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martedì 28 maggio 2019

Pessoa e la sua morale



“Io ho una morale molto semplice: non fare del male né del bene a nessuno. Non fare del male a nessuno perché non solo riconosco agli altri lo stesso diritto, che credo mi spetti, di non essere disturbato, ma perché penso che per il male del mondo bastano i mali naturali. A questo mondo viviamo tutti a bordo di una nave salpata da un porto ignoto per un porto ignoto; è necessario avere nei confronti degli altri una amabilità da viaggiatori. Non fare del bene, perché non so cos’è il bene né so se faccio del bene quando credo di farlo. Come posso conoscere gli eventuali danni che arreco nel fare un’elemosina? Come posso conoscere i mali che posso causare quando educo o istruisco qualcuno? Nel dubbio, mi astengo. E trovo anche che aiutare o delucidare è, in un certo qual modo, commettere il male di intervenire nella vita altrui. La bontà è un capriccio del temperamento: non abbiamo il diritto di rendere gli altri vittime dei nostri capricci, anche se di umanità o di tenerezza. I benefici sono cose che si infliggono, per questo li detesto freddamente.

Dal momento che, per un principio morale, non faccio il bene, allo stesso modo non esigo che sia fatto a me. Se cado ammalato, ciò che più mi pesa è di obbligare qualcuno a curarmi, cosa che non mi piacerebbe fare a qualcun altro. Non ho mai visitato un amico malato. Ogni volta che sono stato malato e qualcuno mi ha visitato, ho sofferto quella visita come un disagio, come un insulto, come un’ingiustificabile violazione della mia imprescindibile intimità. Non mi piace che mi vengano fatti doni: in tal modo mi sento obbligato a fare doni anch’io: alle stesse persone o ad altre, o a chicchessia.
Sono fortemente socievole in un modo fortemente negativo. Sono l’inoffensività incarnata. Ma non sono altro che questo, non voglio essere altro che questo, non posso essere altro che questo. Per tutto quanto esiste ho una tenerezza dello sguardo, una dolcezza dell’intelligenza: niente del cuore…”

Brano tratto da “Il libro dell’inquietudine” (Feltrinelli)
di Fernando Pessoa

mercoledì 22 maggio 2019

Rumori



Si può raccontare il presente e la realtà che ci circonda anche attraverso gli odori e i rumori che percepiamo nelle nostre città. Chi ha qualche anno sulle spalle - come il sottoscritto - ricorderà certamente quel profumo di pane e formaggi fatti in casa, di  sughi e manicaretti, che proveniva dalle finestre aperte che si affacciavano sulla strada del paese, tipici di una cucina semplice e genuina. Ebbene, quelle antiche fragranze sono ormai un ricordo lontano, soffocate dai gas di scarico delle macchine e dagli effluvi pungenti di fritto dei fast food. E sono spariti pure quei suoni familiari che giungevano dalle botteghe degli artigiani, espressione di un mondo  diverso e di una differente filosofia di vita. Erano mestieri che racchiudevano una vera e propria “arte del fare”, che si tramandavano di padre in figlio, identificativi di un artigianato che oggi appare definitivamente scomparso. La città, oggi, è sinonimo di aria inquinata e rumori molesti. Chi cammina in città è ormai sommerso da una sonorità fastidiosa, che non lascia scampo e che non ha nulla a che vedere con quella del passato, una sonorità che non ha nessun valore positivo: è solo un accanimento selvaggio contro le nostre orecchie e contro la nostra umana sopportazione.

Facevo queste riflessioni mentre mi aggiravo, l’altro giorno, per una delle strade più caotiche e commerciali del centro storico di Roma, Via del Corso. Ero come avviluppato in un groviglio di rumori assordanti di automobili, autobus, taxi, sirene della polizia e delle ambulanze, tra la ressa confusa di una folla di turisti che – beati loro - non sembravano patire questo trambusto, mentre una “musica di sottofondo” a tutto volume, diffusa dagli altoparlanti dei negozi e dei bar lungo i marciapiedi, si riversava in strada come un fiume in piena, trasformando un  luogo così affascinante e ricco di storia, in una baraonda. 

