tag:blogger.com,1999:blog-3893643036010260812024-03-18T12:51:29.667-07:00pagine ingiallitePinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.comBlogger461125tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-59648523900405177242024-03-18T02:26:00.000-07:002024-03-18T02:26:18.192-07:00Leggere Mastro Don Gesualdo<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhM6zEgug2njRSS52nymNnYrn1I3pTe-vlKbSlupRHAh511mlkhHEOfU5jhQplJcmKNddlkReBED6ZyXvQuUr5P1yG_kF0hTzBGDa7fDXpO4OS7jL-Zeweprynlp5qQmhZGAApEhoXe9jmwoZN74PkIlf_NYoOCEy9AKjSSPAK93kKEYVD9GYnSEeDdvM9y/s640/Giovanni-Verga-MASTRO-DON-GESUALDO.webp" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="640" data-original-width="480" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhM6zEgug2njRSS52nymNnYrn1I3pTe-vlKbSlupRHAh511mlkhHEOfU5jhQplJcmKNddlkReBED6ZyXvQuUr5P1yG_kF0hTzBGDa7fDXpO4OS7jL-Zeweprynlp5qQmhZGAApEhoXe9jmwoZN74PkIlf_NYoOCEy9AKjSSPAK93kKEYVD9GYnSEeDdvM9y/w283-h320/Giovanni-Verga-MASTRO-DON-GESUALDO.webp" width="283" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">E così, ci sono riuscito anch’io
a leggere <i>“Mastro Don Gesualdo”</i> di Giovanni Verga, un libro che mi
trascinavo dietro, come una zavorra, da oltre mezzo secolo. Un libro che tutti
conoscono – almeno per sentito dire - ma pochi l’hanno davvero letto; un libro
su cui siamo stati interrogati da studenti, il cui protagonista è da
considerare, forse, tra i maggiori della nostra letteratura. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Gesualdo Motta è un muratore di
umili origini della Sicilia rurale della prima metà dell’ Ottocento; è un
“mastro”, come suol dirsi, il quale - dopo essersi arricchito – convola a nozze
con una giovane donna appartenente ad una nobile famiglia decaduta e conquista
il “Don”, quale appellativo di riguardo riservato ai notabili. Per tutti è
Mastro Don Gesualdo: un uomo gretto, astuto, che non dà nessun valore ai
sentimenti, attaccato ossessivamente alla sua “roba”, detestato e invidiato,
per la rapida ascesa sociale, tanto dal basso ceto da cui proviene, quanto dalla
nobiltà del paese che lo annovera tra i propri ranghi.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Un libro che mette in risalto
due opposte visioni del mondo, due diverse realtà che si confrontano e si
sfidano, senza mai trovare un punto d’incontro: da una parte la logica
mercantile di un povero contadino che, diventato un ricchissimo proprietario
terriero, tenta di emanciparsi socialmente, terrorizzato dalla paura di perdere
la “roba” conquistata con tanta fatica e, dall’altra, l’ipocrisia e la superbia
di una nobiltà di paese in declino, alla fine della sua parabola ascendente,
corrosa da debiti e ipoteche. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Che dire: appare quasi
anacronistica, oggi, la lettura di questo libro;<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>eppure, per comprendere meglio l’epoca in cui
viviamo, a volte sarebbe necessario prendere le mosse proprio da certi testi
letterari e dai fatti che raccontano, quei fatti scanditi in modo lento e
ripetitivo dai tempi ciclici della natura, tanto che nell’arco di un’intera
esistenza poteva capitare di non assistere a nessun tipo di cambiamento. Oggi,
invece, i cambiamenti sono diventati inarrestabili grazie ai mezzi tecnologici
che hanno determinato una compressione del tempo e dello spazio, imprigionando
l’uomo moderno in un eterno presente che lo rende incapace, tanto di trarre
insegnamento dagli errori e dalle virtù del passato, quanto di immaginare un
futuro migliore. E allora, mi piace pensare che nel leggere Mastro Don Gesualdo
– visto che è ancora presente nei programmi scolastici – gli studenti sappiano
cogliere dalla tragedia umana ed esistenziale di questo antieroe della nostra
letteratura che aveva affidato il suo riscatto sociale alla ricchezza, quel
messaggio non scritto che però aleggia tra le pagine del libro, ossia: la
felicità di un uomo non si può acquistare e la bramosia di possesso (l’accumulo
di “roba” per Mastro Don Gesualdo) è sempre fonte di tensioni perché suggerisce
una visione del mondo e della società distorta. <o:p></o:p></span></p><br /><p></p>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-73115325393157544092024-03-08T02:46:00.000-08:002024-03-08T02:46:01.069-08:00Un eremo non è un guscio di lumaca<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj_UJmBGbNcMav1YeVldjqVKHU7sNwyllrnQdGuMmC-Ksb9JZ_gByCTjgv7XQXeAt7pINyMnJtc50T57e6Evxzzm1p3dYgoNc1h4phFmlz5vH5E48lOWcgutGae4pn0bL1f5NnTgzyH-42POmoHi3W7yTcumuDvbfe_uq-v6Qo1k9T03gttnFi24i-bHRDw/s259/eremo%20zarri.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="194" data-original-width="259" height="194" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj_UJmBGbNcMav1YeVldjqVKHU7sNwyllrnQdGuMmC-Ksb9JZ_gByCTjgv7XQXeAt7pINyMnJtc50T57e6Evxzzm1p3dYgoNc1h4phFmlz5vH5E48lOWcgutGae4pn0bL1f5NnTgzyH-42POmoHi3W7yTcumuDvbfe_uq-v6Qo1k9T03gttnFi24i-bHRDw/w304-h194/eremo%20zarri.jpg" width="304" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="background: white; line-height: normal; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"></p><p class="MsoNormal" style="background: white; line-height: normal; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="color: #222222; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; mso-bidi-font-family: Arial; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT; mso-font-kerning: 0pt; mso-ligatures: none;">Quando si pensa all’eremita, inevitabilmente affiorano alcuni pregiudizi
duri a morire: si ritiene che il soggetto sia un asociale, che abbia paura
della vita e allora non fa che chiudersi nel suo guscio, al riparo dalle
difficoltà e dal mondo. Ma non è così. Scrive Adriana Zarri – teologa e
scrittrice morta alcuni anni fa – in un suo libro che si intitola “Un eremo non
è un guscio di lumaca” che un eremita <i>“non è un misantropo
inavvicinabile, non è nemmeno necessariamente un recluso che non possa, di
tanto in tanto, muoversi e incontrarsi con la gente, che non possa soprattutto
ricevere chi venga a condividere qualche ora della sua solitudine e a fargli dono
della sua amicizia. L’eremita è semplicemente uno che sceglie di vivere da solo
perché nella solitudine ha il suo momento privilegiato d’incontro”.</i> Ecco,
l’incontro si può avere solo in solitudine: l’incontro con gli uomini, l’incontro
con sé stessi, l’incontro con Dio e con la preghiera (per chi crede) e
l’incontro con la scrittura. Si, perché quando si scrive, e di conseguenza
quando si legge, si sta in solitudine e, quindi, tanto la scrittura quanto la
lettura sono attività eremitiche.</span><span style="background-color: transparent; font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt; text-align: left;"> </span></p>
<p class="MsoNormal" style="background: white; line-height: normal; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="color: #222222; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; mso-bidi-font-family: Arial; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT; mso-font-kerning: 0pt; mso-ligatures: none;">Adriana Zarri era una donna libera che non aveva paura di esporsi a difesa
delle sue idee e dei suoi principi. Non aveva mai praticato l’arrendevolezza:
preferiva legare l’asino dove meglio credeva, anziché legarlo dove voleva il
padrone. E, ad un certo punto della sua vita, decise di trasferirsi in una
cascina sulle colline attorno ad Ivrea e di vivere da eremita, raccontando questa
sua esperienza esistenziale in questo libro molto intenso. Il suo intento era quello
di contestare, in qualche maniera, il nostro mondo che si fonda essenzialmente
sull’ arrivismo e sul carrierismo, che predilige gli arrampicamenti sociali,
calpestando magari i diritti delle classi più deboli. Ma desiderava anche
sottolineare che, oggigiorno, alcuni valori sociali sembrano completamente
dimenticati come il silenzio, il rispetto della natura e la preghiera, intesa -
per un non credente – quale momento di ascolto interiore. Per la Zarri un eremo
non è un guscio di lumaca: e lei non vi si era rinchiusa, ma aveva solo scelto
di vivere in piena libertà, lontana dal clamore, lottando contro quella falsa
retorica dello “stare insieme”, che vede i solitari come persone
individualiste, nemici del vivere sociale. Ma il singolo, affinché possa
acquistare una sua autonomia di pensiero e di giudizio che gli consenta di
inserirsi nella comunità senza <i>“affogarvi dentro”,</i> ha bisogno di uno
spazio di silenzio che gli permetta di non essere plagiato dal gruppo e da quei
persuasori occulti che oggi si annidano nei mass media. <i>“Silenzio e
solitudine sono valori ineludibili”</i> affermava la teologa; ma la cosa
più interessante è che in ciascuno di noi <i>“c’è una valenza monastica
che attende d’essere tratta in superficie e sviluppata secondo le varie
vocazioni”.</i></span><span style="background-color: transparent; font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt; text-align: left;"> </span></p>
<p class="MsoNormal" style="background: white; line-height: normal; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="color: #222222; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; mso-bidi-font-family: Arial; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT; mso-font-kerning: 0pt; mso-ligatures: none;">Consiglio vivamente questo libro a chi oggi va sempre di fretta; a chi è
convinto che i soldi siano l’unico valore in cui credere; a chi pensa che la
solitudine sia un isolamento e un tagliarsi fuori e non, invece, un vivere
dentro, percorsa da voci e animata di presenze. Lo consiglio a chi si fa
possedere dalla tecnologia e dalle cose, anziché possederle; a chi si lascia
stordire dalla folla e dal rumore, dimenticando che il silenzio <i>“contiene
ogni possibile parola”. </i>Lo consiglio a chi non ha mai coltivato l’
“otium”, come l’ha coltivato per tutta la vita questa grande testimone dei
nostri tempi.</span><span face=""Arial",sans-serif" style="color: #222222; font-size: 14pt; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT; mso-font-kerning: 0pt; mso-ligatures: none;"><o:p></o:p></span></p><br /><p></p><p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhJPIvHRkFbb_GkRCKoJOz-vWikSRQ1N4E0Ts8D8lD9hRr0ucRcT6JdWZyhs0XLtuNaYpJGtXwJc9gPfOGxNYD-WReHjkZYbS41mWa_EdvOr_1yGtzDADzXMK1BI3TssDKroNVIV5Z-fWnXR1q_gz7UALbWUEMEkxyjVu7zmfsxlTUtlNqP46LDjBfjpuEi/s826/libro%20zarri.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="826" data-original-width="536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhJPIvHRkFbb_GkRCKoJOz-vWikSRQ1N4E0Ts8D8lD9hRr0ucRcT6JdWZyhs0XLtuNaYpJGtXwJc9gPfOGxNYD-WReHjkZYbS41mWa_EdvOr_1yGtzDADzXMK1BI3TssDKroNVIV5Z-fWnXR1q_gz7UALbWUEMEkxyjVu7zmfsxlTUtlNqP46LDjBfjpuEi/s320/libro%20zarri.jpg" width="208" /></a></div><br /><div><br /></div>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com8tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-44332122874576450372024-03-02T05:29:00.000-08:002024-03-02T05:29:22.777-08:00Il realismo magico di Antonio Donghi<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhy4JZT_BzvgiG9WVsaLfckpW5OBxBEGYU6X_c6QVnkC3TG20O9TrI6777JOCvW_uu6uwPYpEb3TkPWq_Jz6tt37-OmMNVs6FfsB-RN6G9iA1r8Hd6MarZmo7XKMqUXiwPKu1Fl-qdhJ0mNrGQAS-ynwVDdPeJ3jaEw7TZVKVDVtvl7Zsj8oCoG24lmyH4W/s1200/Gita-in-barca.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="887" data-original-width="1200" height="237" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhy4JZT_BzvgiG9WVsaLfckpW5OBxBEGYU6X_c6QVnkC3TG20O9TrI6777JOCvW_uu6uwPYpEb3TkPWq_Jz6tt37-OmMNVs6FfsB-RN6G9iA1r8Hd6MarZmo7XKMqUXiwPKu1Fl-qdhJ0mNrGQAS-ynwVDdPeJ3jaEw7TZVKVDVtvl7Zsj8oCoG24lmyH4W/w340-h237/Gita-in-barca.jpg" width="340" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Qualcuno ha detto che è
impossibile, se non irriverente, commentare e descrivere un’opera d’arte. Davanti
a un dipinto o ad una scultura possiamo solo guardare e lasciarci guidare,
prima ancora che dal nostro stato d’animo, dalle emozioni che proviamo. E le
emozioni non si possono raccontare, vanno semplicemente vissute. La parola
scritta appare incompleta, insufficiente, e rischia di sovrapporsi a quanto il
dipinto o la scultura vogliono trasmetterci. A questo pensavo mentre mi
aggiravo per le sale di Palazzo Merulana a Roma, dove è stata allestita una
mostra dedicata ad Antonio Donghi, uno dei maggiori esponenti del cosiddetto
“realismo magico”, uno stile pittorico tra fantasia e realtà. <o:p></o:p></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgRiLglXLrHLsZUalmfItlO1kUyh6U6SMgtgy-bvtHX1f8i-QTRWM9mJHqT-LOnv8gO3E57-jPdKqEj8dhMAdmVkRmbf_XRQwHi9eEQUyvsSxOB3KvbWL3Lza99zmCzzHop7U_RxaF9iso0PI4GsjZKv8MjA2UgdNQ5ZngoRShfBk8RksWBIz-3qabW-reU/s320/donghi%20immagine%202.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="320" data-original-width="263" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgRiLglXLrHLsZUalmfItlO1kUyh6U6SMgtgy-bvtHX1f8i-QTRWM9mJHqT-LOnv8gO3E57-jPdKqEj8dhMAdmVkRmbf_XRQwHi9eEQUyvsSxOB3KvbWL3Lza99zmCzzHop7U_RxaF9iso0PI4GsjZKv8MjA2UgdNQ5ZngoRShfBk8RksWBIz-3qabW-reU/s1600/donghi%20immagine%202.jpg" width="263" /></a></div><br /><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;"><br /></span><p></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Questo artista mi affascina
molto per le sue immagini inafferrabili e a volte indecifrabili, per le sue
figure avvolte nel silenzio, sospese nell’attesa e nel mistero che sembrano inseguire
una sorta di “incanto esistenziale”, per dirla con le parole dello storico
dell’arte Bernard Berenson. Icone morbide e aggraziate, comunicano con la loro
postura quasi ieratica, una bellezza taciturna e solenne. E ci osservano,
chiuse nel loro mondo fuori dal tempo. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Il realismo magico di Antonio
Donghi – scrive il curatore della mostra Fabio Benzi – è “intriso di una
dimensione tutta romana, per la luce immobile di pomeriggi tiepidi, per la
rilassatezza di pose e scene, per l’aria scanzonata di alcuni personaggi, che
non sai se ti fissano severi o stanno scherzando, per l’ambiguità di fondo”.<o:p></o:p></span></p><br /><p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhntSOn3mQZ2axnzLXHaNFYU5jtlgDbrlZrOywrDaLggpGUG6Am16XgDx5w0zeTUBMcv1neLRvPb1_J4Yo4U-DvKBFaE8bsVR9wxLSnGCbEzkF3kUsH_SREk8FExGrXmihvZMtCu-EVaig8RT-FlG0ZcN1oz5l_WJ3OGv0w4x6aeNRMcBBC0iDHLqmhmAbF/s800/donghi%20immagine.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="600" data-original-width="800" height="240" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhntSOn3mQZ2axnzLXHaNFYU5jtlgDbrlZrOywrDaLggpGUG6Am16XgDx5w0zeTUBMcv1neLRvPb1_J4Yo4U-DvKBFaE8bsVR9wxLSnGCbEzkF3kUsH_SREk8FExGrXmihvZMtCu-EVaig8RT-FlG0ZcN1oz5l_WJ3OGv0w4x6aeNRMcBBC0iDHLqmhmAbF/s320/donghi%20immagine.jpg" width="320" /></a></div><br />Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-10683802057139732002024-02-26T01:44:00.000-08:002024-02-27T09:00:21.235-08:00Diario siciliano: alla ricerca della felicità perduta<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjjYI1BMTKIHj5L7nTasAWHSKo9Qr8uQkT4XD9CQLPGYGhdmL9Fh3Bjoc4j8CVYKm-OihwZjzBGz6FOaNNwVs9UOaY5BEEiAiqQuta16ug9PrVeNZmT2O-14CMQ18JDFSx3f-9extS4k4nOvo8W3oFgOl8y5Pb3HPdAmN5ukah7HVzMywPQQO2P0sWZ34cX/s256/foto%20patti.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="256" data-original-width="193" height="256" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjjYI1BMTKIHj5L7nTasAWHSKo9Qr8uQkT4XD9CQLPGYGhdmL9Fh3Bjoc4j8CVYKm-OihwZjzBGz6FOaNNwVs9UOaY5BEEiAiqQuta16ug9PrVeNZmT2O-14CMQ18JDFSx3f-9extS4k4nOvo8W3oFgOl8y5Pb3HPdAmN5ukah7HVzMywPQQO2P0sWZ34cX/w233-h256/foto%20patti.jpg" width="233" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="color: black; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%; mso-bidi-font-family: "Noto Sans";">Amo leggere i grandi narratori siciliani del passato. Sono
quelli provenienti dalla “provincia intelligente”, per usare una espressione
cara a Leonardo Sciascia, che hanno fatto la storia della letteratura del nostro
Novecento. E poi sono spariti, relegati nel dimenticatoio dall’esercito dei
nuovi romanzieri di successo, i moderni interpreti e cantori del mondo attuale.
