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domenica 30 giugno 2019

Lavorare meno per lavorare tutti

dal web


Il progresso, così come oggi lo viviamo e lo subiamo, non genera felicità, tant’è che nel mondo dei ricchi parecchie migliaia di persone ogni anno si tolgono la vita. La migliore qualità della vita non è legata alla crescita illimitata del Pil, croce e delizia (forse più croce) dei nostri tempi. Purtroppo in questo rilevatore non sono comprese attività e risorse che, sebbene concorrano alla prosperità ed al benessere dei cittadini, non vengono prese in considerazione perché non hanno un valore di mercato. Mi riferisco al tempo libero, all’ambiente non inquinato dai gas di scarico e dai rumori, alla qualità dell’istruzione e dell’informazione, all’importanza dell’arte e della bellezza nella vita di tutti i giorni. Io credo che sia arrivato il momento per cominciare a prendere in considerazione un diverso stile di vita, spendendo e consumano di meno in risposta al super consumismo imperante. Sarebbe necessario che alcuni valori conseguissero il predominio su altri: in primis, la lentezza sulla velocità, la generosità sul disinteresse, i prodotti nostrani su quelli esotici, il piacere dell’ozio e del tempo libero sull’ossessione del lavoro. La società moderna è caratterizzata da una massa di persone super impegnate e super pagate a fronte di un’altra massa, senza lavoro e senza soldi. La mia idea di mondo è quella in cui al centro ci sia l’uomo e non la tecnologia che sostituisce l’uomo, in cui le attività lavorative vengano divise secondo principi di equità, di merito e di competenze. La nostra è una società che spinge gli individui a lavorare sempre di più (quelli che già hanno un lavoro) e si dimentica di coloro che un lavoro non ce l’hanno. Mi piace immaginare un mondo in cui gli individui abbiano il necessario per vivere dignitosamente lavorando di meno, ma lavorando tutti, per poter dedicare il resto del proprio tempo a se stessi, ma anche alle cose piacevoli della vita. Non ha senso, secondo me, inventare strumenti tecnologici sempre più potenti e sofisticati che velocizzano tutte le attività umane, se poi siamo costretti a impiegare il tempo così guadagnato in altri lavori, indirizzati magari nella creazione di strumenti ancor più veloci, in un circuito vizioso senza fine.

Bisogna ripensare l’uso della terra, elemento fondamentale della cultura umana, attraverso una sua migliore distribuzione che preveda un maggiore sviluppo dell’agricoltura contadina, biologica e rispettosa dell’ambiente. La terra è un bene comune e non va violentata e distrutta con i pesticidi e con le colate di cemento. Senza ritornare al medioevo e con il supporto dei mezzi tecnologici adeguati, è necessario ripartire dalle attività manuali, dalle piccole imprese agricole, dalle botteghe di artigianato, da quegli antichi mestieri che oggi sembrano scomparsi dal mondo lavorativo, affinché si possa lavorare unicamente per produrre ciò di cui abbiamo bisogno, anziché consumare sempre di più per poter continuare a sfornare all’infinito cose di cui non sappiamo che farcene. Siamo strapieni di cose superflue che accentuano il nostro vuoto esistenziale e il nostro smarrimento.

Ho sempre cercato di non dare troppo credito ai cultori della velocità e agli “ottimizzatori del tempo” ossessionati dal loro iperattivismo produttivo senza limiti, i quali ci ricordano che dobbiamo correre e che non dobbiamo perdere tempo, perché il tempo è denaro. Per me, l’ozio e la lentezza sono condizioni esistenziali necessarie e irrinunciabili, che andrebbero elevate ad arte, in opposizione alla fretta, all’efficientismo a tutti i costi ed alla crescita illimitata, proprio per ristabilire quei ritmi naturali perduti e ritrovare le nostre pause quotidiane.

