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giovedì 1 maggio 2014

Vai a zappare!



Riporto di seguito un mio post pubblicato su la rivista on line  http://www.lamandragola.org/?p=2062#more-2062

Ai miei tempi quando uno non aveva voglia di studiare veniva immancabilmente rimproverato con un bel “vai a zappare”. Nell’immaginario collettivo era un modo per dire che chi non era portato per la “cultura” e per le lettere poteva dedicarsi solo alla “coltura” e quindi alla terra. Zappare la terra, nella vecchia concezione della società contadina e preindustriale, non richiedeva una particolare preparazione scolastica e, di conseguenza, era un’attività da disprezzare, adatta solo  alle persone rozze e dotate di poca intelligenza. Io comunque non sono mai stato di quest’avviso. Ho sempre visto il contadino e quindi il zappatore (di leopardiana memoria) come una figura di tutto rispetto; ho sempre considerato nobile il suo lavoro che nasce con la comparsa stessa dell’uomo sulla terra. D’altra parte, prima ancora che diventassimo falegnami o muratori, medici o avvocati,  impiegati o manager, siamo stati zappatori della terra da cui ha origine tutto il necessario per la nostra sussistenza.

Pare che oggigiorno l’accostamento  “ignorante uguale zappatore” sia stato definitivamente superato tant’è che Carlo Petrini, il fondatore del movimento “Slow Food”, che si propone il ritorno ad un’alimentazione ed a uno stile di vita più naturali,  recentemente ha detto che << l’era del  “vai a zappare”  per chi non è portato per studiare è finita da un pezzo. Oggi a zappare ci vanno quelli che studiando hanno capito che è a partire dal cibo che si cambia il mondo, e si migliora l’ambiente, la salute, la qualità della vita di tutti >>. Fino a qualche anno fa, probabilmente, nessuno si sarebbe mai aspettato una simile rivalutazione di quello che era considerato il lavoro più umile e dequalificante; nessuno avrebbe scommesso sull’agricoltura contadina, protagonista di un processo di ritorno alla terra per migliorare la qualità della vita.
Va detto che la nostra civiltà contadina – e mi riferisco in particolare a quella meridionale – è rimasta immutabile per tanti secoli, chiusa nei suoi riti arcaici e nella sua miseria. Tale condizione ci è stata raccontata, come ben sappiamo, da alcuni grandi scrittori del Novecento, come Francesco Jovine, Ignazio Silone, Corrado Alvaro. Una società, quella contadina, che nel giro di qualche decennio – a cominciare dagli anni 50 e fino agli anni 70 – ha subito una immediata evoluzione e si è disgregata attraverso la fuga massiccia dal lavoro duro e poco remunerativo della campagna verso le grandi industrie delle città del Nord. Questa fase – che ha coinciso con il boom economico caratterizzato da una forte crescita e da uno sviluppo tecnologico molto intenso – se da una parte ha creato condizioni di vita migliori dal punto di vista economico, dall’altra ha prodotto una sorta di frattura tra mondo agricolo e territorio, accompagnata da un forte degrado ambientale che ha visto prevalere un modello agricolo insostenibile fatto di colture intensive, con uso massiccio di composti chimici che avvelenano la terra – sfruttandola oltre ogni logica naturale – oltre che i frutti che la stessa produce.

Come sostiene il professor Serge Latouche, uno dei principali fautori della “decrescita”, bisogna rivedere l’uso del territorio, come bene comune da preservare, elemento centrale di tutta la cultura umana, togliendo una maggiore quantità di terra all’agricoltura intensiva, alla speculazione fondiaria, all’impatto inquinante dell’asfalto e del cemento per darla all’agricoltura contadina, biologica, rispettosa degli ecosistemi. Bisogna rendersi conto che una crescita infinita, su cui si fonda sempre di più la nostra società, è incompatibile con un pianeta finito, fatto di risorse destinate ad esaurirsi con il tempo. Il pianeta che noi abitiamo non ci basta più e per poter continuare a tenere lo stesso tenore di vita, ne occorrerebbero molti di più. Per assicurare il benessere all’insieme dell’umanità, la Banca mondiale ha calcolato che nel 2050, la produzione di ricchezza dovrebbe essere quattro volte superiore a quella attuale. Ma come è possibile pensare che si possa produrre all’infinito?
Oggi si parla tanto di Pil; purtroppo, nella formulazione di questo indicatore economico non sono comprese quelle attività e quelle risorse che, sebbene concorrano al benessere di un paese, non vengono prese in considerazione in quanto non hanno un valore mercantile. Infatti il Pil esclude dai propri parametri l’aumento del tempo libero come una ricchezza degna di essere contabilizzata, oppure l’acqua pura o l’aria non inquinata; non tiene conto della salute dei nostri figli, della qualità della loro istruzione, del divertimento, della bellezza dell’arte.

E’ necessario, allora, che nella nostra società i valori di riferimento ed i comportamenti delle persone vengano rivisti e magari sostituiti con altri più opportuni: quindi il sostegno reciproco e la solidarietà dovrebbero avere la preminenza sulla competizione sfrenata,  il gusto per il bello sull’efficienza produttiva, il consumo di prodotti locali dovrebbe avere il sopravvento su quelli d’importazione, il biologico dovrebbe sostituire l’industriale. E’ necessaria una vera e propria rivoluzione culturale; è fondamentale abbandonare l’idea secondo cui l’unico scopo della vita è quello di produrre e consumare sempre di più. A tal proposito, c’è da dire che già si avvertono dei piccoli segnali che fanno ben sperare; in particolare, per quanto riguarda i problemi legati all’agricoltura, si sta diffondendo sul territorio un modo di coltivare la terra sempre più vicino a quello tradizionale, che veniva adottato dai nostri nonni. Questo conferma il fallimento del modello agroindustriale che utilizza dosi massicce di diserbanti, a scapito della qualità e della bontà del cibo che arriva sulle nostre tavole. Oggi, chi ha la possibilità, abbandona la città per la campagna, per dedicarsi alla coltivazione del proprio orticello con sistemi naturali; si sta tornando a quegli antichi metodi di conservazione delle sementi che si tramandavano i contadini del passato, al fine di salvaguardare prodotti e conoscenze altrimenti destinati a scomparire. Sempre più spesso piccoli imprenditori agricoli si organizzano in associazioni per contrastare la grande distribuzione, dando vita a mercatini dove si possono comprare prodotti a Km 0 a prezzi decisamente inferiori, grazie alla filiera corta dal produttore al consumatore. Nelle grandi città, da alcuni anni, si stanno moltiplicando i cosiddetti orti urbani: piccoli fazzoletti di terra che vengono affidati ai cittadini, in comodato d’uso a titolo gratuito, ed utilizzati per le coltivazioni ortofrutticole. E’ un mezzo efficace per salvaguardare il territorio comunale dal degrado e dall’abbandono e consentire, altresì, ai beneficiari non solo di riappropriarsi del territorio, ma anche di riscoprire quell’antico e nobile piacere di vedere crescere e gustare frutta e verdura prodotta con le proprie mani. O meglio con la propria zappa.

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