Tra questi scrittori dimenticati c’è sicuramente Ercole Patti, il cui percorso
umano e letterario si svolse tra Catania (dove nacque nel 1903) e Roma, che lo
accolse e lo celebrò giovanissimo e dove si spense nel 1976. </span><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">Grande
amico di Vitaliano Brancati – altro figlio illustre di quella “provincia
intelligente” - seppe descrivere mirabilmente nei suoi libri quella sicilianità
che forse non esiste più, quel mondo dove la vita scorreva lenta, sonnacchiosa,
monotona, noiosa...e dolce. Così dolce, ebbe a scrivere lo stesso Ercole Patti
in un suo romanzo "che si poteva invecchiare senza accorgersene e
ritrovarsi ad averla vissuta tutta senza averne avuto coscienza, rimanendo
sempre figli di famiglia. Questo era il dolcissimo veleno di Catania".<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">Cercavo, da molto tempo, un suo libro
che si intitola “Diario siciliano”: una raccolta di brani scritti in momenti
diversi - molti dei quali pubblicati in più giornali del passato - e assemblati
in un unico volume nel 1971, libro che non viene più stampato. E dove potevo
trovarlo se non sul banchetto di un mercatino dell’usato? Devo dire che,
nell’acquistarlo a soli tre euro, ho provato la stessa gioia che avverte un
bambino nel ritrovare un giocattolo che credeva perduto per sempre. <o:p></o:p></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgj32aWdgr3LKD5eTCybk_uW93-fyK7eEhZ0twTN957Es6ImeXJZKcyTEGC1fxpT2gszvIItYM9OLjvN90sbad33CmlM_k-KfeYErpUhncwbMZXJgzsBBDlNZ0Wp7OhybMH0sPUxv0i-iel0sh9dHSyeF8VyFU7tOd_65uZW-kPuQgYf3krDNs5utb0tDZ2/s1000/81xoVSu3m9L._AC_UF1000,1000_QL80_.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1000" data-original-width="652" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgj32aWdgr3LKD5eTCybk_uW93-fyK7eEhZ0twTN957Es6ImeXJZKcyTEGC1fxpT2gszvIItYM9OLjvN90sbad33CmlM_k-KfeYErpUhncwbMZXJgzsBBDlNZ0Wp7OhybMH0sPUxv0i-iel0sh9dHSyeF8VyFU7tOd_65uZW-kPuQgYf3krDNs5utb0tDZ2/s320/81xoVSu3m9L._AC_UF1000,1000_QL80_.jpg" width="209" /></a></div><br /><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;"><br /></span><p></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">“Diario siciliano” è un “viaggio
autunnale compiuto a ritroso”, come lo definì l’autore, il quale contiene una
trentina di racconti brevi autobiografici, scritti in forma diaristica tra il
1970 e il 1931. E’ una narrazione, questa – come peraltro il genere epistolare –
che io considero di grande spessore letterario e che permette, all’autore prima
ancora che al lettore, di soddisfare quell’estremo bisogno di tornare indietro
nel tempo per riacciuffare, con la memoria, barlumi di felicità perduta. E
questo libro di Ercole Patti, dalla prosa gradevole e armoniosa imbevuta di
dolce malinconia, ne è la felice testimonianza. Attraverso il filtro incantato
e poetico della sua scrittura, lo scrittore siciliano riesce a dare vita e voce
a paesaggi, sentimenti, persone, odori, oggetti e gesti di un mondo scomparso.
Vergati a ritroso, dagli anni più recenti a quelli della sua giovinezza, questi
brevi capitoli del Diario sono come tasselli di un puzzle attraverso il quale l’autore
sembra voler stemperare le proprie amarezze, la propria nostalgia e ricercare -
per sé e per il lettore - quella felicità perduta. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">Ecco, allora, la descrizione minuziosa
degli oggetti che ci sono in un'antica casa di campagna, quel vecchio portone
sprangato che evoca ricordi, il limone che cresce nell’orto i cui rami sfiorano
il davanzale, l’antico uliveto che sorge tra rocce di lava secolare sulle
pendici dell’Etna, dove fioriscono erbe selvatiche, ginestre e macchie di
capperi; e poi l’odore inconfondibile e forte del frantoio, quello intenso
delle olive macinate che piglia alla gola con una forza inebriante; il silenzio
e la frescura dei paesetti che circondano le pendici dell’Etna immersi in un
grande languore, in un dolcissimo letargo; e poi il suo amato paesino
dell’infanzia – Pozzillo – tra Acireale e Catania, carico di agrumi e di olivi
che si affacciano sui muretti a secco che costeggiano le strade; e il silenzio
degli ulivi che si unisce al silenzio del mare che appare calmo e luminoso in
fondo alle brevi stradine laterali che finiscono all’improvviso fra gli scogli;
e ancora la vecchia credenza restaurata da cui emana un odore di lontana vita
familiare e di affetti e che ricorda l’aria felice dei tempi dell’infanzia; il piccolo
orto, attraverso il quale si entrava nella vigna; le fresche mattinate di
ottobre, quando scendeva, ancora in pigiama, lungo i viottoli, tra le viti
cariche d’uva ancora appannata dalla brina notturna; il ricordo struggente di
quel bambino che, durante le mattinate d’estate a Catania - seduto tra la
cameriera e la madre - allungava il collo per vedere l’arrivo della carrozza
della ragazzina che amava, e che avrebbe incontrato sulla spiaggia; le strade
di Catania piene di balconi in ferro battuto, ai quali Verga faceva affacciare
i suoi personaggi nelle sere delle processioni; l’eterno passeggio pomeridiano
in via Etnea, con i suoi marciapiedi consumati da un secolare strascicare di
piedi… atmosfere,<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>queste, di un mondo,
descrizioni di oggetti, di immagini, di odori, di colori, di paesaggi, di
sensazioni che assurgono a protagonisti assoluti del libro, si
confondono nella mente dello scrittore siciliano e diventano “l’espressione più
alta della felicità”. <o:p></o:p></span></p><br /><p></p>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com6tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-18332804926278330882024-02-19T00:58:00.000-08:002024-02-19T00:58:02.943-08:00Ritrovarsi in un libro<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg1j3dleqzcby5nq4SUkT7ICrLq1zUM7sPzKPAaR0uIY8rxlUrOFLhKwHe2cp-K961dmuZmXXYHHrJzV-T952gx5-ozwqiBzk2kJi5e34ir3ts7CJ_aod0CVdbdzcvmh9V9gYcfLC15APVevbl4Ggh5g2oAE4VwBMU_bnw18sdeLkhgirEc1nqzYVdE5Wbg/s1500/libro%20aperto.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="998" data-original-width="1500" height="213" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg1j3dleqzcby5nq4SUkT7ICrLq1zUM7sPzKPAaR0uIY8rxlUrOFLhKwHe2cp-K961dmuZmXXYHHrJzV-T952gx5-ozwqiBzk2kJi5e34ir3ts7CJ_aod0CVdbdzcvmh9V9gYcfLC15APVevbl4Ggh5g2oAE4VwBMU_bnw18sdeLkhgirEc1nqzYVdE5Wbg/w359-h213/libro%20aperto.jpg" width="359" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="has-drop-cap" style="background: white; text-align: justify;"><span style="color: black; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; mso-bidi-font-family: "Noto Sans";">Se è vero che noi siamo quello che leggiamo, come sostiene
qualcuno (ma si potrebbe anche affermare che noi leggiamo quello che siamo),
ebbene lo scrivente – che si rifugia quasi sempre tra le pagine di certi libri
del passato (a volte anche dimenticati) – non può che ritrovarsi in questo
assunto: se il libro che sto leggendo mi piace è perché la mia anima si specchia
in quel libro, e l’autore che l’ha scritto è un mio illustre alter ego che mi
consente di scorgere, tra le righe, quella parte di me che forse non avrei
potuto conoscere se non lo avessi letto. Mi ritrovo in quel determinato testo
piuttosto che in un altro, perché la mia identità di lettore, la mia filosofia
di vita, coincidono con la visione del mondo che racconta quel libro. Posso
anche leggere gli “altri”, come faccio sempre, ma se non mi soddisfano, se mi
lasciano indifferente, se quelle pagine scritte non le sento mie e non si
verifica tra me e loro quella condizione che Goethe avrebbe definito “affinità
elettive”, io quei libri li abbandono inevitabilmente da qualche parte sui
ripiani della libreria. E non mi vedranno mai più.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="background: white; line-height: normal; mso-margin-bottom-alt: auto; mso-margin-top-alt: auto; text-align: justify;"><span style="color: black; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; mso-bidi-font-family: "Noto Sans";">A pensarci bene i libri che amo leggere e rileggere – almeno fino
a questo momento – e che in qualche maniera li abito e me li sento addosso come
un vestito su misura, non sono poi tanti e credo che si riducano ad una
cinquantina, forse largheggiando. E molti di essi, come ebbe a dire una volta
Ennio Flaiano, hanno aspettato anni e anni prima di essere ripresi e riletti,
in un giorno di particolare disgusto esistenziale. Ma è la loro forza perché, proprio
quelli e non altri, hanno la straordinaria capacità di farti riappacificare con
la lettura. E con la vita.<o:p></o:p></span></p><br /><p></p>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com10tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-1215311943300721292024-02-12T01:18:00.000-08:002024-02-12T01:18:42.995-08:00Chiese chiuse<p> <table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh29x4Qcf2lrlLEzcbb5js9mO45lwG0yuo9hBXsnEgr4nQdv7ZuQX_vDDDo9qr3xrAMiU_Xmntdh4BEycy9Y_5omc7JIkQdxggZQf5J8WVp7BKi5b8p58LYr4qqqXlD77gtytb6Niv2un2cKD_vitxtInO95e7t-LTVChVlmO-RGxnbeTTq1_q24tGDtOLN/s640/chiesa-sconsacrata-torrevecchia.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="450" data-original-width="640" height="225" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh29x4Qcf2lrlLEzcbb5js9mO45lwG0yuo9hBXsnEgr4nQdv7ZuQX_vDDDo9qr3xrAMiU_Xmntdh4BEycy9Y_5omc7JIkQdxggZQf5J8WVp7BKi5b8p58LYr4qqqXlD77gtytb6Niv2un2cKD_vitxtInO95e7t-LTVChVlmO-RGxnbeTTq1_q24tGDtOLN/w354-h225/chiesa-sconsacrata-torrevecchia.jpg" width="354" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Chiesetta di S. Francesco - Roma Torrevecchia</td></tr></tbody></table><br /></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Amo perdutamente le chiese,
scrive lo storico dell’arte Tomaso Montanari nel suo saggio “Chiese chiuse”
edito da Einaudi. Luoghi di serenità e di preghiera, dove solo in linea teorica
è possibile distinguere la dimensione religiosa da quella culturale. Luoghi capaci
di suggerire una diversa dimensione del tempo, un altro ritmo esistenziale:
riposo dell’anima e del corpo, le antiche chiese offrono una pausa di riflessione
alla nostra vita esagitata, al nostro caos interiore. E’ tale la bellezza di
questi spazi che anche la loro rovina riesce ad esercitare su di noi una
indefinibile seduzione estetica. E devo dire - per quanto mi riguarda - che non esiste passeggiata per il centro
storico di Roma che non comprenda una sosta in una chiesa, anche per allontanarmi
solo per un momento dallo schiamazzo esterno e respirare un po' di silenzio. E
riposarmi, in contemplazione, davanti al dipinto di una madonna del Seicento. Indipendentemente
dal sentimento religioso, chi entra in una chiesa antica non può non subirne
l’influsso. Non può non rimanerne affascinato.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Nessuno sa esattamente quante
siano le chiese in Italia: si stimano in circa 95.000 - scrive il prof. Montanari
nel suo libro - e sono migliaia quelle inaccessibili, pericolanti, sconsacrate
e saccheggiate. Non è frutto solo della secolarizzazione che avanza o della
nostra incapacità di preservare il patrimonio artistico e culturale, ma c’è
qualcosa di più profondo che riguarda l’idea stessa di società che stiamo
costruendo, sempre più orientata al profitto, all’evento mediatico, al
sensazionalismo. “Il patrimonio è al sicuro – sostiene Montanari – finché è
frequentato, amato, conosciuto: le chiese si aprono ai ladri, quando si
chiudono ai cittadini”. Purtroppo noi, oggi, siamo martellati da un marketing
maldestro e spietato che ci spinge ad essere clienti e turisti piuttosto che
cittadini responsabili. Facciamo la fila per visitare l’ultima mostra a
pagamento e non entriamo nella chiesa che si trova all’angolo, che spesso
custodisce opere di altissimo valore storico ed artistico. E’ in atto una
crescente mercificazione del nostro patrimonio culturale pensato non per
aumentare la conoscenza e la sensibilità, non per una funzione educativa, ma
per intrattenere e saziare un pubblico sempre più povero culturalmente. E sono
sempre di più le antiche chiese che vengono chiuse ed alienate a privati,
destinate poi - secondo logiche aziendalistiche - ad attività economiche ambitissime
dall’industria dei matrimoni civili. Certo, niente vieta - scrive sempre
Montanari - che nelle chiese si possano tenere concerti o conferenze o
declamare poesie, insomma attività culturali: ma non a pagamento e senza
snaturarne la dimensione spirituale.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">In Italia, sono circa un
centinaio le chiese monumentali cui si accede pagando, e moltissime altre
prevedono biglietti per ambienti accessori, quali chiostri, sacrestie,
campanili, cripte…ma una chiesa a pagamento non è più una chiesa, ma non
diventa per questo un museo o una mostra. Le chiese sono sempre state – scrive
Montanari – una sorta di “prosecuzione delle piazze…luoghi pubblici in cui
entrare anche senza un perché. Perché fuori piove, o fa troppo caldo, per
parlare con un amico in un giorno freddo, per rivedere un quadro o la curva di
un arco che ci è caro. Luoghi intimi, spazi di respiro e riposo mentale per
tutti noi che ci siamo cresciuti dentro: pezzi di una casa che ci ha dato forma
e che potrebbe continuare a darcela. Un’esperienza unica, questa comunione con
le antiche chiese: un’esperienza che di fatto i nostri figli non potranno
avere”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Di chi la colpa? si chiede il
professor Montanari. Colpa di tutti i governi che hanno tagliato e continuano a
farlo, i fondi per la manutenzione del patrimonio artistico. Colpa dei tanti proprietari
delle chiese,<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>spesso non facili da
identificare: dalla Santa Sede alle diocesi, dalle parrocchie agli istituti
religiosi, dallo Stato alle Regioni…Colpa anche di un giornalismo servile
capace solo di lodare il potente di turno per poi stupirsi che crollano i ponti
e le chiese. Ha scritto Kant (citazione presente nel libro): “tutto ha un
prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito da
qualcos’altro a titolo equivalente; al contrario, ciò che è superiore a quel
prezzo e che non ammette equivalenti, è ciò che ha una dignità”. Poter entrare, gratis, in una chiesa che custodisce bellezza è una cosa che ha una sua dignità.