venerdì 21 giugno 2019

Ennio Flaiano: la solitudine del satiro



Ci sono alcuni libri che non ci abbandonano mai, che teniamo sempre a portata di mano, sul comodino, libri che ci confortano, come amici fidati e preziosi, quando ci troviamo a vivere giornate di particolare insofferenza esistenziale. Sono libri che si sfogliano specialmente quando tutto sembra andare per il verso sbagliato, quando non riusciamo a capire le contraddizioni del mondo in cui viviamo, quando si ha l’impressione che la verità ci sfugga e che possa esserci svelata non già dai fatti che succedono intorno a noi, non già dall’informazione che ormai ci sommerge, ma da quello che leggiamo tra le pagine di “quel” libro. E i libri di Ennio Flaiano - la maggior parte dei quali sono raccolte di articoli, elzeviri, appunti di viaggio e aforismi, quasi tutti pubblicati postumi - hanno questo straordinario potere: sono sempre attuali e aiutano a capire il presente pur parlando del passato. Lo scrittore abruzzese arrivò a Roma da Pescara - dove era nato nel 1910 (si considerava un “emigrante interno”, come tutti gli italiani) - e la Capitale diventò subito la sua città, ne descrisse l’anima più profonda, i suoi pregi e i suoi difetti, dividendosi tra il giornalismo di costume e l’attività di sceneggiatore e critico cinematografico, intrattenendo rapporti di amicizia e di lavoro con personaggi illustri e intellettuali del calibro di Longanesi, Palazzeschi, Brancati, Cardarelli, Carlo Levi, Moravia, Fellini, Arbasino…e tanti altri. Attento osservatore della realtà sociale a cavallo tra gli anni '50 e '70, fustigatore disincantato dei vizi della provincia italiana, diceva di non avere una vera vocazione narrativa, perchè sapeva solo scrivere, che è una cosa diversa; e i suoi aforismi graffianti e ironici, le sue battute pungenti e lungimiranti sono impresse ormai nell’immaginario collettivo. “La solitudine del Satiro” (Adelphi) ne è un compendio illuminante, cinico e malinconico. Passeggiando per Roma, Flaiano ferma la sua attenzione e il suo sguardo sulle cose che lo circondano, sulle persone che incontra, sui comportamenti che lo stimolano; le mode, i vezzi, la stupidità, l’arroganza, il menefreghismo, la burocrazia più sfrenata, il giornalismo, la televisione, la cultura che si parla e sparla addosso, diventano l’oggetto e il bersaglio delle sue fulminanti battute, delle sue sarcastiche riflessioni.

pag. 35 – “la Libertà è una forza vitale che può essere oscurata, mortificata ma non soppressa e che ogni uomo, in un preciso momento della sua vita, impara veramente ad amarla; ma che pretendere di anticipare questo momento è avventato, anzi illiberale. La Libertà, voglio dire, per alcuni è un dono, che trovano sul cuscino nascendo, portato da un benefico caso, per altri è una conquista, che tentano – qui è il punto – di ostacolare essi stessi con tutte le loro forze, di rifiutare con ogni argomento, dal più facile al più capzioso, dal più onesto al più politico. (…) Noi italiani odiamo la libertà; e la prova maggiore che io porto a sostegno di tale tesi è il gran numero di monumenti eretti nel nostro Paese ai martiri della Libertà, che sono sempre morti per difenderla. Noi amiamo la Forza e la Libertà sta sempre dalla parte dei deboli, che muoiono

