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mercoledì 30 gennaio 2019

Scrittura al femminile

Vermeer - Donna che scrive


Mi sono sempre chiesto se nel panorama della nostra letteratura esista una “scrittura al femminile”. Qualcuno potrebbe dire, giustamente, che se accettiamo tale definizione, dovremmo ammettere che non può non trovare una sua ragione di esistere anche il suo contrario e cioè una “scrittura al maschile”. Ma non mi risulta che quest’ultima venga accettata dalla critica letteraria o quantomeno utilizzata da chi si occupa di letteratura. Se è così, bisogna convenire che il problema non si pone e che esistono solo libri (belli o brutti) scritti da donne e libri (belli o brutti) scritti da uomini. Tuttavia non possiamo negare che le donne – almeno nel passato – hanno incontrato maggiori difficoltà ad esprimere il proprio pensiero attraverso un libro.

Se oggi, tra le donne scrittrici, ce n’è una che va per la maggiore e gode di stima e prestigio, ebbene questa donna è sicuramente Elena Ferrante. Il bello è che nessuno sa chi sia realmente. Si fanno diverse ipotesi sulla sua identità e qualcuno è arrivato a dire che dietro quel nome si possa nascondere addirittura un uomo. In ogni caso, devo dire che questa trovata pubblicitaria si è rivelata vincente, dal momento che i libri di Elena Ferrante sono sempre ai primi posti nella classifica delle vendite; e poi, da quando è stato mandato in onda lo sceneggiato televisivo tratto dal suo romanzo “L’amica geniale”, la scrittrice fantasma ha raggiunto l’apice della notorietà. Premetto una cosa: io non sono in grado di giudicare la sua scrittura perché, almeno fino ad oggi, non ho ancora letto alcun libro di questa autrice. E devo dire che la Ferrante non è nemmeno presente tra i libri della mia libreria che attendono fiduciosi di essere letti. Forse la leggerò in futuro, quando i suoi romanzi saranno un po’ invecchiati e ingialliti e nessuno più ne parlerà. E probabilmente, allora, potrò apprezzarli perché non esiste piacere più grande che leggere un bel libro dimenticato da tutti, fuori dal contesto storico, lontano dai clamori del momento mediatico e dagli schiamazzi della folla. Oggi Elena Ferrante è la scrittrice del momento: è la più ricercata, nelle vetrine delle librerie sono in bella vista solo i suoi libri. Non fa per me! Leggere contemporaneamente lo stesso libro mi appare come una sorta di imposizione dettata dalla pubblicità. E io sono allergico sia alla pubblicità che alla moda. Non mi lascio irretire né dall’una né dall’altra. Per nostra fortuna Elena Ferrante non ha ancora un corpo visibile, altrimenti sarebbe chiamata a pontificare, di tutto e di più, anche nei vari programmi televisivi.