E sarebbe davvero intollerabile e blasfemo cancellare. <o:p></o:p></span></p><br /><p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjyFE8CpxUN4TwzMp82XN7z0VypN3Ix0qK3YjWVcnm9jMHzy1jDO1jFNISpHLMNCLgMNSURXc5wGY12RwLWjaYHhak5rXMVc2tMVdrLtXCQTXGyoO32tcaxDtluc2H4-f_ZC6jARaaaG_feiVSehx4PhP5kZ07EHuKTpylDDCu5gdTyDbjPZcxfSwf92sZ_/s1714/978880624434HIG.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1714" data-original-width="1000" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjyFE8CpxUN4TwzMp82XN7z0VypN3Ix0qK3YjWVcnm9jMHzy1jDO1jFNISpHLMNCLgMNSURXc5wGY12RwLWjaYHhak5rXMVc2tMVdrLtXCQTXGyoO32tcaxDtluc2H4-f_ZC6jARaaaG_feiVSehx4PhP5kZ07EHuKTpylDDCu5gdTyDbjPZcxfSwf92sZ_/s320/978880624434HIG.jpg" width="187" /></a></div><br />Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com12tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-39859845113112478562024-01-29T05:40:00.000-08:002024-02-01T01:00:57.472-08:00Scrivere: un atto di vanità<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg0JICCGm4hDtT9C2divVsH1w3ejZlIZYX7m9Zye7fIWaeub4wzRxwPQ64CcKUAYKh_vQpdKTQsNN_lxTNZ8eU47QvFQcn6Dlb0VMEAg2Efy9dcG2879Dn9tQbIg3hKhqivDxn0gt19GulL6refNpEtHMaw-ndxKNIsg1Eap6YD81CvhW0I-ZI_hyphenhyphengJ59O1/s790/Dettare-voce-PC.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="415" data-original-width="790" height="191" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg0JICCGm4hDtT9C2divVsH1w3ejZlIZYX7m9Zye7fIWaeub4wzRxwPQ64CcKUAYKh_vQpdKTQsNN_lxTNZ8eU47QvFQcn6Dlb0VMEAg2Efy9dcG2879Dn9tQbIg3hKhqivDxn0gt19GulL6refNpEtHMaw-ndxKNIsg1Eap6YD81CvhW0I-ZI_hyphenhyphengJ59O1/w344-h191/Dettare-voce-PC.jpg" width="344" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">Se ci soffermassimo a riflettere,
con la dovuta attenzione, sui flussi di parole che inondano quotidianamente la
nostra esistenza, capiremmo che il mondo non ha assolutamente bisogno delle
nostre parole scritte. Sono già troppe quelle esistenti e niente possiamo
aggiungere su ciò che è stato già detto da persone molto più autorevoli di noi,
del presente e del passato. E’ come quando si entra in una grande libreria dove
sono assiepati migliaia e migliaia di testi: ma chi mai dovrebbe comprare e
leggere un nostro libro qualora decidessimo di scriverlo? Eppure, tutto questo
non ci spaventa, non ci scoraggia e non ci fa desistere da questa attività che
resta, nonostante tutto, tra le più nobili dell’animo umano. Mai come in questa
nostra epoca ci siamo affidati in maniera così ostinata alla parola scritta,
invogliati soprattutto dagli strumenti on line messi a disposizione dalla
tecnica.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">“Ho scritto poco – amava ripetere
Cristina Campo – e mi piacerebbe aver scritto meno”. Un modo per attestare che
la scrittura è una cosa seria che implica responsabilità civile, fatica,
rispetto. E forse nessuna come lei rispettava le parole almeno quanto noi, sempre
più spesso, le maltrattiamo. E poi aggiungeva: <span style="background: white; color: black; mso-color-alt: windowtext;">“se qualche volta scrivo è perché
certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro.
Nell’atto di scriverle esse penetrano in me per sempre – attraverso la penna e
la mano – come per osmosi”. Ma esiste questa fusione anche nel nostro scrivere?
Le parole che usiamo hanno la forza di penetrare in noi e rimanerci? Diciamocelo:
oggi usiamo la scrittura soprattutto per interagire con gli altri, quasi in
tempo reale, attraverso i social. E’ un modo di scrivere istantaneo,
frammentato - come il parlare – che non ha nulla a che spartire con un pensiero
ponderato, riflessivo e profondo. Insomma, una scrittura liquida, scivolosa,
che non lascia alcuna traccia importante né in chi scrive e tanto meno in chi
legge. </span><span style="background: white;"><o:p></o:p></span></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="background: white; color: black; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%; mso-color-alt: windowtext;">Pare che il blog, invece, sia una forma espressiva superiore
e di nicchia che ricorda - con i suoi testi brevi ed equilibrati - il diario o la
lettera di antica memoria (anche se oggi nessuno si sognerebbe di scrivere una
lettera come si faceva un tempo). Ma se il diario e la lettera sono strumenti
privati che si rivolgono ad un solo destinatario, ad un solo lettore – anche se
poi alcuni di questi testi sono diventati di dominio pubblico, epistolari
famosi di alto valore letterario - <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>il
post di un blog è indirizzato, invece, a tutti coloro che vi si imbattono per
caso. E’ di tutti e di nessuno. Ma allora, se non ho un destinatario preciso e
circoscritto, perché sento questo bisogno di scrivere e diffondere il mio
messaggio in rete? E qui si potrebbe aprire un dibattito infinito dove ognuno
esprimerebbe la propria motivazione.</span><span style="background: white; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;"><o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="background: white; color: black; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%; mso-color-alt: windowtext;"><span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Io penso che tutte le
convinzioni che spingono una persona a scrivere siano accomunate da un solo
sentimento: la nostra vanità. Se fosse una merce in vendita, la vanità,
andrebbe a ruba nonostante ne siamo tutti muniti, sia pure in diversa misura. E’
inutile girarci intorno: scrivere è un atto di vanità; è voler essere letti. Se
nessuno ci legge non esistiamo. E noi vogliamo esserci in questo mondo. Vogliamo
lasciare una traccia. E’ un sentimento così radicato nell’animo umano che
ciascuno di noi desidera, in qualche maniera, essere ammirato e applaudito per ciò
che scrive. Non metteremmo in rete un post, per il solo piacere di scrivere, se
non avessimo la certezza che qualcuno prima o poi lo leggerà: fosse anche una
sola persona. Ed è proprio questa persona sconosciuta la molla che ci spinge a
farlo. Altrimenti basterebbe un quaderno su cui appuntare i nostri pensieri. Ma
parlare ad una folla è molto più gratificante che parlare solo a sé stessi. Ti
fa sentire importante. Ti fa immaginare che c’è qualcuno nella blogosfera che
sta lì in attesa del tuo ultimo post. </span><span style="background: white; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;"><o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="background: white; color: black; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%; mso-color-alt: windowtext;">Diceva una volta un filosofo che non affronteremmo un viaggio
in mare per il solo piacere di vedere, senza speranza di poterlo mai raccontare.
Scriviamo per gli altri, a cui vogliamo sempre insegnare qualcosa, ma non abbiamo
nessuna intenzione di apprendere nulla da loro. Siamo tanto sensibili alle
opinioni favorevoli che vengono espresse su di noi, quanto poco interessati a
quello che gli altri dicono di sé stessi. In altre parole – miei cari amici
blogger - la vanità degli altri proprio non la sopportiamo, attratti come siamo
dalla nostra. </span><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;"><o:p></o:p></span></p><br /><p></p>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com15tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-65985733802221947592024-01-20T07:22:00.000-08:002024-01-20T07:38:32.475-08:00Pontiggia: chi l'ha visto?<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgPJjnT0wvMrtEFq-0ibdnAsfJfoqx5u49FOW14Zap0AM60YX0j_D78EgwNhCA3nPWp-AyjdnCUKQg4h-s_qFkRx4YjexaT71Y5uZ5aM-2GDldqaPvD7if27MLR2Jz8H2jO_aRxV2HAiufPnj1pSOmXtz13AG-1YLMJCbvBs8FziZtOsSnwUqq7l8HjHhve/s768/la%20grande%20sera%20libro.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="768" data-original-width="528" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgPJjnT0wvMrtEFq-0ibdnAsfJfoqx5u49FOW14Zap0AM60YX0j_D78EgwNhCA3nPWp-AyjdnCUKQg4h-s_qFkRx4YjexaT71Y5uZ5aM-2GDldqaPvD7if27MLR2Jz8H2jO_aRxV2HAiufPnj1pSOmXtz13AG-1YLMJCbvBs8FziZtOsSnwUqq7l8HjHhve/w250-h320/la%20grande%20sera%20libro.jpg" width="250" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><i><span style="background: white; color: #333333; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">“Spesso,
quando si cerca di convincere gli altri, si tenta solo di placare i propri
dubbi; e non c’è da stupirsi se si fallisce in entrambi gli intenti”<o:p></o:p></span></i></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="background: white; color: #333333; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;"><br /></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="background: white; color: #333333; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">Mentre
leggevo <i>“La grande sera”,</i> un romanzo di Giuseppe Pontiggia, mi veniva da
pensare che quasi tutti i miei scrittori preferiti sono morti. E spesso
dimenticati dagli editori prima ancora che dai lettori. Da Michele Prisco a
Giovanni Arpino, da Ercole Patti a Luciano Bianciardi, da Raffaele La Capria a Vitaliano
Brancati, da A. Maria Ortese a Lalla Romano – tanto per fare alcuni nomi, ma la
lista è davvero lunga – sembra quasi che le mie letture siano legate ad una
tomba. Come se la morte dell’autore potesse imprimere una sorta di sigillo di
garanzia o un alone di grandezza su quelle opere letterarie che mi sono più
congeniali. Senza negare, tuttavia, che certi scrittori passati a miglior vita
appaiono, oggi – per la loro statura morale e artistica - molto più vivi dei
vivi. Vista la distanza davvero incolmabile che passa tra le opere dei primi (i
morti) e quelle dei secondi (i vivi).<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="background: white; color: #333333; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">Considero
Giuseppe Pontiggia, scrittore lombardo morto una ventina di anni fa, la new
entry in questa mia particolare e amata classifica. “La grande sera”, forse il
suo libro più importante, l’ho scovato sul banchetto di un mercatino dell’usato.
Conoscevo per sentito dire il nome di Giuseppe Pontiggia, ma non avevo ancora
letto niente di suo. Questa lettura è stata, per me, davvero una piacevole
sorpresa. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="background: white; color: #333333; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">La
vicenda del romanzo è estremamente semplice ed essenziale: in un pomeriggio
estivo, in una Milano di qualche anno fa, un affermato professionista sparisce
all’improvviso senza lasciare alcuna traccia. Oggi, probabilmente, se ne
occuperebbe “Chi l’ha visto” che – guarda caso – è la storica trasmissione televisiva
di RAI 3 che nasce nel 1989, l’anno in cui il libro fu pubblicato
aggiudicandosi il premio Strega. L’assenza, congiuntamente all’attesa sono i due
temi del romanzo, la cui vicenda riguarda non tanto la storia del protagonista
che si è dato alla fuga quanto quella degli “altri” che ruotano intorno a lui e
che reagiscono, in maniera diversa, alla scomparsa: la moglie, l’amante, il
fratello, la cognata, il nipote, il socio d’affari. <i>“Forse era stanco di
definire insensata la propria vita come si fa solo per poterla accettare, e si
era preso improvvisamente un giorno insensato”.</i> Di fronte a questa oscura sparizione,
emerge il carattere molto discutibile dei vari personaggi, ognuno avvolto nella
propria ipocrisia, nelle proprie amarezze e delusioni e si scopre tutta la
pochezza dei sentimenti da cui gli stessi sono animati. Sembra quasi che il
protagonista scomparso riesca finalmente a disvelare i sotterfugi, le menzogne,
le cose non dette e non fatte, il vuoto esistenziale delle loro vite poco esaltanti. E a mettere in luce ambizioni e rinunce, incertezze e falsità e
ambiguità relazionali fino ad allora occultate. L’assente che smaschera la fuga dei presenti dalle loro responsabilità.
E mentre cercano senza troppe convinzioni lo scomparso, costoro si rispecchiano
in quell’assenza e finiscono per cercare sé stessi.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="background: white; color: #333333; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">Con
uno stile misurato e preciso, non privo di appuntite divagazioni ironiche sulla
psicologia dei vari personaggi e con un’abbondanza di aforismi che impreziosiscono
la narrazione e la rendono più profonda, Pontiggia ci restituisce il piacere
della lettura. Come solo i grandi sanno fare.</span><span face=""Lato",sans-serif" style="background: white; color: #333333; font-size: 11.5pt; line-height: 107%;"><o:p></o:p></span></p><br /><p></p>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com18tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-89061913686377092722024-01-12T02:24:00.000-08:002024-01-12T02:24:41.603-08:00Stazione Termini<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhv4gNBzkzPoEe4LCsWMksxV8ZZxoCIFMK9LxDALgB2-7rM5AdfSJ-QUNFejAswsuODY4wmxCKmK__nA2o8vU1VBPVKRFG64TODOatdDMCl_vRQp4I7RP7ASuaW-is53MbG280mFZ0rMlDsyedFRbSBDAOWNuXZ-rS-0KZEzpFeNi5ChorG2jJ-MkFoeBC1/s1024/interno-stazione-termini-358466.large.webp" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="768" data-original-width="1024" height="258" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhv4gNBzkzPoEe4LCsWMksxV8ZZxoCIFMK9LxDALgB2-7rM5AdfSJ-QUNFejAswsuODY4wmxCKmK__nA2o8vU1VBPVKRFG64TODOatdDMCl_vRQp4I7RP7ASuaW-is53MbG280mFZ0rMlDsyedFRbSBDAOWNuXZ-rS-0KZEzpFeNi5ChorG2jJ-MkFoeBC1/w372-h258/interno-stazione-termini-358466.large.webp" width="372" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Sono appena sceso da un treno
alta velocità “Frecciargento” di Trenitalia: rientro nella Capitale dopo molti
giorni trascorsi nella mia casetta al paese. Il mio <i>buen retiro</i>. Ad
accogliermi (si fa per dire) è la stazione Termini, “luogo non luogo” per
antonomasia secondo l’antropologo francese Marc Augè, che ha coniato questo
neologismo valido anche per gli aeroporti, gli autogrill e altri luoghi simili.
L’impatto, per uno che viene da un paesello dove il tempo sembra essersi
fermato e dove non esistono assembramenti è, a dir poco, traumatizzante. E devo
dire che sebbene io sia vaccinato a questi contrasti, ogni volta avverto la stessa
sensazione di straniamento. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">La stazione Termini è diventata
una sorta di centro commerciale dove, però, arrivano e da cui partono anche i
treni. E’ un luogo nel quale manca ogni riferimento storico e identitario, uno
spazio di passaggio per migliaia di individui che si incrociano senza mai
entrare in relazione tra di loro; un luogo di consumo, da cui si parte per
assolvere quell’intimo desiderio personale – ma anche quell’obbligo sociale (se
non fai una settimana alle Seychelles non sei nessuno) - del viaggiare, sempre
più orientato dalle riviste specializzate e dalle agenzie turistiche, che
consigliano mete sollecitando desideri e sogni di evasione. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Per motivi diversi, di svago o
di necessità, non riusciamo e forse non vogliamo più stare fermi nello stesso posto.
Mi vengono in mente le parole di Blaise Pascal che riecheggiano nei suoi <i>Pensieri</i>
e che sembrano rivolgersi all’uomo d’oggi, sempre più smanioso di partire, di
andare <i>“…tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non
saper restare tranquilli in una stanza…per questo gli uomini amano tanto il
rumore e il trambusto…per questo il piacere della solitudine è una cosa
incomprensibile”</i>. Dobbiamo muoverci, viaggiare, spostarci a velocità
supersonica da un punto all’altro della Terra con tutte le conseguenze che ciò
comporta: inquinamento ambientale, distruzione del territorio e…coronavirus,
diffuso proprio per via della vita frenetica e convulsa che tutti noi conduciamo.