pag. 174 – “Breve passeggiata serale in Via Veneto. Non è una strada, è una spiaggia dice N.  Quest’ immagine è tanto più giusta se si pensa che a Via Veneto manca appunto il mare, che nelle spiagge italiane è l’ultima cosa di cui si sente ormai bisogno. I sei caffè che l’adornano hanno ognuno un tipo diverso di ombrellone per i loro tavoli, come appunto gli stabilimenti di Ostia: forse per impedire che una volta rubati, possano essere utilizzati altrove. Non sono ombrelloni da strada, questo salta subito agli occhi, ma da festa galante. Ombrelloni con nappe, o di paglia – come debbono essercene nelle isole Hawaii. Le automobili scivolano come barche e il pubblico prende il fresco e si muove da un tavolo all’altro, o su e giù, con l’indolenza delle alghe. Il nostro destino è sul mare. Siamo tanto affezionati a questa idea, che abbiamo dovuto tradurla nell’unico modo accettabile alla nostra pigrizia, trasformando le strade in località balneari, elaborando uno stile balneare per le abitazioni, per l’abbigliamento, per le automobili e infine per i cittadini, che sembrano – e intimamente sono – soltanto bagnanti. Anche le conversazioni sono balneari, prive cioè di ogni riferimento alla realtà, barocche e scherzose. Manca che ci si spruzzi o che si giochi col pallone. (…) Alla fine della passeggiata sull’orlo di un marciapiede, ho trovato una conchiglia”.

pag. 192 – “Dalle vetrine dei negozi si vede che il popolo è assetato di ciò che l’industria moderna produce di più laido. Ma non è tanto attirato dal fatto che questa roba sia nuova, quanto dalla sua inutilità. E’ l’altra faccia dei negozi eleganti del centro della capitale, che credono di aver roba di gusto, per una clientela ricca ma altrettanto gretta e assetata di cose inutili. Il cane vale il padrone”

pag. 212 – “Piazza del popolo: si ferma un torpedone, ne scendono quaranta turisti, che senza perdere tempo, occhio al mirino, come una banda di guastatori, fotografano la piazza e risalgono nel torpedone, che riparte. Il tutto si è svolto con la rapidità delle manovre militari. Il turista è un essere privilegiato, che non rimane ferito da ciò che vede, dalla gente soprattutto, dalla gente che continua a vivere nei luoghi che egli fotografa e che impiega spesso la vita a penetrarne il mistero. Il turista raccoglie documenti che proveranno il suo viaggio, ma sarebbe troppo facile provargli che non si è mai mosso”

pag. 216 – Davanti ad un italiano medio elegante si ha sempre il dubbio che si tratti di un ballerino, o d’uno che aspiri a diventarlo. Quelle persone veramente eleganti che tutti conosciamo passano inosservate alla maggioranza (…) Credo che l’eleganza cominci dal sentirsi a proprio agio nei vestiti che s’indossano. L’agio svanisce appena indossiamo un abito che dobbiamo giustificare non soltanto agli occhi del prossimo, ma ai nostri stessi occhi”

pag. 355 – “In questo paese che amo non esiste semplicemente la verità. Paesi molto più piccoli e importanti del nostro, hanno una loro unica verità, noi ne abbiamo infinite versioni. Le cause? Lascio agli storici, ai sociologi, agli psicanalisti, alle tavole rotonde il compito di indicarci le cause, io ne subisco gli effetti. E con me pochi altri: perché quasi tutti hanno una soluzione da proporci: la “loro” verità, cioè qualcosa che non contrasti i loro interessi. Alla tavola rotonda bisognerà anche invitare uno storico dell’arte per fargli dire quale influenza può avere avuto il barocco sulla nostra psicologia. In Italia, infatti, la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Viviamo in una rete di arabeschi”

pag. 356 – “Appena un mese fa parlavo con Mino Maccari. Che si fa? Niente, si aspetta Godot? No, si aspetta la rivoluzione. Chi dovrebbe farla, i fascisti? I fascisti – gli ho ricordato – sono una trascurabile maggioranza. Maccari ha precisato: il fascismo si divide in due parti: il fascismo propriamente detto e l’antifascismo. Tutti e due vogliono confusamente ma subito le stesse cose: ordine, lavoro, democrazia, livellamento delle classi, un partito autoritario, nessuno vuole la libertà. Ossia ognuno vuole la sua versione della libertà, che consiste nel sopprimere quella dell’altro. La libertà comunemente intesa, quella per esempio di esprimere le proprie opinioni, è una cosa da disprezzare perché bene o male l’abbiamo”