Ora io non vorrei apparire come uno che non legge i libri delle donne. Li leggo, eccome!  Però ho le “mie” donne scrittrici e mi piace ricordarle di seguito, almeno quelle più significative che hanno comunque lasciato una traccia indelebile nella nostra letteratura. Ed anche nel mio animo. In primis, Elsa Morante: indimenticabili i suoi romanzi che io ho letto con grande piacere: L’isola di Arturo – La storia – Aracoeli – Menzogna e sortilegio. E poi Sibilla Aleramo con la sua opera più rilevante “Una donna”, uno dei primi libri femministi apparsi in Italia. Potrei mai dimenticare Grazia Deledda, finora l’unica scrittrice italiana ad aver vinto - nel 1926 - il premio Nobel per la letteratura? Icona della nostra identità culturale nel mondo, sebbene abbia trattato sempre tematiche legare alla sua terra d’origine, l’autrice sarda appare emarginata nel panorama culturale dei nostri tempi. “Canne al vento” è il suo romanzo più noto. Tra le mie preferenze c’è poi Anna Banti, pseudonimo di Lucia Lopresti, una scrittrice toscana di origine calabrese. Con “Noi credevamo” - da cui peraltro il regista Mario Martone ha tratto un suo film - rivive le aspirazioni ed i ricordi del nonno (Don Domenico Lopresti) un fervente repubblicano mazziniano, il quale si era illuso che l’unificazione d’Italia potesse finalmente cambiare in meglio le sorti della sua Calabria, nonché le condizioni di vita di tutto il Meridione. Un romanzo molto bello. Sono libri suoi anche “Artemisia” e “Un grido lacerante”, letti con interesse in questi ultimi tempi. E poi, come dimenticare Anna Maria Ortese! Subì in vita un forte ostruzionismo per  le sue idee, non sempre in linea con il mondo intellettuale dell’Italia degli anni ’50 dello scorso secolo. Morì in solitudine e povertà, con il vitalizio della legge Bacchelli che, come sappiamo, aiuta economicamente ancora oggi (almeno così credo) gli artisti in difficoltà. “Il mare non bagna Napoli”  è il suo libro a cui sono più legato. Mi piace poi ricordare Fausta Cialente, una scrittrice triestina, con il suo romanzo autobiografico “Le quattro ragazze Wieselberger”, pubblicato nel 1976. Quell’anno, il sottoscritto si trovava per motivi di lavoro a Trieste, la città in cui è ambientato e ricordo che si faceva un gran parlare di questa sua opera, anche in considerazione del fatto che si aggiudicò il Premio Strega. Allora non mi lasciai conquistare dal successo del libro, tant’è che l’ho comprato (su una bancarella dell’usato) solo di recente. L’ho letto: un libro di struggente e poetica bellezza, come solo certe donne, a volte, sanno scrivere. Un posto di rilievo nella mia libreria merita un libro universale che l’Unesco ha inserito nell’elenco delle memorie del mondo, scritto da una ragazzina di 13 anni. Si tratta de “il diario di Anna Frank” : non ha bisogno di presentazioni, è una delle più toccanti testimonianze delle persecuzioni attuate dai nazisti nei confronti degli Ebrei. L’ho letto e riletto e continuerò a farlo. Ora vorrei spendere due parole per una delle maggiori scrittrici del Novecento, Virginia Woolf. Un suo libro, “Gita al faro”, credo di averlo letto in un momento sbagliato perché non è riuscito a coinvolgermi emotivamente, nonostante sia considerato, in modo unanime, un capolavoro della letteratura. Mi sono ripromesso di non abbandonare la scrittrice inglese, a seguito di questa mia prima “sconfitta” nei suoi confronti, e di riprovarci con qualche altro suo libro. Vorrei terminare queste mie brevi divagazioni sulla “scrittura al femminile”, con una scrittrice francese legata alle mie letture giovanili: Francoise Sagan, simbolo della ragazza libera e spregiudicata in cui si identificavano i giovani del suo tempo. Aveva appena 19 anni quando scrisse “Bonjour Tristesse”, un romanzo che divenne ben presto un caso letterario e che fu messo all’indice addirittura dal Vaticano. Ricordo che lo lessi con voracità: fu il mio primo libro scritto da una donna.