La condizione del vivere non è più legata intimamente al territorio. Il
viaggiare, la fusione culturale, la facilità di muoversi, la creazione di
grandi spazi urbanizzati e anonimi e non classificabili uguali gli uni agli
altri, hanno finito con il produrre una separazione tra l’uomo e il territorio in
cui abita, uno scollamento irreparabile tra l’uomo e la natura.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Osservo quella moltitudine
assiepata nella stazione Termini (di cui anch’io faccio parte), munita di<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>trolley simili a vagoni ferroviari, brulicante
e rumorosa come un alveare e mi sento isolato. Spaesato. E’ la solitudine che
nasce non dall’essere soli ma dall’essere tanti in un luogo non luogo che
avvolge tutti senza riferimenti identitari, circondati da immensi cartelloni
pubblicitari e decine di monitor che proiettano, senza sosta, immagini di un
mondo irreale, mentre i rumori di fondo, assordanti, disorientano e
avviliscono. E’ incredibile come a volte l’impatto con un luogo possa farti
piombare, all’improvviso, in una sorta di girone infernale e farti sentire a
disagio. Avevo lasciato alle spalle altri paesaggi, altri riferimenti: il
profilo di una collina, un bosco al limitare di una vigna, i rintocchi di una
campana, un ritmo di vita lento e umano. E poi il silenzio, il grande assente
in un luogo come la stazione Termini di Roma. Mi guardo in giro, ma non vedo
smarrimenti di sorta, tutti sembrano sicuri e tranquilli, a proprio agio, indifferenti
al rumore, alla frenesia che serpeggia nel luogo. Solo due persone anziane, dall’aria
preoccupata – probabilmente marito e moglie – con la loro valigetta d’altri
tempi si guardano intorno smarriti cercando<span style="mso-spacerun: yes;">
</span>di trovare una via d’uscita in quella babele. Mi si avvicinano ansiosi come
due pesci fuor d’acqua – forse perché sono l’unico che non sta al cellulare e
non corre in maniera forsennata - per chiedermi del treno per Roccasecca. Li
osservo con dolcezza e mi domando come possano trovarsi lì, da soli, in quella
bolgia che scalpita. E mentre li indirizzo verso il treno per Roccasecca - la
loro salvezza – mi ringraziano riconoscenti e mi dicono che il mondo a cui
appartengono non esiste più. Loro sono gli ultimi superstiti. Queste parole mi
colpiscono. E se, invece, fossimo tutti noi dei superstiti, in questo mondo?<o:p></o:p></span></p><br /><p></p>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com9tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-74019708870786998412023-12-16T06:02:00.000-08:002023-12-16T06:02:29.135-08:00L'altro Natale<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEio92N41TQ_oQB66h0ZN9iwIDzCYPfKU-JZz5h02xT3H663jsfsDuSHfCk6r9eKAYdaM6i7X3VkFpPB1Cu6Z6uRC32tOnoXmVWeb0qbUUH-zDFCnWaunzdMaiPEDqNrAQ8NpUxT1SE9C8Ug-YrQYTDIOtep_5V_3I2t5vzsgTE_AYuTPe6MGPHkZ_oKrhqt/s640/luminarie%20natale.jpeg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="360" data-original-width="640" height="201" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEio92N41TQ_oQB66h0ZN9iwIDzCYPfKU-JZz5h02xT3H663jsfsDuSHfCk6r9eKAYdaM6i7X3VkFpPB1Cu6Z6uRC32tOnoXmVWeb0qbUUH-zDFCnWaunzdMaiPEDqNrAQ8NpUxT1SE9C8Ug-YrQYTDIOtep_5V_3I2t5vzsgTE_AYuTPe6MGPHkZ_oKrhqt/w349-h201/luminarie%20natale.jpeg" width="349" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Se c’è una festa che arriva
sempre in anticipo rispetto alla sua data, ebbene questa festa non può che
essere il Natale. Luminarie, panettoni e negozi pavesati a festa si cominciano
a vedere già verso la fine di ottobre. E’ la ricorrenza che più di tutte celebra
quell’allegria artificiale tanto al chilo, che non ha nulla a che spartire con il
Natale cristiano che celebra il rito della Natività, espressione della
semplicità e della povertà. Tutto sembra artefatto: pure i pastori e i re magi
nei presepi hanno, oramai, le sembianze dei divi della televisione. Per quelli
della mia generazione, il Natale era forse la festa più bella, quella più
attesa, e quando arrivava veniva consumata rapidamente con intensità, allegria
e commozione, sia dai bambini che dagli adulti. Per i cristiani era la nascita
di Gesù Bambino, per chi non credeva il Natale rappresentava, comunque, un
evento straordinario, da vivere con lo stesso spirito sacrale. Oggi, il Natale
è una festa come tutte le altre: l’ennesimo rito commerciale, l’ennesima
overdose di consumi. Non esiste più l’attesa del Natale.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">A volte mi mancano le parole per
descrivere certi avvenimenti, o meglio non hanno la giusta autorevolezza, e
allora quale migliore occasione per affidarsi alle parole dei grandi maestri
della letteratura i quali hanno sentito la necessità di esprimere il loro
pensiero sul Natale, ognuno secondo il proprio credo ed i propri sentimenti.
Tra questi, Erri del Luca, uno scrittore che io stimo tantissimo per la sua
scrittura potente ed evocativa. Così descrive il suo Natale: <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="background: white; color: black; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%; mso-bidi-font-family: "Open Sans"; mso-color-alt: windowtext;">“Nello scasso profondo
dei nuclei familiari Natale arriva come un faro sui cocci e fa brillare i
frantumi. Si aggiungono intorno alla tavola apparecchiata sedie vuote da tempo.
Per una volta all’anno, come per i defunti, si va in visita al cerchio
spezzato.</span><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%; mso-bidi-font-family: "Open Sans";"><br />
<span style="background: white; color: black; mso-color-alt: windowtext;">Natale è
l’ultima festa che costringe ai conti. Non quelli degli acquisti a strascico,
fino a espiare la tredicesima, fino a indebitarsi. Altri conti e con deficit
maggiori si presentano puntuali e insolvibili. I solitari scontano l’esclusione
dalle tavole e si danno alla fuga di un viaggio se possono permetterselo, o si
danno al più rischioso orgoglio d’infischiarsene.</span><br />
<span style="background: white; color: black; mso-color-alt: windowtext;">Ma la
celebrazione non dà tregua: vetrine, addobbi, la persecuzione della pubblicità
da novembre a febbraio preme a gomitate nelle costole degli sparpagliati.
Natale è atto di accusa. Perfino Capodanno è meno perentorio, con la sua
liturgia di accatastati intorno a un orologio con il bicchiere in mano. Natale
incalza a fondo i disertori.</span><br />
<span style="background: white; color: black; mso-color-alt: windowtext;">Ma è giorno
di nascita di chi? Del suo contrario, spedito a dire e a lasciare detto, a chi
per ascoltarlo si azzittiva. Dovrebbe essere festa del silenzio, di chi tende
l’orecchio e scruta con speranza dentro il buio. Converge non sopra i palazzi e
i centri commerciali, ma sopra una baracca, la cometa. Porta la buona notizia
che rallegra i modesti e angoscia i re.</span><br />
<span style="background: white; color: black; mso-color-alt: windowtext;">La notizia
si è fatta largo dentro il corpo di una ragazza di Israele, incinta fuorilegge,
partoriente dove non c’è tetto, salvata dal mistero di amore del marito che
l’ha difesa, gravida non di lui. Niente di questa festa deve lusingare i
benpensanti. Meglio dimenticare le circostanze e tenersi l’occasione
commerciale. Non è di buon esempio la sacra famiglia: scandalo il figlio della
vergine, presto saranno in fuga, latitanti per le forze dell’ordine di allora.</span><br />
<span style="background: white; color: black; mso-color-alt: windowtext;">Lì dentro
la baracca, che oggi sgombererebbero le ruspe, lontano dalla casa e dai parenti
a Nazareth, si annuncia festa per chi non ha un uovo da sbattere in due. Per
chi è finito solo, per il viandante, per la svestita sul viale d’inverno, per
chi è stato messo alla porta e licenziato, per chi non ha di che pagarsi il
tetto, per i malcapitati è proclamata festa. Natale con i tuoi: buon per te se
ne hai. Ma non è vero che si celebra l’agio familiare. Natale è lo sbaraglio di
un cucciolo di redentore privo pure di una coperta. Chi è in affanno, steso in
una corsia, dietro un filo spinato, chi è sparigliato, sia stanotte lieto. È di
lui, del suo ingombro che si celebra l’avvento. È contro di lui che si alza il
ponte levatoio del castello famiglia, che, crollato all’interno, mostra ancora
da fuori le fortificazioni di Natale”.</span></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="background: white; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%; mso-bidi-font-family: "Open Sans";"><o:p> </o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><br /></p><p></p>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com6tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-29774272709465061322023-12-09T02:36:00.000-08:002023-12-09T02:36:58.463-08:00Quanto ad essere felici<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjer8mgfiF1sC0vCaVetR9hKh8G67UpT9IjtO2NCcJt5lMTNgnkKqln-Rg4UzUTFZN8N7gky1y1qoc6C4YiQfAURlkL22YRjzExaw1fyKcnB2Q6pzsMnSC3lc0sgQTgY6JlfP-Ro-PE7QrvoloOd8kiT8O0RopWJypBL5LEk650vsB1EupXBL7wuOMA7ecM/s300/5561561842103b675aff19a8e6cccbf8.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="290" data-original-width="300" height="255" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjer8mgfiF1sC0vCaVetR9hKh8G67UpT9IjtO2NCcJt5lMTNgnkKqln-Rg4UzUTFZN8N7gky1y1qoc6C4YiQfAURlkL22YRjzExaw1fyKcnB2Q6pzsMnSC3lc0sgQTgY6JlfP-Ro-PE7QrvoloOd8kiT8O0RopWJypBL5LEk650vsB1EupXBL7wuOMA7ecM/w276-h255/5561561842103b675aff19a8e6cccbf8.jpg" width="276" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="background: white; line-height: normal; margin-bottom: 18.0pt;"><i><span style="color: #3a3a3a; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT; mso-font-kerning: 0pt; mso-ligatures: none;">“Quanto ad essere felici, questo è<br />
il terribilmente difficile, estenuante.<o:p></o:p></span></i></p>
<p class="MsoNormal" style="background: white; line-height: normal;"><i><span style="color: #3a3a3a; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT; mso-font-kerning: 0pt; mso-ligatures: none;">Come portare
in bilico<br />
sulla testa una preziosa pagoda,<br />
tutta di vetro soffiato, adorna di campanelli<br />
e di fragili fiamme accese;<br />
e continuare a compiere ora per ora i mille<br />
oscuri e pesanti movimenti della giornata<br />
senza che un lumicino si spenga, che<br />
un campanello dia una nota turbata”.<o:p></o:p></span></i></p>
<p class="MsoNormal" style="background: white; line-height: normal;"><i><span style="color: #3a3a3a; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT; mso-font-kerning: 0pt; mso-ligatures: none;">Cristina Campo<o:p></o:p></span></i></p><br /><p></p>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com14tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-68522105715714411752023-12-02T06:57:00.000-08:002023-12-02T06:57:19.158-08:00Ho imparato...<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg9Cm_pRzvivpi8q-OJbZLrNu1UO6YiY_nvzXpfNOpHqOeRKkg8QDB7n-i8-rjS01O-uDYGwe-2cB0ai9Bgfhy9UGfDwrYr8zWMMJ9ocRD6v-k1rsVX8s81WpgF-1Bu6ViQ_HmYj3HehUjwzLBBcWG_mH3CAFwa8wJR8NqjmpjNQNC5Q2AhNFNl2REAsvpU/s2699/viandante.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="2699" data-original-width="2140" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg9Cm_pRzvivpi8q-OJbZLrNu1UO6YiY_nvzXpfNOpHqOeRKkg8QDB7n-i8-rjS01O-uDYGwe-2cB0ai9Bgfhy9UGfDwrYr8zWMMJ9ocRD6v-k1rsVX8s81WpgF-1Bu6ViQ_HmYj3HehUjwzLBBcWG_mH3CAFwa8wJR8NqjmpjNQNC5Q2AhNFNl2REAsvpU/w282-h320/viandante.jpg" width="282" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">… che scrivere è un atto di
responsabilità perché le parole scritte possono diventare – in qualsiasi
contesto – carezze o pugnali e possono causare gioie o dolori e vanno usate,
pertanto, con molta cura;<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">ho imparato che i libri non sono
tutto nella vita, e se la vita non ti cammina a fianco non puoi cercarla in un
romanzo, fosse anche il più bello; <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">ho imparato che gli anni che
passano li puoi scorgere meglio sul volto di un tuo coetaneo che non vedi da
molto tempo, anziché sul tuo che osservi tutti i giorni allo specchio;<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">ho imparato che a volte
l’intelligenza emargina, e che per essere felici in questo mondo bisogna essere
anche un pò stupidi;<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">ho imparato che la compagnia di
un amico è una cosa rara e non la si può comprare su Internet né la si può
trovare su Facebook; però ho anche imparato che si può stare in ottima compagnia
pur rimanendo da soli;<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">ho imparato che la vigilia è migliore
della festa e che il piacere si nasconde nell’attesa; <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">ho imparato che il potere, in
tutte le sue innumerevoli declinazioni, è sempre deprecabile e che discutere
con un idiota che si crede potente è una battaglia persa;<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">ho imparato che quelli che
parlano da soli – ad alta voce – e gesticolano in maniera concitata per strada,
non sono dei matti – come quelli che si vedevano in giro una volta – ma “sani
di mente” al cellulare; <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">ho imparato che quando un’opinione
viene ampiamente elogiata da una maggioranza, non vuol dire affatto che non sia
completamente sbagliata;<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">ho imparato che, oggi, il
passato viene frettolosamente liquidato come un male assoluto, per nascondere
meglio l’insostenibile pesantezza del presente;<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">ho imparato che la tecnologia
non è la panacea di tutti i mali e che si può vivere, bene, anche senza uno
smartphone;<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">ho imparato che in una guerra i
militari che si fronteggiano con le armi sono tanto pericolosi quanto quelli
che indossano l’elmetto nei salotti televisivi;<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">ho imparato che una menzogna,
ripetuta all’infinito, può diventare una pericolosa verità;<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">ho imparato che il sacro si può anche
trovare in un luogo che</span><span style="color: #222222; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%; mso-bidi-font-family: Arial; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;"> evochi la
povertà piuttosto che la ricchezza, la contemplazione piuttosto che la
meraviglia</span><span style="color: #222222; font-family: "Garamond",serif; font-size: 12.0pt; line-height: 107%; mso-bidi-font-family: Arial; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">;<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">ho imparato che per guardare la
morte con occhi meno spaventati bisogna osservare la vita con più leggerezza;<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">ho imparato…<o:p></o:p></span></p><br /><p></p>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com10tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-81605352708682662132023-11-22T06:30:00.000-08:002023-11-22T06:30:34.597-08:00TG e Talk, l'indotto del dolore<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjw9P1S_MWRPi0IaBOxVsEKaxu_r0S2lsS5tcf7CQcVJE6GzHZvBtutbYM76LU1zgOIp5XjiMtuU7lh0nmE7xggm48rgapF8FHLThofp6UpIlTpEZSr0cNUil9Y8zAH6dBQgK4Rqw8o2WgVhc8KWD9IYqk0q2AALySKr7mPs1ek1CDG3eV_eck5LokaF9Om/s1200/tg1.webp" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="800" data-original-width="1200" height="213" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjw9P1S_MWRPi0IaBOxVsEKaxu_r0S2lsS5tcf7CQcVJE6GzHZvBtutbYM76LU1zgOIp5XjiMtuU7lh0nmE7xggm48rgapF8FHLThofp6UpIlTpEZSr0cNUil9Y8zAH6dBQgK4Rqw8o2WgVhc8KWD9IYqk0q2AALySKr7mPs1ek1CDG3eV_eck5LokaF9Om/s320/tg1.webp" width="320" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Siamo inondati di cattive notizie,
sempre più drammatiche e angosciose. In particolare, i media danno grande
risalto ai fatti di sangue e continuano a proporre giorno dopo giorno – con dovizia
di particolari a volte scabrosi – storie di dolori e di tragedie familiari. E’
un modo di fare informazione, questo, che non mi piace. Sottoscrivo, qui di
seguito, l’articolo di Nanni Delbecchi apparso oggi su “Il fatto quotidiano”:<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">“Oltre ad aggiungersi alla
terribile serie di donne uccise dai loro stalker, l’omicidio di Giulia
Cecchettin passerà alla storia della TV, in particolare dell’informazione
televisiva. Mai era accaduto che un singolo delitto diventasse la prima notizia
del giorno, quasi l’unica, d’un tratto tutte le testate mutate in un coro di
prefiche. Dal Pensiero Unico all’Epicedio Unico. Lunedì sera si è occupato dell’omicidio
Cecchettin più di un terzo dell’intero del Tg1, oltre 12 minuti; ancora più
lunga la durata del Tg5, circa la metà del notiziario. Pare che al mondo accada
anche altro, ma sono quisquilie: le trattative sugli ostaggi a Gaza valgono una
manciata di secondi, ancora meno quelli dedicati al conflitto ucraino (Zelensky
chi?). In compenso su Giulia nulla è trascurato dai potenti mezzi del tg.