pag. 357 – “Basta dare un’occhiata alla nostra cronaca. Confesso che lo faccio malvolentieri, ma bisogna farlo, o si rischia di non capire più niente. Ogni fatto si propone come una tragedia che non avrà mai la sua catarsi. Non esistono colpevoli, esiste solo il fatto, che cresce, si sviluppa, fa il suo corso; e alla fine, senza soluzione, rientra nel grembo del nulla, non appena sorge un fatto  più grosso all’orizzonte. I colpevoli svaniscono, i presunti colpevoli restano dentro, a tirarli fuori c’è sempre tempo. Tu mi dirai: sono casi limite, casi di “pazzia” momentanea. No, i pazzi da noi sono normali e anche abbastanza pazienti (basta vedere dove vengono rinchiusi); i veri pazzi sono gli altri, come diceva il filosofo, sono quelli che hanno perduto tutto fuorchè la ragione. E l’adoperano per costruire sistemi di intolleranza, di menzogna, di sopraffazione, ma soprattutto per imporre dogmi. E tutti ne hanno uno da imporre, costruito su letture affrettate, su vecchi rancori esistenziali, sulla loro trionfante inferiorità, sulla loro naturale volgarità, sulla teoria del massimo successo col minimo sforzo. Lo scopo è di far paura a quelli che non la pensano come loro”

sabato 15 giugno 2019

Notte insonne



Di tutti i piaceri che piano piano ti lasciano – forse a causa dell’età che avanza inesorabilmente - uno dei più preziosi e graditi è certamente quello del sonno. E’ un dono della natura che ti guarisce dalla stanchezza; è un compagno sincero e un rifugio sicuro; ma è anche una sorta di oscuro viaggio che si intraprende da soli ogni sera, un viaggio nell’ignoto, nel mistero, nel nulla; qualcuno addirittura ha detto che il sonno è un incontro ravvicinato con la morte, da cui se ne esce ogni volta al risveglio. Ma c’è forse qualcuno che non ha mai conosciuto una notte insonne!? Può succedere alla vigilia di un esame importante; può capitare in occasione di un grande dolore, come la morte di un genitore, o magari quando ci si trova in un letto d’ospedale o quando si è afflitti da profonde preoccupazioni. Ma può accadere anche senza motivi apparenti…

E’ notte fonda, ormai, e non riesci ancora a prendere sonno. Provi a contare le pecore, ma è una tecnica che non funziona. La mente va, con nostalgia, a quelle belle e lunghe dormite legate al tempo spensierato della tua infanzia e della tua giovinezza. Non torneranno più. La stanza da letto in cui ti trovi è avvolta nel silenzio più completo, rotto solo dal lieve respiro della persona che - beata lei - dorme accanto a te, ignara delle tue pene. In attesa che Morfeo si faccia vivo, ascolti i rumori che ti giungono nitidi dall’esterno, amplificati dal silenzio della notte. Come il passaggio di qualche macchina che corre a velocità sostenuta, non essendo ostacolata dal traffico caotico del giorno. Senti lontano il latrare di un cane, forse relegato dal suo padrone sul balcone di casa. Ti giunge, poi, la camminata spedita di un passante, che risuona in maniera insolita e inquietante sulla strada deserta: difficilmente potresti sentirla in altre ore della giornata, soffocata dai consueti rumori diurni. Ti domandi dove possa andare quel viandante frettoloso, da solo, a quell’ora di notte. Odi, in lontananza, la sirena di un’ambulanza che velocemente si avvicina: sembra quasi squarciare la quiete della città addormentata. Certamente sta correndo in soccorso di qualcuno che sta male, o lo sta già trasportando nell’ospedale più vicino. E mentre la segui con la mente - fino a quando il suo sibilo stridente non svanisce del tutto - ti tranquillizza un pensiero: meglio stare svegli nel proprio letto, che distesi su una barella all’interno di un’ambulanza.