mercoledì 23 gennaio 2019

Un monastero per ritrovare solitudine e silenzio

Il convento di San Francesco nel Cilento


Il monastero ha sempre esercitato su di me un fascino arcano. E’ un’immagine che perdura da sempre nella mia mente come un richiamo misterioso e irresistibile, fin dalla mia infanzia. Ancora vive nei miei ricordi infantili la figura di un monaco, dall’aspetto mite e gentile, che andava bussando di porta in porta nel mio paese del Cilento, chiedendo l’elemosina. Era una sorta di Fra Galdino, il personaggio dei Promessi Sposi che raccoglieva noci per il suo convento di Pescarenico. Questo frate apparteneva a una piccola comunità di francescani e devo dire che allora, ogni qualvolta sentivo la sua voce inconfondibile, uscivo in strada perché volevo seguirlo fino al convento di San Francesco, che si trovava in una località vicina. Ma non perché desiderassi  fare il monaco. No, non credo di avere mai avuto questa aspirazione.  Ero soltanto attratto dal monastero, da quell’edificio austero e imponente che mi suscitava curiosità e mi faceva immaginare chissà quale mondo fantastico e imperscrutabile potesse racchiudersi tra quelle spesse mura.  E se questo luogo monastico, allora, faceva galoppare la mia ingenua fantasia, confesso che ancora oggi, sebbene in maniera diversa, continua ad abitarmi – se così si può dire – quale metafora di una filosofia di vita più semplice, in antitesi all’attuale quotidiana condizione umana caratterizzata dallo stress, dalla fretta, dai rumori e da una perenne connessione virtuale con un indefinibile “altrove”. Il monastero: il luogo del silenzio, dello spirito, della solitudine. Una solitudine – va precisato – cercata e non imposta. Solitudine che ognuno di noi dovrebbe assaggiare ogni tanto, così tanto per staccare dal frastuono della modernità. Non potrebbe che farci del bene.

“…La solitudine è, prima di tutto, un grande desiderio…Lo si capisce se si sta dentro una metropoli e si riesce ad immaginare ancora un luogo dove insonorizzare il mondo. Non si entra nel nulla, ma si scopre ciò che la città e il baccano nascondevano”. Lo scrive Vittorino Andreoli in un suo libro che ho appena finito di leggere “Beata solitudine” con sottotitolo “il potere del silenzio”. Il grande psichiatra veronese appare spaventato da quello che vede girando per la sua città, dove domina l’indifferenza, e dove lui si sente “sconosciuto tra sconosciuti” . E guardandosi in giro, vede che “ciascuno è concentrato su quell’oggetto piatto che tutti portiamo in tasca e che mostra di contenere mondi ancora più popolati di spettri, di virtualità, della nuova realtà e di immagini che sono più concrete di quelle fatte di ossa e di carne”E mai come in questo momento - scrive Andreoli -“ho voglia di solitudine”.
Vittorino Andreoli ci invita a cercare una più profonda e umana dimensione alla nostra esistenza per dare ascolto e spazio “a quel monaco che si nasconde nel profondo di ciascuno di noi”. E partendo da questo presupposto, ci propone un’accurata analisi sul monachesimo e le sue regole, a partire da quello orientale per soffermarsi più diffusamente su quello occidentale/cristiano, che nasce con San Benedetto da Norcia. L’autore dice di avere girato il mondo,  ma di non avere mai trovato la serenità e quel distacco dal quotidiano e dal tempo che scappa inesorabilmente. E allora – dopo averci parlato del monastero dei credenti - immagina di indossare la tonaca e di poter avere le chiavi di un antico monastero posto su una montagna, un “monastero dei non credenti” (che non c’è, ma che è dentro di lui da molto tempo), con l’intento di fuggire dal mondo e ritornarvi dopo aver cercato e incontrato il suo Dio. Un monastero che nasce per il bisogno di abbandonare – per poco tempo o a lungo – l’affaticamento del vivere quotidiano e fare esperienza isolata in una cella, o comune, nel cenobio con chi vive in quel momento la stessa condizione umana ed esistenziale. Un luogo di preghiera, “il luogo dell’essere non quello del sembrare”, uno spazio che “non ha autorità, che non richiede obbedienza” con poche celle, con la piena libertà di poter entrare e uscire, in cui possano entrare uomini e donne, dove poter pregare in solitudine. Osservando il mondo “così rumoroso, inquieto e così folle – conclude l’autore del libro - mi viene voglia di silenzio e di guardare ai monaci che sono scappati dal mondo, per capire il mondo”. Un libro che - a prescindere dall’excursus storico sul monachesimo, che rappresenta la parte più rilevante della narrazione - ci invita alla riflessione per ritrovare armonia ed equilibrio, condizioni dell’animo umano, queste, che sembrano sparite dal nostro vivere quotidiano, soffocate dai tempi convulsi della modernità.