Anche i rumori e lo smog distruggono la bellezza di un posto. Io credo che il fastidio si manifesti in ognuno di noi quando gli effetti acustici perdono la loro dimensione naturale e s’impongono come un’aggressione violenta, che lasciano senza alcuna difesa. Sentire un allarme di una macchina che all’improvviso entra in funzione, o il continuo fragore del traffico, oppure la sirena di un’ambulanza o della polizia, non è come ascoltare il martello di un fabbro o la sega di un falegname. I primi hanno preso il sopravvento sui secondi, che non si fanno più sentire. La tecnologia si è sviluppata di pari passo con l’inquinamento acustico determinando una sempre maggiore infiltrazione di rumori nella vita di tutti i giorni. E se da un lato non riusciamo a controllarne gli eccessi, dall’altro  sembra quasi di provare disagio quando ci troviamo in uno spazio avvolto dal silenzio. E allora dobbiamo riempirlo, aggiungerci dei suoni, dei rumori, delle parole affinché ci tranquillizzino e ci diano sicurezza. Infatti, se stiamo soli in casa, ricorriamo al televisore; in macchina non possiamo fare a meno dell’autoradio; per strada l’immancabile smartphone ci accompagna ovunque; nei locali pubblici, nei negozi, nelle stazioni dei treni e delle metropolitane, l’ossessiva musica di sottofondo percuote i nostri timpani, ormai allo stremo. Mi raccontava un amico che la scorsa estate aveva trascorso un fine settimana in una casa di campagna, ospite di alcuni suoi parenti. Lui, cittadino abituato al frastuono della città, durante quella notte non riuscì a chiudere occhio. Si sentiva assediato – mi diceva – da un silenzio totale che gli procurava un senso di angoscia. Gli erano venuti a mancare quei “rassicuranti” rumori di sottofondo (macchine, motorini, autobus, allarmi, sirene, cantieri…) di cui aveva bisogno per poter dormire.

lunedì 13 maggio 2019

Innamorarsi di una suora



“La suora giovane” di Giovanni Arpino è un racconto di rara bellezza. Un piccolo capolavoro della nostra letteratura, intenso e profondo, che forse pochi conoscono. Ne sono rimasto affascinato: non mi era mai capitato di terminare un libro e volerlo ricominciare a leggere, daccapo. Ho letto altri libri di Giovanni Arpino – un autore che ho imparato ad amare - ma credo che questo sia il più commovente dell’intera sua produzione.

Ci troviamo negli anni ‘50 del secolo scorso, in una Torino gelida e nebbiosa. Antonio Mathis - questo il nome del protagonista del libro - è un impiegato, che vive da solo in due stanze d’affitto e lavora in una ditta d’esportazione e importazione. Poiché sa scrivere, il principale gli affida i compiti più delicati: la pubblicità, i rapporti epistolari con i clienti e la collaborazione con una rivista che tratta temi commerciali. E’ un uomo solitario, abitudinario, che non ha coraggio; si vergogna di tutto, in un mondo dove nessuno pare più vergognarsi di niente. E’ come aggrovigliato in una ragnatela, da cui ha persino il terrore di doverne uscire. E’ fidanzato da cinque/sei anni con Anna, una donna di trentasette anni che non è stata mai una bellezza, gli “fa pena” e si sente “così povero con lei”. Vanno al cinema, al sabato anche a cena, qualche volta dormono insieme, non hanno bisogno di molte parole. Ha, poi, una sorta di relazione amorosa con la collega d’ufficio, Iris, “una quasi amante da corridoio” con la quale non è mai andato oltre qualche insolita e audace carezza. Si sente ridicolo. E’ scappato sempre dalla vita. E i giorni gli sono “scappati via come le notizie dei giornali, a cui credi e non credi”. Tutto gli è successo pigramente, senza interesse, senza volontà, senza alcun entusiasmo. Ha deciso di prendere nota di ciò che gli succede, di scrivere un diario per “controllare avvenimenti e sentimenti” e cercare di capire la sua situazione. Si sente solo. Fino a quando non irrompe nella sua vita, lei: la suora giovane.

La incontra da settimane, forse mesi, alla stessa fermata del tram, alle sette di sera: lei ha quasi vent'anni. Ha scelto il velo monacale per allontanarsi dalla dura vita dei campi. Lui, quarantenne, ne è attratto: la spia, la osserva di nascosto, attento a non farsi notare. Ha capito, però, che questo suo comportamento non la disturba affatto. A volte perde una corsa, pur di aspettarla. E forse lei fa lo stesso, quando non lo vede. Ed ogni volta si domanda: “Dove va a quest’ora, e sola? Probabilmente assiste un malato, o segue chissà quali turni in un ospedale…”. Vorrebbe parlarle, rompere quel muro di silenzio che incombe tra di loro, ma si vergogna e non sa come affrontarla. Non sa trovare “la parola adatta, la faccia giusta”. A volte crede di aver trovato la frase perfetta, la ripete due o tre volte, la rimastica bene, ma poi si frantuma lasciandolo più deluso, più confuso, più irrequieto e impotente di prima. Si accorge che non ha mai avuto, per lei, pensieri o desideri carnali. “E’ questo, innamorarsi? – si chiede - Se è così, cosa significa?” Scopre, con stupore, che non ha mai detto “ti amo” ad una donna. Neanche alla sua fidanzata Anna. E non gli è mai passato per la testa quel desiderio di sentirselo dire. Di colpo capisce cosa, quella monaca, gli ha già dato, senza parlare: la consapevolezza, la capacità di vedersi com’è realmente, come è sempre stato. Lo ha costretto a scoprirsi ed ora sa che lui è “quella pulce, quel niente travestito da uomo ammodo, quarantenne, rispettabile, buon partito”. Non avendo il coraggio di parlarle, gli sembra di scappare e di tradirla ogni sera mentre la tensione in lui diventa sempre più forte…finchè…un martedì del 19 dicembre, le rivolge finalmente la parola, dicendo: “Si può dare la buonasera a una suora?". La suora “si voltò pallida, con gli occhi grandi, subito riprese a fissare il marciapiede opposto. E rispose: “ Non è peccato ”.

