Riporto di seguito un mio post pubblicato su la
rivista on line http://www.lamandragola.org/?p=2062#more-2062
Ai miei tempi quando uno non aveva voglia di studiare
veniva immancabilmente rimproverato con un bel “vai a zappare”.
Nell’immaginario collettivo era un modo per dire che chi non era portato per la
“cultura” e per le lettere poteva dedicarsi solo alla “coltura” e quindi alla
terra. Zappare la terra, nella vecchia concezione della società contadina e
preindustriale, non richiedeva una particolare preparazione scolastica e, di
conseguenza, era un’attività da disprezzare, adatta solo alle persone
rozze e dotate di poca intelligenza. Io comunque non sono mai stato di
quest’avviso. Ho sempre visto il contadino e quindi il zappatore (di
leopardiana memoria) come una figura di tutto rispetto; ho sempre considerato
nobile il suo lavoro che nasce con la comparsa stessa dell’uomo sulla terra.
D’altra parte, prima ancora che diventassimo falegnami o muratori, medici o
avvocati, impiegati o manager, siamo stati zappatori della terra da cui
ha origine tutto il necessario per la nostra sussistenza.
Pare che oggigiorno l’accostamento “ignorante
uguale zappatore” sia stato definitivamente superato tant’è che Carlo Petrini,
il fondatore del movimento “Slow Food”, che si propone il ritorno ad
un’alimentazione ed a uno stile di vita più naturali, recentemente ha detto
che << l’era del “vai a zappare” per chi non è portato per
studiare è finita da un pezzo. Oggi a zappare ci vanno quelli che studiando
hanno capito che è a partire dal cibo che si cambia il mondo, e si migliora
l’ambiente, la salute, la qualità della vita di tutti >>. Fino a qualche anno fa, probabilmente,
nessuno si sarebbe mai aspettato una simile rivalutazione di quello che era
considerato il lavoro più umile e dequalificante; nessuno avrebbe scommesso
sull’agricoltura contadina, protagonista di un processo di ritorno alla terra
per migliorare la qualità della vita.
Va detto che la nostra civiltà contadina – e mi
riferisco in particolare a quella meridionale – è rimasta immutabile per tanti
secoli, chiusa nei suoi riti arcaici e nella sua miseria. Tale condizione ci è
stata raccontata, come ben sappiamo, da alcuni grandi scrittori del Novecento,
come Francesco Jovine, Ignazio Silone, Corrado Alvaro. Una società, quella
contadina, che nel giro di qualche decennio – a cominciare dagli anni 50 e fino
agli anni 70 – ha subito una immediata evoluzione e si è disgregata attraverso
la fuga massiccia dal lavoro duro e poco remunerativo della campagna verso le
grandi industrie delle città del Nord. Questa fase – che ha coinciso con il
boom economico caratterizzato da una forte crescita e da uno sviluppo
tecnologico molto intenso – se da una parte ha creato condizioni di vita
migliori dal punto di vista economico, dall’altra ha prodotto una sorta di
frattura tra mondo agricolo e territorio, accompagnata da un forte degrado
ambientale che ha visto prevalere un modello agricolo insostenibile fatto di
colture intensive, con uso massiccio di composti chimici che avvelenano la
terra – sfruttandola oltre ogni logica naturale – oltre che i frutti che la
stessa produce.
Come sostiene il professor Serge Latouche, uno dei
principali fautori della “decrescita”, bisogna rivedere l’uso del territorio,
come bene comune da preservare, elemento centrale di tutta la cultura umana,
togliendo una maggiore quantità di terra all’agricoltura intensiva, alla
speculazione fondiaria, all’impatto inquinante dell’asfalto e del cemento per
darla all’agricoltura contadina, biologica, rispettosa degli ecosistemi.
Bisogna rendersi conto che una crescita infinita, su cui si fonda sempre di più
la nostra società, è incompatibile con un pianeta finito, fatto di risorse
destinate ad esaurirsi con il tempo. Il pianeta che noi abitiamo non ci basta
più e per poter continuare a tenere lo stesso tenore di vita, ne occorrerebbero
molti di più. Per assicurare il benessere all’insieme dell’umanità, la Banca
mondiale ha calcolato che nel 2050, la produzione di ricchezza dovrebbe essere
quattro volte superiore a quella attuale. Ma come è possibile pensare che si
possa produrre all’infinito?
Oggi si parla tanto di Pil; purtroppo, nella
formulazione di questo indicatore economico non sono comprese quelle attività e
quelle risorse che, sebbene concorrano al benessere di un paese, non vengono
prese in considerazione in quanto non hanno un valore mercantile. Infatti il
Pil esclude dai propri parametri l’aumento del tempo libero come una ricchezza
degna di essere contabilizzata, oppure l’acqua pura o l’aria non inquinata; non
tiene conto della salute dei nostri figli, della qualità della loro istruzione,
del divertimento, della bellezza dell’arte.
E’ necessario, allora, che nella nostra società i
valori di riferimento ed i comportamenti delle persone vengano rivisti e magari
sostituiti con altri più opportuni: quindi il sostegno reciproco e la
solidarietà dovrebbero avere la preminenza sulla competizione sfrenata,
il gusto per il bello sull’efficienza produttiva, il consumo di prodotti
locali dovrebbe avere il sopravvento su quelli d’importazione, il biologico
dovrebbe sostituire l’industriale. E’ necessaria una vera e propria rivoluzione
culturale; è fondamentale abbandonare l’idea secondo cui l’unico scopo della
vita è quello di produrre e consumare sempre di più. A tal proposito, c’è da
dire che già si avvertono dei piccoli segnali che fanno ben sperare; in
particolare, per quanto riguarda i problemi legati all’agricoltura, si sta
diffondendo sul territorio un modo di coltivare la terra sempre più vicino a
quello tradizionale, che veniva adottato dai nostri nonni. Questo conferma il
fallimento del modello agroindustriale che utilizza dosi massicce di
diserbanti, a scapito della qualità e della bontà del cibo che arriva sulle
nostre tavole. Oggi, chi ha la possibilità, abbandona la città per la campagna,
per dedicarsi alla coltivazione del proprio orticello con sistemi naturali; si
sta tornando a quegli antichi metodi di conservazione delle sementi che si
tramandavano i contadini del passato, al fine di salvaguardare prodotti e
conoscenze altrimenti destinati a scomparire. Sempre più spesso piccoli
imprenditori agricoli si organizzano in associazioni per contrastare la grande
distribuzione, dando vita a mercatini dove si possono comprare prodotti a Km
0 a prezzi decisamente inferiori, grazie alla filiera corta dal produttore
al consumatore. Nelle grandi città, da alcuni anni, si stanno moltiplicando i cosiddetti
orti urbani: piccoli fazzoletti di terra che vengono affidati ai cittadini, in
comodato d’uso a titolo gratuito, ed utilizzati per le coltivazioni
ortofrutticole. E’ un mezzo efficace per salvaguardare il territorio comunale
dal degrado e dall’abbandono e consentire, altresì, ai beneficiari non solo di
riappropriarsi del territorio, ma anche di riscoprire quell’antico e nobile
piacere di vedere crescere e gustare frutta e verdura prodotta con le proprie
mani. O meglio con la propria zappa.
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