giovedì 17 gennaio 2019

I graffiti: strumenti di sopraffazione che deturpano il decoro della città



Non esiste nulla di più deprimente - almeno per me - che passeggiare lungo una strada ricoperta di graffiti, scarabocchi, scritte stupide e oscene che ormai deturpano muri, monumenti, vetrine di negozi, mezzi pubblici e qualsiasi altro supporto. Sono segnali, questi, di un palese degrado che avanza indisturbato senza che le amministrazioni locali, o chi per esse, sentano l’urgenza di intervenire al fine di arginare un fenomeno così selvaggio, che mette a dura prova la pazienza dei cittadini e imbruttisce la città.

Tra graffiti e manifesti pubblicitari (quest’ultimi meriterebbero un post a parte), non esiste più uno spazio libero e pulito dove poter posare gli occhi senza imbattersi in un groviglio di sgorbi, di scritte illeggibili e sgrammaticate che si sovrappongono ad altre scritte, di ghirigori prodotti con vernici indelebili che ti aggrediscono visivamente e ti massacrano dentro. Provo rabbia e disgusto per queste “espressioni murarie”. E pensare che c’è sempre qualcuno, il solito “benpensante” (si, perché nel nostro Paese i saggi senza saggezza abbondano), che sta dalla parte di questi “imbrattatori di strada” (non saprei come chiamarli altrimenti), che danno libero sfogo al loro estro comunicandoci qualcosa: forse rancore o frustrazione o insofferenza nei confronti della società e della vita. Certamente, noi percepiamo tutta la loro violenza. Invece, per qualcuno, i graffitari metropolitani sono degli “artisti” incompresi. E intanto sporcano indisturbati le nostre città, di notte quando nessuno li vede, imbrattano la facciata colorata di quel palazzo appena ristrutturato (l’ho visto ieri con i miei occhi…una vera crudeltà!), deturpano un antico muro costruito con le pietre su cui si era posata la patina del tempo. E’ un vero e proprio sfregio al decoro e alla bellezza di un luogo. E noi, prima dobbiamo subire visivamente questa sopraffazione, e poi – quando finalmente le autorità pubbliche preposte si decidono ad intervenire per rimuovere tali obbrobri - siamo costretti a pagare con i nostri soldi.

Italo Calvino, che non poteva condividere questo ideale di città oppressa dalle scritte di ogni genere, che non risparmiano nessuna zona del centro e della periferia, così scriveva: “…La parola sui muri è una parola imposta dalla volontà di qualcuno, si situi egli in alto o in basso, imposta allo sguardo di tutti gli altri che non possono fare a meno di vederla o recepirla. La città è sempre trasmissione di messaggi, è sempre discorso, ma altro è se questo discorso devi interpretarlo tu, tradurlo tu in pensieri e in parole, altro se queste parole ti sono imposte senza vie di scampo. Sia essa epigrafe di celebrazione dell’autorità o insulto dissacratorio, si tratta sempre di parole che ti piombano addosso in un momento che tu non hai scelto: e questa è aggressione, è arbitrio, è violenza. (Lo stesso vale per la scritta pubblicitaria, certamente; ma lì il messaggio è meno intimidatorio e condizionante, – ai «persuasori occulti» ho sempre creduto poco – ci trova più difesi, ed è comunque neutralizzato dai mille messaggi concorrenti ed equipollenti). La parola scritta non è imposizione quando ti arriva attraverso un libro o un giornale perché per essere ricevuta presuppone un previo atto di disponibilità da parte tua, un consenso all’ascolto espresso nell’acquistare o soltanto nell’aprire quel libro o quel giornale. Ma se t’arriva da un muro senza possibilità d’evitarla è una sopraffazione in ogni caso. È prevedibile che chi oggi sente il bisogno d’affermare le sue ragioni conculcate scrivendole sui muri con la bombola spray, il giorno in cui avrà il potere continuerà ad aver bisogno dei muri per giustificarlo, in epigrafi marmoree o bronzee o – secondo le usanze del momento – in smisurati striscioni propagandistici o altri strumenti dell’imbottimento dei crani…”

lunedì 14 gennaio 2019

Balzac e l'eterno dramma della "Commedia umana"