"La suora giovane" è un romanzo delicato e malinconico. Ma ciò che lo rende delizioso, godibile e speciale non è tanto la storia di queste due solitudini che si incontrano, quanto la meravigliosa scrittura di Arpino che le descrive, scrittura che in alcune pagine raggiunge vette altissime, di straordinario impatto emotivo.

martedì 7 maggio 2019

Dalla "nausea" di Sartre alla "noia" di Moravia



Tra gli scrittori del Novecento che più ho amato – oltre a Pavese e Svevo - c’è sicuramente Alberto Moravia. Credo di aver letto - soprattutto durante gli anni giovanili - quasi tutti i suoi romanzi e molti dei suoi saggi. Non penso che nell’attuale panorama letterario italiano ci sia un autore che sappia descrivere le inquietudini esistenziali che oggi viviamo, con la stessa autorevolezza e con lo stesso sguardo disincantato con cui Alberto Moravia raccontava la decadenza morale della sua epoca, vista attraverso le vicende dei personaggi dell’alta borghesia romana.

Quando si parla di Moravia, il pensiero va subito al suo romanzo più famoso, “Gli indifferenti”. Egli disse di averlo scritto proprio perché stava dentro la borghesia e non fuori. E che se fosse stato fuori, come alcuni sembravano pensare attribuendogli intenti di critica sociale, avrebbe scritto un altro libro dal di dentro di quella qualsiasi altra società o classe sociale a cui avesse appartenuto. Nonostante praticasse idee di sinistra, Moravia era un borghese e quindi si immedesimava in quei suoi eroi negativi e insofferenti, forse per acquisire consapevolezza di quella sua condizione sociale. E forse per contrastarla. Una volta dichiarò che prima ancora che scriverne, desiderava vivere la tragedia in cui si divincolava la borghesia e tutto ciò che era passione spinta e “violenza”  lo attraeva profondamente, mentre la vita normale, non solo non gli piaceva ma lo annoiava perché gli appariva come una cosa priva di sapore.

Ricordo di averlo incontrato, per caso, un giorno di una trentina di anni fa: era il 1990, l’anno della sua morte. Camminava per il centro di Roma, dalle parti di Piazza del Popolo, con la sua andatura claudicante, in compagnia della seconda moglie, quella Carmen Llera di 45 anni più giovane di lui. Avrei voluto fermarlo un momento per dirgli che apprezzavo la sua scrittura; per chiedergli il perché di quella sua ossessione letteraria verso l’aristocrazia romana e verso quella frenesia erotico-sessuale dei suoi personaggi; per avere magari un suo autografo, io che non ho mai chiesto autografi a nessuno. Ma non me la sentii di disturbarlo. Però gli andai dietro per un po’, quasi per tentare di trovare quel coraggio che mi mancava per parlargli o forse per carpire qualche sua intima parola, prima che entrasse in un cinema di Via del Corso, dove proiettavano un bellissimo film che ancora ricordo: era “Balla coi lupi”, diretto e interpretato da Kevin Costner. La sua recensione - allora collaborava anche con l’Espresso - la lessi, qualche giorno dopo, su quella rivista e mi colpì positivamente, tant’è che decisi di andare al cinema a vederlo.

E’ da un po’ di tempo che volevo rileggere Moravia. Uno scrittore che appare ancora oggi insuperabile - sia come romanziere che come saggista - se lo confronto con certi scribacchini dei nostri tempi.  Mi è capitato così tra le mani “La Noia”, romanzo pubblicato nel 1960 da Bompiani (l’anno successivo avrebbe vinto il Premio Viareggio). E’ forse il libro che meglio di tutti descrive quell’espressione esistenziale dello scrittore romano che - come ben si vede nella foto sopra riportata - lo fa apparire perennemente annoiato. Ed è il libro che più si avvicina, secondo me, all’esistenzialismo di Sartre delineato nel suo capolavoro letterario, “La Nausea”. Sia il protagonista che esce dalla penna di Sartre (lo scrittore Roquentin) che quello di Moravia (il pittore Dino) sono delusi dalle rispettive ambizioni artistiche; entrambi si interrogano sulle ragioni profonde della propria esistenza e vengono travolti, il primo dalla nausea e il secondo dalla noia. Roquentin prova nausea per tutto ciò che lo circonda e per quelle azioni di tutti i giorni per le quali i suoi concittadini si sentono vivi e normali, azioni che a lui invece provocano solo disgusto e repulsione: il lavoro, il ritorno a casa, il menage familiare, la passeggiata domenicale. Insomma il tran tran quotidiano.