Nugoli di microfoni assediano il procuratore di Venezia: si vuol sapere in
diretta quali capi d’imputazione, quanti giorni, minuti e secondi ci vorranno
per l’estradizione di Filippo (fermate le rotative). Un inviato del Tg1 è
spedito nottetempo davanti al carcere di Halle: “Vedete, Turetta ha passato qui
la sua seconda notte” (rifermate le rotative). Il Tg5 raduna alcuni psicologi
da salotto che ci spiegano tutto dell’assassino: “Non é un raptus, questi gesti
si premeditano”; “Filippo voleva tornare con Giulia, ma era anche invidioso dei
suoi studi” (Bloccate definitivamente le rotative). Poi, i volti rigati di
lacrime, le ispezioni cadaveriche, il censimento delle coltellate…il trionfo
della cronaca nera sull’informazione, grande classico di ogni regime, con i
suoi manti funebri a coprire ogni accadimento. E la tv del dolore spacciata per
notizia, la merce più ghiotta per lo <i>share</i> che per la prima volta esonda
da ballatoi pomeridiani e presidia i tg. E vai con l’indotto del dolore:
politici e opinionisti pronti a offrire il loro profilo migliore per aprire il
dibattito sul patriarcato, sul satanismo, sulla cultura dello stupro. La morte
sarà di destra o di sinistra? Ci siamo dimenticati di domandarlo a Gaber, ma l’impressione
è che tenda al campo largo”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Nanni Delbecchi<o:p></o:p></span></i></b></p><br /><p></p>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com12tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-13442163567549224792023-11-10T02:21:00.001-08:002023-11-10T02:25:44.343-08:00Non si resta e non si parte mai del tutto<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgw8djMOey126S9oiHWLC1SeETuU0LVWl6Hgu7s7Vga9pMiu3cPz67wp2qjdVWmXYKZL8b51d27y6haikfFoyjAGgiiqxOB8JQYycE4nlTL-TvTchR2qxxRAng-_-t0ztWsKnCKgzd9cy0G0I0uLwY3BODz0QqHOVG5AAckinD42cYG44T-WN9yPP17akv7/s1474/paese-medievale-di-rocca-cilento.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1000" data-original-width="1474" height="240" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgw8djMOey126S9oiHWLC1SeETuU0LVWl6Hgu7s7Vga9pMiu3cPz67wp2qjdVWmXYKZL8b51d27y6haikfFoyjAGgiiqxOB8JQYycE4nlTL-TvTchR2qxxRAng-_-t0ztWsKnCKgzd9cy0G0I0uLwY3BODz0QqHOVG5AAckinD42cYG44T-WN9yPP17akv7/w364-h240/paese-medievale-di-rocca-cilento.jpg" width="364" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">Ho letto molti libri di Vito
Teti, un antropologo calabrese che si occupa di letteratura dei luoghi,
argomento di cui sono estremamente appassionato. E’ diventato il mio punto di
riferimento e sebbene i suoi testi raccontino, in modo particolare, i paesi
della Calabria, trovo che gli stessi siano un valido punto di osservazione e di
aiuto per conoscere e capire fenomeni di portata universale. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">In questo suo ultimo saggio che
si intitola “La restanza” (Einaudi), Teti ritorna su quelle tematiche a lui care
come la ricerca d’identità attraverso il luogo nativo, l’emigrazione,
l’antropologia dei paesi. Egli dice che noi siamo il luogo in cui siamo nati e
cresciuti e siamo il luogo che abitiamo e da cui a volte fuggiamo, per
necessità. E siamo il luogo che percorriamo e raccontiamo. Restare o partire non
è mai una decisione che si prende a cuor leggero, senza incertezze e
lacerazioni, perché un luogo è un insieme di relazioni umane, di affetti, di
legami talvolta incerti e mutevoli, seppure fondamentali. Il luogo, oltre ad occupare
una posizione geografica, è innanzitutto una costruzione culturale e antropologica
di immagini, di vita e di racconti che abbiamo ereditato, è condivisione e
partecipazione con chi ci vive e con chi ci torna saltuariamente, ma anche con
chi lo ha abbandonato per sempre, a causa di migrazioni e di eventi naturali
funesti come terremoti, frane, alluvioni.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">Ognuno vive e resta in un luogo
- paese o città che sia – eppure “restare in paese”, oggi, è percepito come un
modo antiquato di stare al mondo, seppure complementare a quella visione
neoromantica che celebra, invece, la retorica di un mondo salvifico da cercare proprio
nel paese. Ci vorrebbe una più accorta antropologia dei luoghi, sostiene Vito
Teti nel suo libro, capace di immaginare e decidere un diverso modello di
sviluppo, “un nuovo patto sociale e valoriale tra quelli che restano e quelli
che partono, tra quelli che tornano e quelli che arrivano”. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">Bisogna capire – ribadisce Teti
– che i piccoli borghi non migliorano e non si rilanciano con gli slogan, non
si rivitalizzano con espedienti pubblicitari come l’arrivo di qualche personaggio
famoso, o con proposte occasionali come la ristrutturazione di qualche casa con
piscina, ma creando condizioni essenziali per consentire a chi vuole restare di
rimanere nel suo paese, per favorire il ritorno a chi è andato via e per ospitare
chi ha maturato la scelta di vivere in un paese, lontano dai rumori e dallo smog.
Far vivere un paese significa ricostruire dei veri legami comunitari, ma questo
non si ottiene attraverso la vendita “a un euro” delle case abbandonate dai
proprietari. Per Vito Teti è una scelta devastante, questa, perché restituisce
l’idea che quella casa non ha nessun valore, e significa quindi svalutare il prezzo
delle case dei residenti che hanno continuato a vivere nel paese. Insomma, è
come svendere la memoria di una comunità.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">Come tutti i libri di Vito Teti,
anche questo ripercorre, con una scrittura intima e poetica, alcuni suoi
momenti autobiografici costringendo il lettore ad interrogarsi sul proprio modo
di vivere il tempo e di abitare uno spazio, che sia un paese o una città. Così scrive: “Vivo
nella casa in cui sono nato…e dove sono sempre tornato. Da fuori arrivavano le
voci dei bambini che giocavano e i passi, i rumori, delle donne, degli uomini,
degli asini, delle caprette che tornavano dalla campagna. Oggi arriva il
silenzio senza colore. Il balcone si affaccia sulla ruga, dentro il paese, sul
pieno di un tempo e sul vuoto di oggi. Anche se tutto è cambiato, tutto è
riconoscibile ed in questa persistenza si consumano il paradosso e lo stigma
del disfacimento. (…) Nel mondo da cui provengo e a cui sono rimasto fedele,
magari a costo di qualche tradimento, ho imparato il valore della fatica, della
solidarietà, delle piccole cose che più tardi ho scoperto, sui libri, essere il
valore della <i>polis</i>, della comunità. Sono uno dei restanti più tenaci e
resistenti tra quelli a me noti, anomalo, perché sono inquieto, amo viaggiare e
cambiare spesso luoghi e contesti. Sono cresciuto a cavallo di tre generazioni
e, contemporaneamente, nel crinale di due età, di due epoche, di due civiltà.
In poco più di un trentennio ho vissuto diecimila anni, dalla nascita delle società
agropastorali al loro inesorabile sparire. Incerto, irrequieto, sospeso, un
tempo immaginavo che sarei vissuto in un mondo nuovo, nella modernità; nella
frenesia di un tempo dinamico. Lo studio appassionato, il vortice delle letture
e i viaggi mi hanno insegnato che il mondo antico dei padri non veniva davvero
sostituito dal mondo nuovo dei figli, anche se tutto quel che resta del passato,
dei ricordi, della vita è sempre più essenziale per orientarmi in questo
universo fragile, insicuro, attraversato da un’idea di futuro sempre meno
definita con l’aumentare delle mie consapevolezze”.<o:p></o:p></span></p><br /><p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhjTzJiW6yc-PsHT3k-kz2CUiD1XDE8Edt9G05lFJY2w5gIPs2H_RUvN-tYpVHe9-rWnkzwrgfOeOQnGcCMpi2HBt2hUJxwe5tWqoFE2UkoHA0YxooSDghsLOBFAIz4xb6aKY267V6H9VbNxQ1CSo_3hqoBLwY40wK3Ea-HtGC68mv9eR8WRebSCrAhjWLb/s1712/Vito-Teti.-La-restanza.-Einaudi-Editore.webp" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1712" data-original-width="1000" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhjTzJiW6yc-PsHT3k-kz2CUiD1XDE8Edt9G05lFJY2w5gIPs2H_RUvN-tYpVHe9-rWnkzwrgfOeOQnGcCMpi2HBt2hUJxwe5tWqoFE2UkoHA0YxooSDghsLOBFAIz4xb6aKY267V6H9VbNxQ1CSo_3hqoBLwY40wK3Ea-HtGC68mv9eR8WRebSCrAhjWLb/s320/Vito-Teti.-La-restanza.-Einaudi-Editore.webp" width="187" /></a></div><br />Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com8tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-65286520960225813702023-11-01T08:20:00.002-07:002023-11-01T08:24:43.375-07:00Dieci anni di blog<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjwKZcNg8WFiC6KcKRKQf0-fhj2AVvvSNp3UB5RElmtbI8lM5eEKR7t9sNxcCcJiPQ6EZ4BAA5LcaVR-KqbiEtm8qz4IVPsvXkBRJDBC9gfUjtergf1JkIJIDvmiFVuPcrvykErZ6HuPUDb-FRk051dnlDJgxV23Ur2RpusBoPxeZ7QQW-V7hVZ3UrCgMwN/s500/blog.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="334" data-original-width="500" height="214" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjwKZcNg8WFiC6KcKRKQf0-fhj2AVvvSNp3UB5RElmtbI8lM5eEKR7t9sNxcCcJiPQ6EZ4BAA5LcaVR-KqbiEtm8qz4IVPsvXkBRJDBC9gfUjtergf1JkIJIDvmiFVuPcrvykErZ6HuPUDb-FRk051dnlDJgxV23Ur2RpusBoPxeZ7QQW-V7hVZ3UrCgMwN/s320/blog.jpg" width="320" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">445 post, oltre 3200 commenti, poco
più di 157.000 visualizzazioni: questi sono gli attuali numeri del mio blog
nato nel novembre del 2013, dieci anni fa. Non sono numeri straordinari
se paragonati ad altri siti web, però ne sono ugualmente soddisfatto. Come
scrissi nella mia presentazione, volevo “fermare il tempo” e non disperdere ciò
che mi appartiene, condividendo pensieri, riflessioni, letture, divagazioni. E
per soddisfare, forse, quell’intimo desiderio insito in ogni uomo che scrive:
essere letto da qualcuno. Diceva Pavese che “è bello scrivere perché riunisce
le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">Mi domando, però, se abbia
ancora un senso scrivere su un blog, consapevole del fatto che nella storia
dell’umanità non si è mai scritto così tanto come nell’epoca che stiamo
vivendo. Siamo letteralmente sommersi dalle parole, non sempre eccelse, e a
volte mi chiedo quale importanza possano avere le mie.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">Nel blog ho cercato di parlare
dei libri che man mano andavo leggendo soffermandomi, in particolare, su quegli
autori quasi dimenticati, prima ancora che dai lettori, dagli stessi editori:
Giuseppe Berto, Lalla Romano, Ercole Patti, Michele Prisco, Giovanni Arpino,
A.M. Ortese, Luciano Bianciardi, tanto per fare alcuni nomi. Ho insistito con quegli
scrittori che più amo e che leggo e rileggo: Pavese, Pessoa, Proust, Svevo,
Seneca…Mi sono addentrato, e continuo a farlo, nel meraviglioso mondo dell’arte
e della poesia alla ricerca di bellezza e di sensazioni. Ho esplorato con
passione la mia terra – il Cilento – con i suoi paesi arroccati sulle colline e
ho descritto le bellezze e le brutture di una delle città più affascinanti del
mondo, Roma, dove vivo da tanti anni. Ho osservato fatti e misfatti di questa
nostra società, sempre più omologata e globalizzata,<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>cercando di capire il mondo tecnologico con i
suoi derivati, che tutto forgia a sua immagine e somiglianza. Un mondo<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>lontano anni luce dalla mia filosofia di vita,
che non prevede urgenze da smartphone. Ho solo sfiorato la politica, che mi ha
deluso e mi ha tradito, e non vado più a votare. Ho cercato di guardare, più da
vicino, i mezzi di comunicazione di massa che veicolano e manipolano
informazioni e individui. Ho raccontato le mie malinconie, la mia solitudine, i
miei rimpianti, le mie nostalgie. Mi sono fermato a riflettere sul tempo che scorre
e lascia i suoi segni indelebili sulle cose e sugli uomini. E mi sono
confrontato piacevolmente con persone squisite che – da dieci anni - hanno
ancora la pazienza di leggermi.<o:p></o:p></span></p><br /><p></p>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com12tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-48298756596616500582023-10-19T01:35:00.002-07:002023-10-19T01:35:59.216-07:00Imparare le poesie a memoria<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiCy5dUsP9OsG21KGbzhoyCdFSE2xtFUC0F1kzesZNatTffF6PRWKStHUifMq-D25nOW0K_gNu7nrntpAt06OO9EUSuC4Qlw5icskn36dwevs_exVRLWR2o6KxGmyAom8zINUpqzJwobEkIO1B29ntKgjFeCJ5GGj6gtrfjkJMCMmwp64P57JugAm2EYTbu/s831/poesia-perche-fa-bene-alla-salute.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="435" data-original-width="831" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiCy5dUsP9OsG21KGbzhoyCdFSE2xtFUC0F1kzesZNatTffF6PRWKStHUifMq-D25nOW0K_gNu7nrntpAt06OO9EUSuC4Qlw5icskn36dwevs_exVRLWR2o6KxGmyAom8zINUpqzJwobEkIO1B29ntKgjFeCJ5GGj6gtrfjkJMCMmwp64P57JugAm2EYTbu/s320/poesia-perche-fa-bene-alla-salute.jpg" width="320" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="background: white; color: #7d7d7d; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%; mso-bidi-font-family: Arial;">Italo Calvino sosteneva che imparare le poesie
a memoria, ripeterle mentalmente da bambini, da giovani ma anche da vecchi, è
un ottimo esercizio per tenere viva la memoria e combattere l’astrattezza del
linguaggio che ci viene imposto. E poi le poesie fanno tanta compagnia. Si
potrebbe cominciare con quelle più corte, più facili da ricordare. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="background: white; color: #7d7d7d; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%; mso-bidi-font-family: Arial;"><o:p> </o:p></span><span style="background-color: white; color: #7d7d7d; font-family: Garamond, serif; font-size: 14pt;">Corre senza guinzaglio la poesia.</span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="background: white; color: #7d7d7d; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%; mso-bidi-font-family: Arial;">Nessuno si azzardi a dire: è mia.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><i><span style="background: white; color: #7d7d7d; font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%; mso-bidi-font-family: Arial;">Franco Marcoaldi</span></i><i><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;"><o:p></o:p></span></i></p><br /><p></p>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com8tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-76721645222772083912023-10-16T05:15:00.000-07:002023-10-16T05:15:28.298-07:00Caro, dolcissimo Proust...<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjw9fFs6zXNj5spdOoyYyRKb99JiYsjP2wZY6VkvdG5QzsCudPv2KnRX8Gp-vzSj9Uw9l4U1jE5ABHGnsNU2Ut-DOqLc7icNql9xWhZvf7oHfPBo1lD2ucFxYljk-NNgtLOA9dD1B-v1zveMdNk6EKsh30efMGo2ilSfpKEM8d9vlWiXGjQis2amr-999Ax/s972/proust.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="892" data-original-width="972" height="294" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjw9fFs6zXNj5spdOoyYyRKb99JiYsjP2wZY6VkvdG5QzsCudPv2KnRX8Gp-vzSj9Uw9l4U1jE5ABHGnsNU2Ut-DOqLc7icNql9xWhZvf7oHfPBo1lD2ucFxYljk-NNgtLOA9dD1B-v1zveMdNk6EKsh30efMGo2ilSfpKEM8d9vlWiXGjQis2amr-999Ax/s320/proust.jpg" width="320" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">“Tu sei stato l’ultimo erede di
una tradizione che ha creduto, come fine supremo dell’uomo, nell’arte. Hai
esplorato con estremo coraggio il Continente Uomo, nei suoi vizi e nei suoi
ideali. Hai estratto dal mondo fisico dei segni che nessun altro era riuscito a
decifrare. Hai scoperto giardini nelle tazze da tè. Il campanile di una chiesa,
una siepe di biancospino, i ciottoli disuguali del cortile di una casa, l’odor
di muffa di un gabinetto, il rumore di un cucchiaio contro un piatto o lo
scorrere dell’acqua nei tubi, e tante piccole cose per altri insignificanti
hanno trovato in te lo storico e il poeta: e così i tristi effetti della
patologia, della nevrosi, i tic, le nevralgie, i nostri peccati futili e gravi.