Lo scrittore francese Honorè de Balzac fu uno dei più grandi romanzieri dell’800 ed è considerato il grande interprete del romanzo verista del XIX secolo. Attraverso la sua monumentale opera letteraria “La commedia umana”, costituita dai suoi innumerevoli romanzi e racconti, ha descritto in maniera dettagliata e completa la società francese del suo tempo in tutti i suoi articolati aspetti etico-sociali. Con questo suo romanzo “Papà Goriot” – che io lessi per la prima volta una trentina di anni fa, oggi riletto con rinnovato interesse – lo scrittore francese rappresenta un doloroso dramma familiare, attraverso le vicende di un ex fabbricante di pasta alimentare (papà Goriot) che sacrifica la sua intera esistenza  per le due figlie, le quali, senza ricambiare questo affetto, lo sfruttano e lo lasciano morire solo come un cane.
E’ un dramma umano che si consuma all’interno di una squallida pensione, dove “regna una miseria senza poesia”, da dove esala un “odore di pensione” che sa di rinchiuso, di ammuffito, di freddo, gestita da una signora cinquantenne che “assomiglia a tutte le donne che hanno avuto delle disgrazie”, una donna che esercita nei confronti dei suoi pensionanti un’indiscussa autorità. In questo luogo, microcosmo e metafora di un’intera società, oltre al nostro papà Goriot, troviamo una variegata e dolente umanità sconfitta dalla vita e dagli eventi, che si lascia vivere avvolta da una malcelata rassegnazione, “come galeotti condannati all’ergastolo”. La storia ruota poi intorno alle due figlie del protagonista - sposate a due cinici e freddi aristocratici appartenenti alla nobiltà parigina - più attente e interessate ai soldi e al patrimonio del padre che all’affetto per quel genitore che le amava al punto da sacrificare tutta la sua esistenza, pur di vederle felici.

L’autore, con pagine velate di tristezza senza tuttavia rinunciare a spruzzi di sincera ironia, oltre a proiettarci in una Parigi sofferente dei primi anni dell’800, ci svela anche l’altra parte della società del suo tempo, ricca ed aristocratica, amante dei ricevimenti fastosi ed eleganti, una società dominata dagli interessi a scapito dei sentimenti umani. L’amarezza che vive il protagonista - che incarna l’amore ossessivo di un padre nei confronti delle figlie, derubato dei suoi averi e continuamente oppresso dalle stesse - altro non è che il dramma che vive un’intera società alla ricerca continua di quei valori etico-morali che non siano esclusivamente legati al denaro. E’ la disgrazia di un’epoca corrotta che antepone  gli interessi economici agli affetti più genuini, e che sacrifica gli uomini al dio denaro. Non esiste amore, anche eccessivo e patologico come quello di un padre nei confronti dei propri figli – pare volerci ricordare Honorè de Balzac - che possa reggere di fronte a certi sentimenti come la cattiveria e la sete di ricchezza e di protagonismo, di cui sembrano permeate le aspirazioni dell’uomo.


mercoledì 9 gennaio 2019

Sull'ignoranza delle persone colte



“Il più istruito di tutti è colui che conosce meglio tutto ciò che vi è di più lontano dalla vita quotidiana, dall’osservazione immediata, che non è di alcuna utilità pratica…”