Anche Dino, il ricco rampollo trentacinquenne di un’aristocratica famiglia romana, non vive un buon rapporto con la sua vita e con la realtà che lo circonda e spera di poter ristabilire una qualche riconciliazione, soprattutto con se stesso, attraverso l’espressione artistica. Ma questo non sembra funzionare, perché in breve tempo abbandona il suo studio di pittura in via Margutta e ritorna dalla madre, che vive in una lussuosa villa sull’Appia Antica e che lui detesta. Così come detesta la società di sua madre e il suo denaro. Si ritiene un pittore fallito, consapevole del suo fallimento. Ma non perché non sappia dipingere dei quadri, che comunque piacciono agli altri, ma perché sente che la sua arte non gli consente di esprimersi, e quindi di illudersi di avere un rapporto normale con le cose e con le persone; in altre parole non gli impedisce di annoiarsi. Dino aveva cominciato a dipingere proprio per sfuggire alla noia, ma se continuava ad annoiarsi non c’era più ragione di dipingere. E poi c’era di mezzo la sua ricchezza che lo induceva a pensare che esistesse un nesso inscindibile tra la noia e il denaro e che se fosse stato povero non si sarebbe annoiato. Dino passa le sue giornate senza alcuna occupazione, ha una mancanza completa di radici e di responsabilità, è slegato da qualsiasi legame familiare e sociale e, soprattutto, odia la società di cui fa parte la madre, pur attingendo dal conto in banca della stessa ogni volta che ne sente il bisogno. “Non volevo fare assolutamente niente, pur desiderando ardentemente fare qualche cosa – dice il protagonista - io sentivo che non volevo vedere gente ma neppure rimanere solo; che non volevo restare in casa ma neppure uscire; che non volevo viaggiare ma neppure continuare a vivere a Roma; che non volevo dipingere ma neppure non dipingere; che non volevo stare sveglio ma neppure dormire; che non volevo fare l’amore ma neppure non farlo; e così via…Ogni tanto, tra queste frenesie della noia, mi domandavo se per caso non desiderassi morire; era una domanda ragionevole, visto che vivere mi dispiaceva tanto. Ma allora, con stupore, mi accorgevo che sebbene non mi piacesse vivere, non volevo neppure morire”. L’ incapacità del protagonista di relazionarsi con il mondo e con gli altri - vissuta attraverso un’ incessante autoanalisi – quel suo continuo malessere esistenziale che sfocia poi nel disgusto e nella noia, lo scorgiamo anche nel rapporto affettivo con la sua amante, Cecilia. A volte passa intere giornate a pedinarla perché mira, spiandola, ad accertarsi del suo tradimento, ma non già per punirla e comunque impedirle di portare avanti l’infedeltà, ma per liberarsene definitivamente. E per separarsi da lei e placare la sua angoscia, prende anche l’abitudine di pagarla ad ogni incontro amoroso, per provare lo stesso sentimento di svalutazione che provava ogni qual volta retribuiva una prostituta. Soffre terribilmente e attraverso la sofferenza si fa strada in lui un’idea che gli appare estrema: forse la sola maniera per liberarsi di Cecilia, e quindi di possederla davvero e conseguentemente di annoiarsi di lei era sposarla. Non c’era riuscito avendola come amante, era quasi sicuro che ci sarebbe riuscito una volta che fosse diventata sua moglie. “Immaginava con compiacimento che una volta sposata, Cecilia sarebbe diventata una moglie qualunque, piena di occupazioni casalinghe e sociali soddisfatta e senza mistero”. Contava di andare a vivere nella lussuosa villa di sua madre. Quindi il matrimonio, la villa, la madre, la società della madre “erano tutte parti della macchina diabolica nella quale Cecilia sarebbe entrata demone enigmatico e leggiadro e sarebbe riuscita signora borghese qualsiasi”.

Il romanzo  non presenta  una precisa trama  narrativa, non rispecchia i canoni tradizionali della narrazione legati ad una storia con un’origine ed una fine. “La noia” è un lungo e avvolgente monologo introspettivo di un uomo, ossessionato dalle sue fantasticherie maniacali e sessuali. E Moravia, attraverso questo suo perverso personaggio, scava con straordinaria capacità letteraria in quel caos imprevedibile che è l’animo umano e ne tira fuori tutte le sue insanabili contraddizioni.