminai passaggi in corsivo sono degni di nota, un libro che mi incuriosisce, come sempre recensione di alto livello
RispondiEliminaGrazie tads: sei troppo buono, come sempre :-). Buona serata
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