giovedì 2 gennaio 2014

RECENSIONE: "Il coraggio del pettirosso" di Maurizio Maggiani


E’ un libro super premiato, avendo vinto nel 1995 i premi Viareggio, Répaci e Campiello.

Prima di comprare e leggere questo romanzo, avevo avuto l’occasione di conoscere e ascoltare lo scrittore ligure Maurizio Maggiani in una trasmissione televisiva: mi aveva colpito il suo modo pacato di raccontare e affrontare qualsiasi argomentazione, ero rimasto piacevolmente sorpreso per quelle sue caratteristiche di grande affabulatore capace di incantare e affascinare l’uditorio. Direi che lui scrive come parla e di conseguenza, per me, sarebbe preferibile ascoltarlo, piuttosto che leggerlo. Con questo, però, non mi permetto assolutamente di sminuire la sua scrittura. Anzi. La trovo gradevole, fluida, a volte poetica. Per la critica, Maggiani – che peraltro pare sia politicamente vicino agli anarchici, ma per me è semplicemente un uomo libero - è considerato uno dei maggiori “raccontatori” di storie della nostra letteratura contemporanea.

Ma si può scrivere per guarire da una malattia? Possono le parole mitigare non solo i mali dell’anima, ma anche quelli del corpo? Sembrerebbe di si, visto che il protagonista che esce dalla penna di Maggiani, Saverio, nato ad Alessandria d’Egitto da genitori italiani, si trova ricoverato in un ospedale di quella città ed il suo medico, il dottor Modrian, gli ha consigliato di scrivere: “Scriva, scriva, mio signore...scriva che è tutta salute. Alleni le dita, le fortifichi sui tasti, e vedrà che questo sarà il primo passo verso la completa guarigione”.

E così Saverio, figlio di un italiano che era scappato dal suo paese d’origine (Carlomagno) subito dopo la guerra – il padre era un fornaio “e come tutti i fornai anche lui era un libertario, un anarchico, perché di notte c’è modo di avere più coraggio e più libertà” – inizia a scrivere le sue storie, scorazzando con la penna tra il sogno e la realtà.

Notte dopo notte, riprende le sue storie sognate da dove le avevate lasciate, con personaggi e avvenimenti che a volte si fa fatica a capire quanto siano frutto della fantasia e quindi dei sogni e quanto siano invece malinconici ricordi. “Quando li racconti, i sogni” dice il nostro protagonista “non sono più sogni ma diventano racconti, storie più o meno bizzarre a seconda di come li ricordi e li ricostruisci con il tuo stile, con la forma della tua coscienza”. E’ un po’ come quelle storie popolari e antiche raccontate dalla sua gente, con i tanti personaggi ognuno dei quali porta sulle spalle il peso della fatica del vivere quotidiano. I sogni riempiono la sua vita e la sua è una vita notturna, nascosta, lontana dagli altri, ma è pur sempre un’esperienza che ha la capacità di guarirlo e renderlo felice. E intanto scrive, come gli ha ordinato il dottor Modrian, scrive tutto ciò che gli passa per la testa, inorgoglito da tutte le letture, dalla frequentazione delle biblioteche: “a volte ci si monta la testa con le parole scritte, ti sembrano chissà che cosa”:

In queste sue farneticazioni è spesso presente il sentimento anarchico: il padre gli parlava dell’anarchia come di una vecchia zia lontana, buona e coraggiosa. La zia anarchia era lontana, ma i suoi benefici lo avrebbero fatto migliore, più coraggioso e più bello, diverso dalla massa dei servi che non osavano alzare la testa.

Anche la poesia e la musica lo avrebbero elevato. Soprattutto la poesia di Ungaretti, il poeta prediletto dal padre: non riusciva a capire, Saverio, come il padre potesse apprezzare il poeta di Alessandria d’Egitto,  “traditore del proletariato, rinnegato della fede libertaria”. La forza della poesia.

E poi la musica “che fa alla mia anima quello che il mare fa al mio corpo. Io ci nuoto dentro la musica, mi tuffo di testa e di schiena, mi immergo e risalgo...”

In questo viaggio fantastico il protagonista, che racconta sempre in prima persona, si muove alla ricerca del paese d’origine di suo padre, quel Carlomagno che evidentemente esisteva solo nella sua fantasia e che ogni notte sognava. Forse era il suo paese dell’anima: ognuno dovrebbe averne uno per non consumarsi di solitudine.

Affronta il deserto con un asino affittato al mercato. Tutti gli arabi ci vanno ogni tanto: è come una norma igienica, una vaccinazione, è come fare gli esercizi spirituali di purificazione. Visita città come Napoli e Roma.

E poi c’è l’amore per Fatiha, una donna di Palestina forte e bella, una donna che non fa parte dei sogni ma che esiste nella vita di Saverio al quale dice: “penso che saresti un bravo romanziere se scrivessi per vivere invece che per guarire”.

Un libro dalle complesse e intimistiche tematiche, che celebra la difficile arte del “raccontare”.

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