Ti sei murato prigioniero in un faro, come Baudelaire, mescolando nell’ampia
coppa del tuo sistema sostanze disparatissime: positivismo e bergsonismo,
misticismo e intelletto, estasi e analisi, critica e immaginazione, platonismo
e conoscenza. Parlando di tutto, di pittura, di teatro, di architettura, di
musica, di poesia, inseguivi la specifica e volatile essenza delle cose, per la
riconquista di un paradiso di essenze. Modernissimo fino allo spasimo, hai
adorato perdutamente il sapore, il colore di cose vecchie e svanite della
Francia “seigneuriale” e borghese, nel mistero religioso delle cattedrali,
nella maestà della pietra.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Più di noi che in esse viviamo
hai amato le nostre città, anche quelle che non conoscevi o che conoscevi
soltanto attraverso mediocri riproduzioni o il suono vivo del loro nome: Parma,
Firenze. Hai riversato nelle tue pagine le ansie ingenue del bambino e le
insensate manie aristocratiche e, nella circolarità della tua esperienza, con
quale tenerezza crudele osservavi la metamorfosi dello splendido volto umano
nella immonda maschera goyesca, nelle decrepite ombre che in un istante
d’allucinazione credono di essere libere, così come le belve, chiuse nelle
gabbie del Jardin del Plantes, sognano di trovarsi nei deserti dell’Africa.
Nella tua infinita prolissità ci hai costretto a soffrire, ad amare, ad
annoiarci, ci hai regalato tristezza ed entusiasmo, fiducia e sconforto,
guidandoci nella tua folta selva per poi disperderci, umiliarci. Hai scritto
un’altra <i>Commedia</i>, o un nuovo <i>Roman de la Rose</i>. Ed ora che sulla
tua opera si è depositata, come nelle antiche pitture, l’unità trasparente che
chiamasti <<le vernis des maitres>>, e la patina è il velo che solo
il tempo sa dare alle immagini dell’arte, anche ora avvertiamo di non poterti
situare nella tranquilla luce diffusa, un po' fredda, che impongono le
cosiddette operazioni critiche della storia. Da tutto quel che si è scritto,
che è come una cattedrale piena di irte guglie su un’altra immensa cattedrale,
ci basta ricavare la consolante certezza, che hai cambiato il vecchio mondo
senza distruggerlo”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><i><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Giovanni Macchia – “L’angelo
della notte”<o:p></o:p></span></i></p><br /><p></p>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com8tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-36086242221075242152023-10-09T00:43:00.000-07:002023-10-09T00:43:49.631-07:00Leggere lentamente<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgZ_uDSw_31ckUswLm7tx_4tZ6aVvDKKObSayvo7O0jOmiFflvHol2y1AuwtwWXyECMN5o0GLASDBzWB-QoSMkWAvcrE5nMT5nFeeo7hIH_qyRhUeSxiDP8dYzgxG16fRWZcTt2F46X2zKGIhvcKoy8RCmZFNac6wlCF3qit9uU96Ws5OmQdg5PzgC1jas4/s400/la_lettura_lenta_ecco_6_ragioni_perche_e_importante_1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="400" data-original-width="400" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgZ_uDSw_31ckUswLm7tx_4tZ6aVvDKKObSayvo7O0jOmiFflvHol2y1AuwtwWXyECMN5o0GLASDBzWB-QoSMkWAvcrE5nMT5nFeeo7hIH_qyRhUeSxiDP8dYzgxG16fRWZcTt2F46X2zKGIhvcKoy8RCmZFNac6wlCF3qit9uU96Ws5OmQdg5PzgC1jas4/w358-h320/la_lettura_lenta_ecco_6_ragioni_perche_e_importante_1.jpg" width="358" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Leggo con estrema lentezza, che
sia una pagina di un romanzo o un articolo di giornale. Quando prendo
in mano un libro, intendo fare un percorso di pacata riflessione non già una
gara di velocità con la scrittura, per arrivare rapidamente alla fine. E’ come
intraprendere un viaggio: la felicità non è raggiungere la destinazione finale,
ma godersi le bellezze lungo il percorso. Posso anche leggere solo poche pagine,
fermarmi e poi riprendere la lettura: un modo questo per interiorizzare,
ripensare, fantasticare. Spesso sento dire: “è un libro che ho letto tutto d’un
fiato”; oppure, “l’ho divorato in una sola notte”. Devo dire che io non sono
così vorace: e poi di notte preferisco dormire…quando ci riesco. E’ un tipo di
lettura che non mi appartiene, e se un libro mi piace, amo sorbirlo piano
piano, parola dopo parola, anziché ingurgitarlo. Diciamo che lo faccio durare
di più.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Il libro è il cibo dell’anima e,
al pari di un piatto prelibato, va “masticato” lentamente per assaporarlo
meglio in tutti i suoi aspetti. Occorrono anni di lavoro per scrivere un libro
e – secondo il mio parere - non lo si può mettere da parte e liquidare solo
dopo poche ore di lettura. E’ come fare uno sgarbo al suo autore e non
riconoscere il suo impegno, la sua fatica di scrivere. In qualche maniera, il
modo di leggere è l’espressione del “ritmo” che abbiamo imposto alla nostra
esistenza: c’è chi preferisce correre, quindi leggere molti libri, stare dietro
a tutte le novità editoriali; c’è chi dice di avere poco tempo a disposizione e salta le pagine, per arrivare subito alla fine; e
chi invece predilige passeggiare con le parole, andare piano, stare più a lungo con<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>il suo libro. Secondo lo scrittore Milan
Kundera </span><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-bidi-font-style: italic; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT; mso-font-kerning: 0pt; mso-ligatures: none;">c’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio.</span><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT; mso-font-kerning: 0pt; mso-ligatures: none;"> Infatti se
una persona cammina per strada e, ad un tratto, cerca di ricordare qualcosa,
immediatamente rallenta il passo, si ferma a pensare. Chi invece vuole
dimenticare, accelera la sua andatura, perché vuole allontanare da sé il
passato. E il lettore compulsivo è uno che ha fretta, che ama la velocità, e non
vede l’ora di passare al libro successivo, che è sempre migliore del
precedente. </span><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;"><o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Leggere lentamente, invece, è
voler ricordare, è soffermarsi sulle parole ascoltandone la cadenza, la
musicalità, il significato più profondo; è saper cogliere il silenzio che si
nasconde tra una frase e l’altra; è poter distogliere, ogni tanto, gli occhi e
la mente dalla pagina per pensare e viaggiare in un mondo parallelo; è trovare
connessioni e collegamenti con altri libri. Leggere lentamente è fantasticare;
è poter sottolineare ciò che più colpisce l’immaginazione. </span><span style="font-family: Garamond, serif; font-size: 14pt;">E’ chiaro che è una modalità di
lettura, questa, suggerita solo dai grandi autori della letteratura, cioè da
quei libri che non si abbandonano mai, che si lasciano ma poi si riprendono,
che si tengono sempre a portata di mano sul comodino, perché la sola vista
procura piacere.</span></p><br /><p></p>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com8tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-81693198752536758852023-10-01T02:57:00.003-07:002023-10-01T08:12:07.594-07:00La pubblicità ti fa sentire sempre insoddisfatto<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjBDQnkHVaRD3KxASz66D0ivCmQVWx2Ohuyzik8r_4l4RVnYNxcMk9A2-CrDV9dGJm6Ixq2nVtbc4gsTv8aUkI8wHRWHt_OuiPXJ7SsOEcSesTcJg_Rikri65IkM_fs-hbmunlhxB6BsWuyBb7RoPY_5Qis2LmFUxlThIou1yWKE4kWq-FrwFomqL9QiENJ/s1024/la%20pesca.png" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="682" data-original-width="1024" height="213" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjBDQnkHVaRD3KxASz66D0ivCmQVWx2Ohuyzik8r_4l4RVnYNxcMk9A2-CrDV9dGJm6Ixq2nVtbc4gsTv8aUkI8wHRWHt_OuiPXJ7SsOEcSesTcJg_Rikri65IkM_fs-hbmunlhxB6BsWuyBb7RoPY_5Qis2LmFUxlThIou1yWKE4kWq-FrwFomqL9QiENJ/s320/la%20pesca.png" width="320" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">Fare leva sulle emozioni e sui
sentimenti della gente, per spingerla a desiderare e a comprare una cosa, è una
delle manipolazioni più aberranti dell’odierna società dei consumi. Lo dico
senza mezzi termini: io detesto la pubblicità in tutte le sue forme. La evito
come la peste, non la guardo, eppure riesce spesso a imbrigliarmi con i suoi invadenti
tentacoli. Lo scrittore Erri De Luca sostiene che non può farne a meno: lui
dice che è l’unico modo per sapere quali sono i prodotti da non comprare. E’
una strategia anche questa, ma non so quanto sia vincente. Io però preferisco oscurarla, la pubblicità: seguire e avvalorare, in qualche maniera, i suoi messaggi ossessivi mentre interrompono la visione di un programma
televisivo, significa farsi del male da soli. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">La pubblicità è un vero e proprio bombardamento quotidiano, continuo e intollerabile. Prima
di comprare un prodotto che davvero serve, sarebbe meglio leggere attentamente l’etichetta,
anziché fidarsi dei “consigli per gli acquisti”. D’altra parte il motto di chi
fa pubblicità è: “non prendete la gente per stupida, ma non dimenticate mai che
lo è”. Insomma, i pubblicitari – i “creativi” della nostra epoca - non hanno
grande stima delle persone a cui si rivolgono con parole e immagini, sempre false
e ingannatrici. <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>E se poi uno spot
pubblicitario – uno come tanti – viene enfatizzato e addirittura additato come
opera d’arte, fino a monopolizzare il dibattito socio-culturale di un paese,
allora significa che siamo veramente alla frutta. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">Frédéric Beigbeder - prima di
diventare un personaggio noto - faceva il pubblicitario in una grande agenzia
francese. Nel 2000, consapevole che la pubblicazione di un suo libro <i>“99
francs”</i> (tradotto in italiano “Lire 26.900”) gli avrebbe causato il
licenziamento, non esitò a denunciare, in una maniera davvero spietata, tutto
il marcio del mondo della pubblicità. Così scrive nel suo libro:<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><i><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">“Tutto si compra: l’amore,
l’arte, il pianeta Terra, voi, io. Scrivo questo libro per farmi licenziare. Se
mi dimettessi, non beccherei l’indennità. Mi tocca segare il confortevole ramo
su cui sto appollaiato…Preferisco essere sbattuto fuori da un’impresa che dalla
vita. (…) Sono un pubblicitario: ebbene sì, inquino l’universo. Io sono quello
che vi vende tutta quella merda. Quello che vi fa sognare cose che non avrete
mai. Cielo sempre blu, ragazze sempre belle, una felicità perfetta, ritoccata
in Photoshop. Immagini leccate, musiche nel vento. Quando, a forza di risparmi,
voi riuscirete a pagarvi l’auto dei vostri sogni, quella che ho lanciato nella
mia ultima campagna, io l’avrò già fatta passare di moda. Sarò già tre tendenze
più avanti, riuscendo così a farvi sentire sempre insoddisfatti. Il Glamour è
il paese dove non si arriva mai. Io vi drogo di novità, e il vantaggio della
novità è che non resta mai nuova. C’è sempre una novità più nuova che fa
invecchiare la precedente. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere
nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma. La
vostra sofferenza dopa il commercio. Nel nostro gergo l’abbiamo battezzata
“frustrazione post-acquisto”. Non potete stare senza un prodotto, ma non appena
lo possedete, dovete averne un altro. L’edonismo non è un umanismo: è un
cash-flow. Il suo motto? “Spendo dunque sono”. Ma per creare bisogni si devono
stimolare la gelosia, il dolore, l’insoddisfazione: sono queste le mie
munizioni. E il mio bersaglio siete voi. (…) Siete di fronte a individui che
disprezzano il pubblico, che vogliono mantenerlo in un atto d’acquisto stupido
e condizionato. Nel loro animo si rivolgono alla “rincoglionita sotto i
cinquant’anni”. Voi cercate di proporre qualcosa di divertente, che rispetti un
po' la gente, che tenti di tirarla verso l’alto, perché è una questione di
buona creanza quando s’interrompe un film in tv. E vi viene impedito. (…)
Idealmente, in democrazia, l’intento dovrebbe essere quello di utilizzare il
formidabile potere della comunicazione per smuovere le menti anziché
annientarle. Questo non succede mai perché le persone che dispongono di questo
potere preferiscono non correre rischi. (…) Vedrete che un giorno vi tatueranno
un codice a barre sul polso. Sanno che il vostro unico potere risiede nella
vostra carta di credito. Hanno bisogno di impedirvi di scegliere. Devono
trasformare i vostri atti gratuiti in atti d’acquisto. (…) Gli uomini politici
non controllano più nulla; è l’economia che governa. Il marketing è una
perversione della democrazia: è l’orchestra a dirigere il direttore. Sono i
sondaggi che fanno la politica, i test che fanno la pubblicità, i panel che scelgono
la programmazione musicale alla radio, le “sneak preview” che determinano il
finale del film, l’auditel che fa la televisione. (…) Creativo non è un
mestiere in cui devi giustificare il tuo salario; è il salario a giustificare
il tuo lavoro. Come per gli autori di programmi televisivi, la carriera è
effimera. Ecco perché un creativo prende in pochi anni quello che una persona
normale guadagna in una vita intera. (…) La pubblicità si è messa a dettare
legge su tutto. Un’attività che era partita quasi per scherzo domina ormai le
nostre vite: finanzia la televisione, condiziona la stampa, regna sullo sport
(non è la Francia che ha battuto il Brasile nella finale di Coppa del Mondo, ma
Adidas che ha battuto Nike), modella la società, influenza la sessualità,
sostiene la crescita economica…”<o:p></o:p></span></i></p><br /><p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjxdJ58GR9qsVVMrNI7Uecu0TFJnEGa54tA1tYczxleb2if6BD2VVajmx3KkCw9vSZT-TjGpFpdVWacKofyDS5RsusUWzsL7GjArpK_FSRetyleMmmrai8M8sv9aBT-gZl77DmtkBdMY8uqEC-vpquZLXimJrIGj2ke7NbpuUulYg4B_KUugiWG1V2dPfh9/s522/61yeSkBt1yL._SY522_.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="522" data-original-width="338" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjxdJ58GR9qsVVMrNI7Uecu0TFJnEGa54tA1tYczxleb2if6BD2VVajmx3KkCw9vSZT-TjGpFpdVWacKofyDS5RsusUWzsL7GjArpK_FSRetyleMmmrai8M8sv9aBT-gZl77DmtkBdMY8uqEC-vpquZLXimJrIGj2ke7NbpuUulYg4B_KUugiWG1V2dPfh9/s320/61yeSkBt1yL._SY522_.jpg" width="207" /></a></div><br />Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com12tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-37207517270037742062023-09-16T02:01:00.008-07:002023-09-17T01:29:28.674-07:00Compagni di scuola<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjApnVaUPiixkBacwl6KnBgcJLW-m4nMhKUbuWFYUsrTztaGuWPT0XwgH3CkiqlFS1R-nQ5A87Hz16Ohndd8xSYNwW0NhC6zNVqoZ3v4eAUt6KAaAeKIGHiZOqxhZs66OX4AN0NCqqE7e5F_dyOllq3OAFg3JkHwJHRwCypxULtHHTOnQ4Ne0-bSm89xokl/s1862/foto%20classe%20pino.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1378" data-original-width="1862" height="269" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjApnVaUPiixkBacwl6KnBgcJLW-m4nMhKUbuWFYUsrTztaGuWPT0XwgH3CkiqlFS1R-nQ5A87Hz16Ohndd8xSYNwW0NhC6zNVqoZ3v4eAUt6KAaAeKIGHiZOqxhZs66OX4AN0NCqqE7e5F_dyOllq3OAFg3JkHwJHRwCypxULtHHTOnQ4Ne0-bSm89xokl/w399-h269/foto%20classe%20pino.jpg" width="399" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">Ritrovarsi con dei vecchi
compagni di scuola che non vedi da oltre mezzo secolo – lo confesso – fa uno
strano effetto, tanto disorientante quanto emozionante. E’ un po' come
ritrovare la strada perduta, o meglio, ritrovare finalmente se stessi
attraverso gli altri.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">Quante volte avevo guardato
quella vecchia e ingiallita foto di gruppo, in bianco e nero, scattata sul
piazzale antistante la scuola dove quell’anno (credo fosse il 1967) frequentavo
la quarta ginnasio! Quanti ricordi mi trasmetteva quella fotografia a cui ero
molto affezionato, ogni qualvolta mi capitava di osservarla! In prima fila, il
Preside, una persona molto severa che suscitava, ai professori prima ancora che
a noi studenti, un certo timore reverenziale per la sua grande cultura; e poi
il timido e pacato professore di Lettere che addirittura arrossiva in certe
particolari occasioni; e come non ricordare il mitico professore di educazione
fisica che ci chiamava “bifolchi” quando lo facevamo arrabbiare. Scrutando quei
volti, a volte mi domandavo:
chissà cosa farà, oggi, il mio ex compagno di banco, Germano: invidiavo (io che
ero un timido inguaribile) i suoi interventi sempre appropriati su qualsiasi
argomento scolastico. E poi Giuseppe B., il più bravo della classe: <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>uno studioso instancabile! E poi ancora
Antonio P. con quella sua aria da filosofo incompreso che si illudeva di sapere
tutto! E Michele, con quella sua faccia un po' così, da Adone malinconico, il
più corteggiato dalle donne! E già: le nostre donne, le nostre care compagne di
classe che erano in minoranza rispetto a noi maschietti: la dolce Gina, la silenziosa Filomena, l’ironica e sempre pungente Piera, e poi Rosa, Irene….e
le altre due compagne di cui non ricordavo più il nome e a cui oggi chiedo
scusa. Ma il tempo, ahimè, fa di questi scherzi!<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">Poi un bel giorno di fine estate – dicevo - mi
arriva una chiamata sul telefono di casa (non so come abbiano fatto a
rintracciarmi, visto che non ho cellulari e non sto sui social e cerco di
sfuggire a tutti i radar). “Sono Rosario” – mi dice una voce dall’altra parte –
“ti ricordi di me? 4^ C, secondo banco, fila centrale. Ti aspettiamo…non puoi
mancare…vengo a prenderti alla stazione” (gli avevo detto che abitavo a Roma). Andare
o non andare? Di fronte ad una rimpatriata scolastica, a distanza di tanti anni,
si affaccia sempre una sorta di timore generato dal confronto tra il passato e
il presente. Mi viene in mente quella famosa battuta di Nanni Moretti nel film
“Ecce bombo”, quando il protagonista dice al telefono: “mi si nota di più se
vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?” Nonostante la mia
titubanza, la mia indole solitaria, sciolgo il dilemma: prendo il treno e
parto. Ero curioso di vedere come “eravamo ridotti” dopo 53 anni di lontananza.
