sabato 16 aprile 2016

Non sappiamo più guardare



Non bisogna mai lasciarsi sfuggire l’occasione per ammirare la bellezza, in qualsiasi forma si manifesti ed in qualunque luogo essa si trovi. E così l’altro giorno, trovandomi a passare dalle parti di San Pietro in Vincoli (siamo a Roma), ho deciso di entrare nella basilica che custodisce il famoso Mosè di Michelangelo, simbolo della tomba di Giulio II. Volevo soffermarmi con la mente e con lo sguardo su quella straordinaria scultura marmorea che mi appare – ogni volta che la vedo – sempre di più come opera di un dio anzichè di un uomo.

Sono entrato quasi in punta di piedi, così come conviene quando ci si accosta alle cose che evocano l’eternità, e mi sono trovato dinanzi ad un gruppo di turisti stranieri (saranno stati una trentina), ognuno dei quali impugnava un telefonino a mò di macchina fotografica e tentava, con le braccia sollevate, di sovrastare gli altri. Ho notato che nessuno dei presenti ammirava con i propri occhi il magnifico gruppo marmoreo che si trovava al loro cospetto: tutti erano intenti a fotografarlo, per poterlo poi osservare entusiasti sul piccolo schermo del cellulare. Devo dire che lo spettacolo mi è sembrato, a dir poco, paradossale. Terminate le foto di rito, le stesse persone hanno iniziato a “selfarsi” girando le spalle al Mosè che, da soggetto della foto, è diventato improvvisamente un semplice sfondo alla loro ostentata individualità. Com’è noto, il Mosè volge la testa verso la sua sinistra e non nella direzione dell’osservatore che gli sta di fronte e, mentre lo osservavo, ho avuto come l’impressione che non volesse affatto guardare quella calca, che fosse quasi infastidito da quei telefonini puntati contro di lui e che rivolgesse, pertanto, il suo sguardo accigliato dall’altra parte. Narra la leggenda che Michelangelo, vista la perfezione della sua opera, abbia colpito violentemente con un martello il ginocchio del Mosè, gridando: “perché non parli?”. Se avesse potuto farlo l’altro giorno, chissà cosa avrebbe detto a quei visitatori colpiti dalla sindrome da macchina fotografica.

Stiamo formando una generazione che non sa più guardare la realtà con i propri occhi e che non sa più vivere senza un supporto elettronico. Con l’avvento dei cellulari, soprattutto i giovani appaiono sempre di più affetti da bulimia fotografica acuta, che li costringe a riprendere qualsiasi cosa si trovi nei loro paraggi, che si muova o stia ferma. Le foto ricordo, che in qualche maniera sostituiscono la memoria e soprattutto lo sguardo, testimoniano non tanto curiosità e interesse culturale, quanto la loro rituale presenza in un determinato luogo. E allora succede che non è importante soffermarsi più di tanto davanti alla bellezza e alla maestosità del Mosè di Michelangelo nella Basilica di San Pietro in Vincoli, ma conta, invece, potersi mostrare ai suoi piedi attraverso un selfie.

10 commenti:

  1. c'è qualcosa di grottesco in questi comportamenti, oltre che di infinitamente triste. Il selfie a testimoniare una presenza che è stata un'assenza dall'esserci veramente, con gli occhi e con la mente.
    massimolegnani

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    1. Dici bene: una presenza che testimonia un'assenza. Ciao Carlo

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  2. Ho visto il Mosè di Michelangelo qualche tempo fa. Ho fatto le mie foto perché tanta meraviglia merita. Le faccio sempre.
    Poi, però, mi sono presa il mio bel quarto d'ora di rapimento estatico. Prima lateralmente, per osservare diritto negli occhi il bellissimo volto di Mosè, poi frontalmente per guardare l'effetto che Michelangelo voleva ottenere.
    I turisti? Ce ne erano decine. Di solito mi faccio largo a gomitate e invado i loro selfie. Rido...

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    1. Sia ben chiaro: io non ce l'ho con chi fa una foto a un monumento. Non sopporto le mode, i comportamenti di massa, le isterie collettive: e i telefonini, secondo me, hanno contribuito a rendere più stupide e ridicole le persone. Ricordo che qualche tempo fa ridevamo dei turisti giapponesi che venivano da noi e fotografavano qualsiasi cosa incontrassero lungo il cammino. Da quando esistono i telefonini siamo diventati tutti "giapponesi".

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  3. Ho copiato il post, Remigio. Penso di usarlo, almeno parzialmente, sul blog Del furore di avere libri. Non sono brava con i collegamenti, ma citerò comunque la fonte.
    Detto questo, aggiungo che la tecnologia è usata molto male.
    Ci stiamo perdendo. Quando non respiriamo un ambiente, non ci immergiamo nella musica, non lasciamo entrare nei pori odori, sapori, colori e suoni, mentre il tempo fluisce…
    Appunto, conta “l’apparire”.
    Ma l’essere sta sbiadendo.

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    1. Innanzitutto benvenuta qui.
      Hai colto l'essenza del mio post: siamo diventati schiavi della tecnologia e, come scrivi tu, "ci stiamo perdendo". Ormai ci affidiamo ad essa anche quando non ce ne sarebbe bisogno. Siamo arrivati al punto che per vedere se fuori piove o c'è il sole, non ci affacciamo più alla finestra, ma consultiamo lo smartphone. La cosa è davvero preoccupante.

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  4. Ho lavorato 13 anni in un museo e conosco la questione, alle volte "riacchiappabo"i visitatori e li riaccomoagnavo innanzi ai reperti per spiegargli quello che si erano persi poco prima.

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    1. Buongiorno Sara...è vero, i visitatori a volte sono molto distratti. Tra una telefonata, un sms e un selfie, si perdono la bellezza e dimenticano il motivo per cui si trovavano in quel determinato posto.

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  5. Scusa gli errori, ma scrivo con un tablet.

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