Ma il sonno tarda ad arrivare, mentre le ore trascorrono con snervante lentezza. Intanto il vento, fuori, stormisce tra gli alberi di lecci lungo il viale, mentre il rumore di un oggetto che cade sul balcone ti fa quasi sobbalzare dal letto. Nel silenzio di tomba della tua stanza non ti sfugge nulla, ti aggrappi ad ogni alito di vita, a qualsiasi fruscio tu possa percepire. Ed è strano come questi sentori di vita, associati a dei rumori, possano apparire quasi angoscianti alle orecchie di un insonne, nel cuore della notte. E’ un modo di sentire, questo, che non si avverte mai con tanta attenzione e con tanta ansietà come durante queste ore d’insonnia.

Ti giri e rigiri nel letto, alla ricerca di una migliore posizione; accendi la luce sul comodino e guardi sconsolato l’orologio; ti alzi, vai al bagno, per ricoricarti poi di nuovo. Ti lasci prendere dalla frustrazione. Sono le ore in cui non puoi sfuggire a te stesso, ai tuoi pensieri, alle tue paure, le ore in cui non puoi parlare con nessuno se non con te stesso…poi senti suonare una sveglia: è la tua. Che beffa: ti eri appena addormentato.

mercoledì 12 giugno 2019

Il sopravvissuto



E’ un romanzo duro, spietato, inquietante, la cui avvincente narrazione ci spinge a profonde riflessioni. La vicenda si svolge in un liceo come tanti, ubicato in un immaginario paese dell’interland milanese (Casalegno). Tutto è pronto per iniziare la quarta prova dell’esame di stato, quando succede l’irreparabile: Vitaliano Caccia, il primo esaminando, già ripetente e destinato ad una seconda bocciatura, piomba nell’aula dove dovrà tenersi l’esame e, impugnando una pistola, stermina ad uno ad uno i sette professori della Commissione che avrebbero dovuto interrogarlo. Ne risparmia solo uno: Andrea Marescalchi, il suo insegnante di Storia e Filosofia. Questa è l’estrema sintesi del libro di Antonio Scurati, “Il sopravvissuto” - vincitore del premio Campiello nel 2005 - uno degli scrittori più interessanti dell’attuale panorama letterario italiano.

Perché un gesto così estremo? Quali sono le responsabilità della scuola e della società, se responsabilità ci sono, allorquando si verifica un tale efferato episodio di violenza omicida? E la famiglia quale ruolo gioca nella nostra società affinché i suoi figli possano crescere “vestiti” di sani principi morali? Questi sono gli interrogativi che potrebbero nascere dalla lettura di questo libro. Il sopravvissuto alla strage, invece, se ne pone altri. In particolare uno: perché solo lui è stato risparmiato dalla carneficina?. Poteva essere ucciso come tutti gli altri, invece l’assassino ha deciso di salvarlo. Quali meriti nascosti poteva mai avere in virtù dei quali Vitaliano Caccia l’ha voluto così ringraziare risparmiandogli la vita? E in questa ricerca, finalizzata a trovare una plausibile risposta, il professor Marescalchi si macera nei dubbi e nell’angoscia fino ad arrivare a pensare che sia egli stesso l’ispiratore dell’atto crudele; sia egli stesso il male, quel male che potrebbe albergare in ognuno di noi in attesa di liberarsi e deflagrare.