Volevo vedere la mia vecchiaia stampata sul volto di quei miei ex compagni di scuola. Ero
curioso di scoprire<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>i successi e i
fallimenti, le gioie e i dolori che la vita aveva imposto a ciascuno di noi. E
mentre il treno mi portava nel luogo stabilito, mi veniva da pensare che a
volte si trascorre una vita intera preparandosi a un avvenimento: e quell'avvenimento sembrava essere, ora, la nostra rimpatriata partorita dalla mente di qualcuno che forse, più
di tutti, avvertiva questa nostalgia. Nel corso degli anni tutto sembra
conservarsi, però si scolorisce come quella fotografia che avevo sotto gli
occhi di un passato ormai lontano, che ci ritrae ragazzi inconsapevoli del
proprio futuro. E così sbiadiscono, ma non muoiono mai, anche i ricordi. E
ora che sono “vecchio” penso spesso alla mia gioventù. Dicono che sia una cosa
naturale: quando l’inverno si approssima, il ricordo delle belle giornate
estive si fa più forte.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">E così ci siamo finalmente ritrovati
- con esistenze e caratteri diversi, ma soprattutto con
un aspetto fisico che ha messo a dura prova la nostra memoria visiva - in un
ristorante affacciato sul meraviglioso mare del Cilento dove aleggia il mito di
Palinuro, il nocchiero di Enea, annegato proprio da quelle parti. Un vero salto
nel passato con gli stessi attori, solo un po' invecchiati. Baci, abbracci,
emozioni, amnesie, risate, sguardi meravigliati… “ma tu chi sei? Oddio non ti riconosco”…”ma che
piacere rivederti”…”ma non sei per niente cambiato, forse eri già vecchio prima”…”ma
adesso che sei in pensione come passi il tempo?.… Giuseppe…Gaetano…Enzo…Irene…Antonio e
tutti gli altri, compresi quelli che, purtroppo, non ci sono più…Dante…Mario…Fernando, a cui va il nostro pensiero.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14pt; line-height: 107%;">Una rimpatriata di classe a
volte può ricompattare un gruppo che, forse, in tempi scolastici non era affatto
unito. Non esistono più invidie, rivalità, rancori, paure, sentimenti propri di
una certa età. Si è più liberi e disincantati, non si ha più nulla da perdere, si
è in pace con se stessi, con il mondo...e con la scuola. Si è più disponibili all’amicizia e ai ricordi. Devo
dire che per qualche ora siamo ritornati ad essere i ragazzi spensierati di un
tempo, dimenticando le nostre rispettive responsabilità, i nostri attuali ruoli
sociali e familiari. Sono riaffiorati i ricordi, i momenti condivisi fatti di
complicità tra i banchi di scuola, gli sfottò, tra risate e felicitazioni.
L’occasione ci ha permesso di conoscerci meglio e di raccontare le nostre
vicende personali, le nostre storie, i nostri rimpianti e di riannodare i fili
di un’amicizia rimasta, per tanti anni, accesa come la brace sotto la
cenere. E ora che ci siamo ritrovati, ci siamo ripromessi di rivederci al più
presto, perché davanti a noi non c’è più una prateria ma solo un piccolo
orticello che va coltivato con passione, giorno dopo giorno.<o:p></o:p></span></p><br /><p></p>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com10tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-912251042421679252023-09-11T02:29:00.000-07:002023-09-11T02:29:27.666-07:00Vagabondare in autunno<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br /></div><br /><p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgj9YZn-lESfub5-r21c_5rIwKkuOQvSPN_V13P3F-lzprtY2042sX5AhDRbrA_aIn8IbTeOMJcIRuvAiubeum9nzTpC6sKMO_DGTl60p8v9b7kEKaSCpxBHDYFRAc_RNk1DZ4nn2if0-9WF99qhaOoWvPLUwJziXIIMyNcBmBM9mIVtCenz6LoaqupLcbN/s1270/Alyscamps-Campi-elisi-Van-Gogh-1888.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1270" data-original-width="1024" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgj9YZn-lESfub5-r21c_5rIwKkuOQvSPN_V13P3F-lzprtY2042sX5AhDRbrA_aIn8IbTeOMJcIRuvAiubeum9nzTpC6sKMO_DGTl60p8v9b7kEKaSCpxBHDYFRAc_RNk1DZ4nn2if0-9WF99qhaOoWvPLUwJziXIIMyNcBmBM9mIVtCenz6LoaqupLcbN/w286-h320/Alyscamps-Campi-elisi-Van-Gogh-1888.jpg" width="286" /></a></div><br /><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Mi viene da pensare: ma dove
eravamo rimasti? Poi mi rendo conto che una simile domanda non è più
sostenibile, appare quanto mai anacronistica, fuori dal tempo. Io però mi
ostino ad andare controcorrente. Con i moderni mezzi di comunicazione, oggi non
esiste più sospensione tra il prima e il dopo. Non ci si lascia mai. Si è
sempre connessi con il mondo intero senza soluzione di continuità. E non esiste
più l’attesa. Abbiamo rinunciato alla “vigilia”, un tempo prolungato di
felicità e di piacere, saltando direttamente alla festa che è, invece, un tempo
breve che vola via in un attimo. Intanto il tempo inesorabilmente scorre, come
sempre, rosicchiando i nostri giorni. Le nostre stagioni. E in questo
precipitare verso la fine viviamo velocemente. Senza pause. Senza fermarci mai.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Comunque sia, ci eravamo
lasciati in piena estate, o meglio, avevo chiuso questo spazio durante quelle
interminabili roventi giornate di luglio. Ad oggi, i giorni si susseguono quasi
identici, il caldo ancora imperversa e non sembra finire, anche se stiamo
scivolando lentamente verso l’autunno, almeno dal punto di vista meteorologico.
Ma non esistono più neanche le stagioni di una volta… e non è solo un modo di
dire: ce la stiamo mettendo davvero tutta per stravolgere anche quelle. Ormai si
passa direttamente dal caldo al freddo e viceversa. Ma cosa rappresentano per
noi le stagioni? Ho cercato di scoprirlo leggendo il libro - poetico e
malinconico – del filosofo Duccio Demetrio “Foliage - vagabondare in autunno”. Ed
è proprio l’autunno il filo conduttore di questo saggio, arricchito dal
pensiero filosofico, da poesie, da cenni letterari e diaristici, da immagini
pittoriche, in particolare di quelle scuole che più l’hanno dipinto come gli
impressionisti e i macchiaioli.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Ognuno di noi si immedesima in una
stagione e durante lo scorrere delle altre non fa che aspettare che torni la
propria, si legge nel libro. La mia sta arrivando e – diciamo pure – che ci sto
già dentro: è l’autunno. E’ quella che mi è più congeniale. Prima ancora che
una stagione dell’anno, l’autunno per me è uno stato mentale, un tempo
interiore, una disposizione d’animo, un modo di vivere. Le quattro stagioni
sono la metafora della condizione umana. Che la primavera rappresenti la
giovinezza, l’estate il pieno fulgore (la bella estate di Pavese) e l’autunno
la vecchiaia ai suoi inizi, ad un passo dall’inverno che ci verrà a trovare,
prima o poi, con i suoi silenzi, le sue solitudini e i suoi acciacchi – scrive
Duccio Demetrio – è un’immagine fin troppo risaputa. D’altra parte ogni
stagione, in quanto esperienza prima di tutto sensoriale, incide su di noi e
indirizza il nostro modo di essere e di agire. In particolare l’autunno, con le
foglie che cadono dagli alberi – <i>“dal mio nome ogni giorno cade una lettera”</i>,
dice Franco Arminio - con i suoi ritmi lenti, con lo scemare progressivo della
luce, con i suoi paesaggi nebbiosi, con il suo declinare verso il freddo dell’inverno,
si rivela molto vicino a certi miei stati d’animo velati di malinconia. <i>“Veder
cadere le foglie mi lacera dentro/soprattutto le foglie dei viali/soprattutto
se sono ippocastani”,</i> recitano i versi di una struggente poesia del poeta
turco Nazim Hikmet. L’autunno è da sempre fonte di ispirazione poetica, tanto
triste per i suoi detrattori quanto dolce per chi lo ama e in esso si
immedesima. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Vagabondare con la mente, se non
si riesce con le gambe, deve condurci a riscoprire questa stagione in tutta la
sua essenza, in tutta la sua bellezza. L’autunno ci invita a scrivere, a non
smarrire i ricordi di questi mesi, a viverlo sia come esperienza interiore che
come impegno esteriore rivolto a tutti quei piccoli accadimenti, alle suggestioni
e alle atmosfere che più ci colpiscono. L’autunno che è in noi va cercato e
scoperto, bisogna prendersene cura come un modo di esistere, come stile di vita
in controtendenza. E’ infatti in questi giorni settembrini che si fanno largo
(tra passeggiate nei boschi a cercare funghi o castagne, allegre vendemmie o
solitarie meditazioni) <i>“i bilanci esistenziali necessari a dar senso morale
alla propria vita”</i>.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><i><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">“Amo l’autunno – </span></i><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">scriveva
Flaubert<i> - questa triste stagione si addice ai ricordi. Quando gli alberi
non hanno più foglie, quando il cielo conserva ancora al crepuscolo la rossa
tinta che indora l’erba appassita, è dolce guardare spegnersi tutto ciò che
poco fa bruciava ancora in noi”</i>.<o:p></o:p></span></p><br /><p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhLvxegom6BetS6_hFe-pEpystItxDC5ooINT-XgQwqO6Yn3X7iigrd8Ry2O2pMNclruCvBjzskIu_1ASUht5F0yGiGicrF-PvCxwACUHqdh8fJKJlDYAXshvHKOTXJGCaN6UDHiHm5nTG0hNhYTLMEm51DU5A3Fp4XIgmRiQ9QL46ZxIWWPRVvDdYq030Z/s800/foliage-2850.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="800" data-original-width="577" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhLvxegom6BetS6_hFe-pEpystItxDC5ooINT-XgQwqO6Yn3X7iigrd8Ry2O2pMNclruCvBjzskIu_1ASUht5F0yGiGicrF-PvCxwACUHqdh8fJKJlDYAXshvHKOTXJGCaN6UDHiHm5nTG0hNhYTLMEm51DU5A3Fp4XIgmRiQ9QL46ZxIWWPRVvDdYq030Z/s320/foliage-2850.jpg" width="231" /></a></div><br />Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-20682336900691522152023-07-22T02:49:00.001-07:002023-10-13T08:18:15.423-07:00Radici<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEichmCYFhJOuqyDho-P_PuOnDeItxjCbFyOv3BbpDOyEzwIRKenLNh5hR4HkiS5oQv6XhRWGOP69ig4FeHqshoKAz0n7YYRZfKmIRsRARgwtDQRZoYbkfIOwczGf4LAIeIQTxddb9ZedTPczzCkdppsBrd1vAFKTpHMCkbKKmUpycdRb6j2bMDP9nstVz7Q/s2592/portone.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="2592" data-original-width="1944" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEichmCYFhJOuqyDho-P_PuOnDeItxjCbFyOv3BbpDOyEzwIRKenLNh5hR4HkiS5oQv6XhRWGOP69ig4FeHqshoKAz0n7YYRZfKmIRsRARgwtDQRZoYbkfIOwczGf4LAIeIQTxddb9ZedTPczzCkdppsBrd1vAFKTpHMCkbKKmUpycdRb6j2bMDP9nstVz7Q/w273-h320/portone.JPG" width="273" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Ritornare nel “natio borgo
selvaggio” - da cui forse non mi sono mai allontanato – è un rito
irrinunciabile che si ripete ogni estate. E’ il luogo dell’infanzia e
dell’adolescenza dove la “dolente bellezza” (prendo a prestito questa
espressione di Carlo Levi in “Cristo si è fermato a Eboli”) non si manifesta
esplicitamente in opere d’arte, in fontane seicentesche e statue barocche, ma la
si scopre in certi angoli appartati, ben nascosta ad un osservatore frettoloso,
in certi panorami al tramonto, in certi scorci naturali avvolti nella calura
estiva, dove il silenzio è rotto solo dal canto incessante delle cicale. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Ogni piccola cosa degna di essere
osservata è necessario scovarla, in un paese, e prendersene cura affinché
resista nel tempo; ogni ricordo va nutrito, coltivato affinché si rinnovi
quell’ intesa di fiducia e fedeltà alle proprie radici, quel senso di
appartenenza su cui si fonda la nostra identità. E’ la casa in cui si è nati; è
la strada in cui si è giocato a pallone; sono gli alberi su cui ci si è arrampicati
scorticandosi le ginocchia; sono le case abbandonate, un tempo abitate da persone
del posto; è il dialetto che parlavi come la sola lingua conosciuta; è il
cimitero dove sono sepolti i propri defunti; è quel viottolo di campagna
percorso in groppa all’asino del nonno; è il rintocco delle campane a festa che
chiamava a raccolta una comunità che, oggi, non esiste più. Perché quel tempo
non esiste più!<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Immagini, sensazioni, ricordi che
ritornano alla mente. Cose semplici colorite di infinite illusioni che ti
appaiono, adesso, come le scene di un teatro a spettacolo finito, mentre senti
il tuo cuore stretto da un’ indicibile malinconia. La malinconia degli anni che
passano e delle stagioni della vita che si succedono, <i>“del tacito infinito
andar del tempo”</i> diceva Leopardi. E mentre te ne stai, da solo e in
silenzio, su quel terrazzino della casa avita che guarda verso il mare, riemerge
quello che sei stato, come un temporale improvviso che ti coglie alla
sprovvista e ti bagna. E tu ti lasci bagnare senza cercare alcun riparo,
concedendo ai ricordi di fluire leggeri. E ti domandi cosa è rimasto in te del
tuo paese, della vita di prima, quando non sapevi come sarebbe stato il tuo
futuro e il solo immaginarlo ti faceva stare male, perché capivi che il futuro
non poteva essere lì. E ti domandi cosa è rimasto di quella antica civiltà
contadina esiliata dalla storia e con una diversa concezione del tempo, dove i
giorni, i mesi, gli anni si succedevano monotoni senza che nulla cambiasse. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Si può essere costretti a
spezzare gli antichi legami e partire. Ma poi arriva il momento del ritorno. E
ritornare nel luogo in cui tutto è cominciato significa compiere una sorta di
cammino a ritroso e guardare la realtà che ritrovi con occhi diversi. Ma niente
è più come prima. Quella zona lontana che chiami passato non è altro che uno
spazio d’oblio che attende, comunque, il momento per risorgere. Se ne sta
nascosto in qualche anfratto, magari in un insospettabile oggetto, in un delicato
profumo di <i>madeleine</i>. E proprio quando non rimane più nulla di quel
lontano passato “<i>l’odore e il sapore permangono ancora a lungo come anime </i>–
scriveva Proust - <i><span style="mso-spacerun: yes;"> </span>a ricordare, ad
attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro,
goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo”</i>.<o:p></o:p></span></p><br /><p></p>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-83272576688858756772023-07-07T02:10:00.003-07:002023-07-24T07:39:13.941-07:00Commenti<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiCXFoarSGvGY0Cefwcew1-S_UCZloF3kAhZ76lrV8dL7ajzOuph1TlrW-bs48j37Gubvk8R9GZivVE7MVsR4j_pFnQom4Gkjyb3TNNmUXGGJWDvc8G78wycbRZM_faRvyT3vumujBoHnz1flFm6CtEZjhL23bOerF1w5_NbjIjJQ42adtSp33iyBgiPv_2/s300/commenti%20immagine.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="270" data-original-width="300" height="282" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiCXFoarSGvGY0Cefwcew1-S_UCZloF3kAhZ76lrV8dL7ajzOuph1TlrW-bs48j37Gubvk8R9GZivVE7MVsR4j_pFnQom4Gkjyb3TNNmUXGGJWDvc8G78wycbRZM_faRvyT3vumujBoHnz1flFm6CtEZjhL23bOerF1w5_NbjIjJQ42adtSp33iyBgiPv_2/w326-h282/commenti%20immagine.jpg" width="326" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 12pt; line-height: 107%;">Il commento a un post ha una sua
importanza; è uno strumento prezioso che misura, come un termometro, il grado
di interesse e coinvolgimento dei lettori nei confronti di un blog. E poi fa sempre piacere
ricevere un commento perché rappresenta, comunque, una gratificazione,
soprattutto quando il post viene apprezzato. Certo, ci sono commenti e commenti
e non tutti sono utili. Un buon commento deve avere una sua valenza, non può
essere ridotto ad un semplice <i>mi piace</i>, perché il blog <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>è uno strumento social di nicchia e non di
massa. Alcuni commenti possono addirittura essere dannosi per il blog, altri
ancora sono del tutto generici, soprattutto quando non vanno oltre le due
parole: che siano di apprezzamento o di biasimo. Per quanto mi riguarda, i
commenti più graditi sono quelli che vengono chiamati <i>guest post</i> : veri
articoli, a volte più interessanti del post commentato. Certo, per fare questo
ti devi impegnare molto e devi “perdere del tempo”, cosa che non è da tutti. E’
più facile e sbrigativo scrivere una cosa scontata e banale, tipo: <i>bel post</i>…<i>
parole bellissime</i>…<i>mi piace</i>, anziché argomentare quel giudizio
positivo con un pensiero che fa pensare. La scrittura – d’altronde come la
lettura - necessita di tempo e impegno, ma anche di fatica. E la fatica è una
brutta bestia. Sarebbe meglio non commentare quando non si hanno argomenti
convincenti e propositivi. Però poi sorge un problema: il <i>do ut des</i> dove
lo mettiamo? Se non ci sono commenti sembra quasi che il blog non venga seguito
da nessuno. E allora io ti dico che i tuoi versi sono meravigliosi a patto che
tu scriva che il mio post rimarrà nella storia della blogosfera. Massì: punto…due
punti…punto e virgola, facciamo vedere che abbondiamo, direbbe Totò.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 12pt; line-height: 107%;">E’ buona regola rispondere ai
commenti. Io lo faccio sempre, con quei 3/4 commenti che ricevo abitualmente. Altrimenti sarebbe come essere invitati a pranzo
e rimanere a parlare da soli, mentre il padrone di casa se ne sta tutto il
tempo a smanettare sul suo smartphone senza degnarti di uno sguardo (…ma forse
a questo ci siamo già arrivati). Meglio non essere saccenti, quando commentiamo,
senza dimenticare l’educazione e il rispetto per gli altri, condizioni
fondamentali per una corretta e civile comunicazione. Sono tanti i blogger che
decidono di moderare i commenti sul proprio blog perché non si fidano di quello
che potrebbero scrivere i lettori: io non l’ho mai fatto e devo dire che, in
tanti anni, non mi è mai capitato nulla di spiacevole. Forse perché non scrivo
mai di politica o di calcio o di pettegolezzi mediatici, argomenti questi che
urtano in maniera sensibile la suscettibilità di tante persone. Naturalmente ognuno
fa come meglio crede, ma io sono contrario ai filtri. Credo che i pensieri
divergenti siano il sale della comunicazione: è il pensiero unico che mi fa
paura. E ben venga chi non la pensa come me. Trovo, poi, alquanto divertenti
certi “accapigliamenti” <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>che a volte si verificano
su un blog dove ciascuno vuol far prevalere la propria idea. Se la contesa
non va fuori le righe con offese e volgarità, è sempre interessante seguire il
dibattito, soprattutto quando i contendenti sanno cavarsela molto bene con la
scrittura. Devo dire che io commento poco, perché i blog che seguo si contano
sulle dita di una sola mano. Ma il motivo è molto semplice: ho un’autonomia
molto limitata e non riesco a stare su internet (con il PC di casa perché non ho
cellulari, come qualcuno già sa) più di 20/30 minuti al giorno. E non tutti i giorni. Per leggere ho
bisogno di sentire il fruscio delle pagine sfogliate, l’odore della carta. E
non c’è blog, per quanto interessante, che possa distogliermi da questo mio
modo di essere. <o:p></o:p></span></p><br /><p></p>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com24tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-84903826812649645542023-06-26T09:18:00.001-07:002023-07-25T06:50:16.874-07:00La schiavitù è la legge della vita<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgoFx-iZ27WF7YObFn9yx_GiYvGspiQlZ0hcLCxWOGiVYSF4QvUvguRssPjTHr7UoIoIB2P3L4HGdXTGQRh2F5q9qk44tZQ4_SxJBdKKeCyRf3ZhuuwISTucqXm8-xkl2Jr7ZtMJ_QKatec_krGrNNJKTPAuruyE_lcMR6prdY2BqHQ0rqEw6VYs4B5___0/s1000/eremodalmonticello2parcomajella-2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="750" data-original-width="1000" height="263" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgoFx-iZ27WF7YObFn9yx_GiYvGspiQlZ0hcLCxWOGiVYSF4QvUvguRssPjTHr7UoIoIB2P3L4HGdXTGQRh2F5q9qk44tZQ4_SxJBdKKeCyRf3ZhuuwISTucqXm8-xkl2Jr7ZtMJ_QKatec_krGrNNJKTPAuruyE_lcMR6prdY2BqHQ0rqEw6VYs4B5___0/w368-h263/eremodalmonticello2parcomajella-2.jpg" width="368" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">“Questa è una giornata nella
quale mi pesa, come un ingresso in carcere, la monotonia di tutto. Ma la
monotonia di tutto non è altro che la monotonia di me stesso. Ciascun volto,
anche lo stesso che abbiamo visto ieri, oggi è un altro, perché oggi non è
ieri. Ogni giorno è il giorno che è, e non ce n’è mai stato un altro uguale al
mondo. L’identità è solo nella nostra anima (l’identità sentita con se stessa,
anche se falsa), attraverso la quale tutto si somiglia e si semplifica. Il
mondo è cose staccate e spigoli distinti; ma se siamo miopi, esso è una nebbia
insufficiente e continua.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Il mio desiderio è fuggire.
Fuggire da ciò che conosco, fuggire da ciò che è mio, fuggire da ciò che amo.
Desidero partire: non verso le Indie impossibili o verso le grandi isole a Sud
di tutto, ma verso un luogo qualsiasi, villaggio o eremo, che possegga la virtù
di non essere questo luogo. Non voglio più vedere questi volti, queste
abitudini e questi giorni. Voglio riposarmi, da estraneo, dalla mia organica
simulazione. Voglio sentire il sonno che arriva come vita e non come riposo.
Una capanna in riva al mare, perfino una grotta sul fianco rugoso di una
montagna, mi può dare questo. Purtroppo soltanto la mia volontà non me lo può
dare.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">La schiavitù è la legge della
vita, e non c’è altra legge perché questa deve compiersi, senza possibile
rivolta o rifugio da trovare. Certuni nascono schiavi, altri diventano schiavi,
ad altri ancora la schiavitù viene imposta. L’amore codardo che tutti noi
proviamo per la libertà (libertà che, se la conoscessimo, troveremmo strana
perché nuova, e la rifiuteremmo) è il vero indizio del peso della nostra
schiavitù. Io stesso, che ho appena detto che desidererei una capanna o una grotta
per essere libero dalla noia di tutto, che poi è la noia che provo per me,
oserei forse andare in quella capanna o in quella grotta consapevole che, dato
che la noia mi appartiene, essa sarebbe sempre presente? Io stesso, che soffoco
dove sono e perché sono, dove mai respirerei meglio se la malattia è nei miei
polmoni e non nelle cose che mi circondano? Io stesso, che ardentemente sogno
il sole puro e i campi liberi, il mare visibile e l’orizzonte largo, chissà se
mi adatterei al letto o al cibo o a non dover scendere otto rampe di scale per
arrivare alla strada o a non entrare nella tabaccheria dell’angolo o a non
scambiar il buongiorno con l’ozioso barbiere.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Quello che ci circonda diventa
parte di noi stessi, si infiltra in noi nella sensazione della carne e della
vita e, quale bava del grande Ragno, ci unisce in modo sottile a ciò che è
prossimo, imprigionandoci in un letto lieve di morte lenta dove dondoliamo al
vento. Tutto è noi e noi siamo tutto; ma a che serve questo, se tutto è niente?
Un raggio di sole, una nuvola il cui passaggio è rivelato da un’improvvisa
ombra, una brezza che si leva, il silenzio che segue quando essa cessa, qualche
volto, qualche voce, il riso casuale fra le voci che parlano: e poi la notte
nella quale emergono senza senso i geroglifici infranti delle stelle”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><i><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt;">da “Il
libro dell’inquietudine”<o:p></o:p></span></i></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><i><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt;">di
Fernando Pessoa<o:p></o:p></span></i></p><br /><p></p>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com10tag:blogger.com,1999:blog-389364303601026081.post-79059603639139196842023-06-14T06:45:00.001-07:002023-10-13T08:18:48.137-07:00Paesi e bellezza<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgfsOl22ZwtQiRfFSKf8BMXR1zSUBKn1mFhav0RyO0Ihs_6J-GoU8E9cK0PNyMlPvRAB7wgNoyjXzyqkK9tOEy-AZfrm2hmXTw1FcuLWDePPGVgvmLLtFOdSoVWlNLyIYScaKv7D3dAg-QTCiR5BKPGqFkjApPZPY4Q88ppdHpLaSdEEeNGLIP4TQmpfA/s1024/cilento%20panorama_Vibonati.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="682" data-original-width="1024" height="238" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgfsOl22ZwtQiRfFSKf8BMXR1zSUBKn1mFhav0RyO0Ihs_6J-GoU8E9cK0PNyMlPvRAB7wgNoyjXzyqkK9tOEy-AZfrm2hmXTw1FcuLWDePPGVgvmLLtFOdSoVWlNLyIYScaKv7D3dAg-QTCiR5BKPGqFkjApPZPY4Q88ppdHpLaSdEEeNGLIP4TQmpfA/w369-h238/cilento%20panorama_Vibonati.jpg" width="369" /></a></div><br /><p></p><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Vivere in una grande città è
trascorrere gran parte della propria vita immersi nella bruttezza, nel degrado
dello spazio urbano. Faccio questa amara riflessione mentre percorro una strada
del quartiere in cui abito, a sud-est di Roma. Una strada come tante, dove la
bellezza - che ha plasmato la città eterna nel corso dei secoli - qui non è mai
arrivata. Tra smog, incessanti rumori di fondo, traffico nevrotico, cumuli di rifiuti,
marciapiedi maleodoranti, manifesti pubblicitari che ricoprono qualsiasi
spazio, muri e saracinesche di negozi imbrattati di scritte, palazzoni simili
ad alveari che sembrano respingere più che ospitare: una scenografia urbana,
questa, che non evoca alcuna idea di bellezza. E non stimola affatto il buon
umore. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Sono appena ritornato con il
treno dal mio paesello, nel Cilento. L’impatto con la vita frenetica della
Capitale, a cominciare dal caos della stazione Termini che per prima mi
accoglie, appare sempre più traumatico. Mi viene da pensare che a volte
sembriamo divisi tra l’impulso a ignorare le nostre sensazioni - diventando
indifferenti e anestetizzati all’ambiente circostante - e il sentimento opposto
che ci fa soffrire e riconoscere che il nostro carattere è legato intimamente
al luogo in cui viviamo abitualmente. Un posto ameno e seducente, una bella
architettura residenziale, una strada pulita, un parco pubblico non dico che sono
garanti di felicità ma hanno, certamente, la capacità di migliorare lo stato
d’animo delle persone che li abitano. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Capita, poi, di ritrovarci in un
delizioso e antico paesino arroccato sulla collina che guarda verso il mare.
Apriamo la finestra della casetta costruita in pietra dove ci siamo
momentaneamente rifugiati, e veniamo assorbiti dal magnifico panorama che ci si
presenta davanti: la bella vigna giù nella vallata, la distesa di ulivi
secolari, qua e là alberi di querce e di lecci e di fichi, le rovine di un
vecchio castello in lontananza, casupole di contadini a punteggiare il
territorio circostante, il mare all’orizzonte…e il tutto sotto un cielo azzurro,
limpido e profumato. Respiriamo a pieni polmoni quell’aria salubre e ci
sentiamo felici. Nessun rumore di macchine, nessuno che farnetica ad alta voce con
un cellulare, assenza di graffiti sui muri: solo silenzio, pace, tranquillità,
armonia naturale. Insomma, un piccolo angolo di mondo che non conosce la
bruttezza metropolitana e le miserie umane. Solo quando ci troviamo di fronte
alla bellezza della natura ci rendiamo conto di quanta bruttezza ci sia nella
nostra vita. Ci riempiamo gli occhi e il cuore con quel panorama non violentato
dall’intervento scriteriato dell’uomo, mentre il pensiero va al nostro
appartamento in città, con vista non sulla Fontana di Trevi o su Piazza di
Spagna ma sulla facciata scrostata di un palazzo simile al nostro, e su quella sterminata
distesa di lamiere, il nostro doloroso paesaggio quotidiano. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Garamond",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 107%;">Ma perché ci siamo allontanati
così tanto da certi fondamentali valori dell’esistenza? Perché scegliamo di
vivere in agglomerati urbani superaffollati e sempre più invivibili? Come
abbiamo potuto rinunciare a ciò che più conta nella vita, in primis, a quel
rapporto virtuoso e salutare con la natura? Se esiste davvero la bellezza da
ammirare e da godere tutti i giorni, allora la si deve cercare non in un museo
o in un’antica cattedrale, ma proprio in uno dei tanti borghi del nostro Paese
dove il paesaggio naturale - cancellato dentro di noi dalla modernità e fuori
di noi dal cemento – si estende sereno dinanzi a noi; dove la lentezza è ancora
un valore; dove un muretto a secco diventa la nostra cattedrale; dove ci si può
ripulire la mente e l’anima dalle brutture quotidiane e abbandonarsi anche
all’assenza di un pensiero; dove finalmente ci si può svestire delle nostre discutibili
ed omologate impalcature metropolitane. <o:p></o:p></span></p><br /><p></p>Pinohttp://www.blogger.com/profile/14953002714967855572noreply@blogger.com6