Un libro duro, come dicevo, che intende anche indagare su quegli aspetti comportamentali dei mass media alle prese con il racconto/spettacolo di eventi criminosi, che vanno a colpire emotivamente l’immaginario collettivo. E in questa narrazione si inseriscono, con forza e visibilità, alcune voci di contorno che appartengono alla cosiddetta “società civile” (presidi, psicologi, avvocati, magistrati, giornalisti) “perché un dolore che si consuma nell’invisibilità, una sofferenza che strugge senza esser vista, è più di quanto l’essere umano possa sopportare”.

lunedì 3 giugno 2019

Succubi dei social network



“La reazione dei social” … ”cosa dicono i social” … “come si comportano i social”: è il ricorrente e quotidiano ritornello, espressione dei tempi che viviamo. Non c’è giorno che non si faccia riferimento alla violenza verbale dei social, alla loro aggressività e volgarità. Questi moderni mezzi di comunicazione (Facebook, YouTube, Instagram, WhatsApp, Twitter…) hanno radicalmente cambiato le nostre relazioni sociali, dando voce e visibilità soprattutto a coloro che, fino a poco tempo fa, erano gli esclusi dal bla bla mediatico. La forza della parola, e non solo quella educata ed erudita – prima appannaggio delle persone più acculturate – è diventata l’energia dirompente della stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Tre, o forse quattro miliardi di utenti (pare che questi siano i numeri), appartenenti a tutte le età e a tutte le condizioni sociali, in poco tempo hanno fatto irruzione sulla scena pubblica, inserendosi, a volte in maniera inadeguata, nei dibattiti politici, sociali e culturali. E consegnando, nel contempo, esistenze, affetti, immagini riservate - in altre parole – la propria vita intima e familiare, ad un gestore che coordina e manipola quei dati e quelle immagini vendendo, poi, il tutto ad altri soggetti - quest’ultimi veri persuasori occulti - che condizionano scelte di vita e comportamenti sociali.

Siamo arrivati al punto che se non sei sui social network non conti nulla. Non esisti. Se non hai almeno qualche migliaio di follower, sei un fallito della comunicazione. E allora assistiamo ad un continuo e spasmodico raccontarsi, esibirsi, mostrarsi su Facebook, su Instagram, su WhatsApp a caccia di “amicizie” virtuali, alla ricerca di video e stranezze su  YouTube da girare, poi, agli amici, in una sorta di circolo vizioso, di catena di sant’Antonio senza fine e senza senso. Tutti a scrutare, a spiare in maniera compulsiva la vita degli altri, gli interessi degli altri, gli amori degli altri, le abitudini degli altri. Ma anche a promuovere attività, far valere diritti, far sentire la propria voce, non sempre autorevole.

Trascorriamo ore ed ore dinanzi ad uno schermo estraniandoci dal contesto in cui viviamo e rinchiudendoci in un mondo virtuale che appare parallelo a quello reale, fatto di like e condivisioni. Ed è proprio attraverso le condivisioni che si cercano consensi sulla propria simpatia, sulla propria bravura, sull’opportunità di piacere e di sentirsi desiderati, gratificati e, ancora meglio, invidiati, al fine di soddisfare quel bisogno narcisistico che è presente in ognuno di noi. Si condivide qualsiasi cosa: luoghi e fotografie, sensazioni ed emozioni, sia di persone che si conoscono che di persone sconosciute. Si condividono particolari, anche intimi, della propria vita privata, pur di accalappiare qualche like, pur di apparire sul palcoscenico mediatico. E non importa se poi svendiamo la nostra dignità indossando, ogni volta, una maschera che è sempre migliore della nostra vera identità. I social illudono i propri adepti, fanno credere loro di appartenere ad una grande comunità e di avere tanti amici, li lusingano, li fanno apparire importanti, potenti e liberi di dire quel che vogliono. Ma la libertà di pensiero trae forza ed ha una sua ragione di esistere solo se c’è rispetto per le opinioni degli altri. Siamo liberi di esprimere le nostre opinioni, ma non possiamo offendere il nome e le ragioni altrui, istigare alla violenza e fomentare l’odio. In altre parole, il diritto di espressione non può diventare un abuso. Ho l’impressione che l’uso di questi mezzi tecnologici, di cui oramai siamo succubi, ci stia sfuggendo di mano: crediamo di poterli controllare, ma sono loro che controllano noi; non li possediamo, ma ne siamo posseduti.