Noi che leggiamo ogni tanto qualche libro e scriviamo sui nostri blog cercando di non fare errori grossolani; noi che andiamo a teatro e frequentiamo i musei e non guardiamo “il grande fratello”; insomma, noi che “voliamo alto” e mangiamo cultura a pranzo e a cena – diciamocelo, ma senza farci sentire – siamo convinti di essere più intelligenti di coloro che non hanno mai aperto un libro, non sanno scrivere neanche la lista della spesa e credono che Socrate sia un calciatore del Brasile. Poi capita di imbattersi in un provocatorio e paradossale libricino, di poco più di cento pagine, che si intitola “Sull’ignoranza delle persone colte” (Fazi Editore), la cui lettura improvvisamente fa vacillare le nostre certezze, scardina la nostra supponenza e mette in dubbio la nostra presunta superiorità culturale nei confronti delle persone poco acculturate. Già l’incipit del libro dà un assaggio di quanto dissacrante sia questo scrittore inglese: “Le persone che hanno meno idee di tutti sono gli scrittori e i lettori. E’ meglio non sapere né leggere né scrivere, che non saper fare altro che questo. Quando si vede un fannullone con un libro in mano, si può essere quasi certi che si tratta di una persona senza né forza, né voglia di stare attenta a ciò che gli accade intorno, o dentro la testa”.
William Hazlitt - questo il nome dell’autore del piccolo e godibile saggio (che comprende sette diverse tematiche tra le quali quella che dà il titolo al testo) - era un pensatore inglese nato nella seconda metà del Settecento, amico di Coleridge e di Keats e grande ammiratore di Napoleone, il quale riteneva che chi ha sempre la testa tra i libri non ha successo nella vita pratica, è negato per gli affari e fallisce pietosamente con le donne. “Il divoratore di libri - scrive con convinzione – si avvolge nella sua rete di astrazioni verbali, e vede solo la pallida ombra delle cose riflessa dalla mente altrui”. E poi rincarando la dose “non ha idee proprie e deve quindi vivere di quelle altrui…non pensa e non s’interessa ai suoi vicini di casa, ma è al corrente degli usi e costumi delle tribù e delle caste degli indù e dei tartari calmucchi”.

Aveva 42 anni quando – separato dalla prima moglie – Hazlitt si innamorò perdutamente di una ragazzina di sedici anni, figlia del suo sarto che gli aveva affittato una camera ammobiliata. Questa giovinetta, senza cultura e di scarsa intelligenza, non ne volle sapere dell’erudito e brillante pretendente, tant’è che lui cadde in una gravissima depressione che lo stava portando alla follia. Non riusciva a farsene una ragione, faceva fatica a capire come una sedicenne qualunque, senza arte né parte, potesse respingere un uomo di successo e di conoscenze. Lui che sapeva di arte, che leggeva e scriveva libri e dipingeva quadri, appariva come l’emblema del fallimento della cultura, di fronte a quella ragazzina che - pur non avendo alcuna dimestichezza con i libri e con il sapere – simboleggiava tuttavia la vita, l’amore, il desiderio. E lo ridicolizzava. Arrivò, allora, alla conclusione che la superiorità intellettuale non è un trampolino di lancio verso la felicità né può rappresentare un segno di distinzione per gli altri. La gente comune vive bene anche senza istruzione, non è interessata alla cultura, è insensibile all’arte e non legge libri perché questi non hanno alcuna utilità pratica. In altre parole i libri non aiutano ma condannano l’individuo alla solitudine e all’incomprensione. “Il principale svantaggio di sapere di più, e di vedere più lontano degli altri, in genere è di non essere compresi. Chi è intellettualmente dotato tende a esprimersi per paradossi, e questo lo colloca subito fuori la portata del lettore comune.  La forza intellettuale – dice ancora Hazlitt – non è come la forza fisica…sapere tanto di più su un argomento non ti dà superiorità, cioè potere sugli altri, ma anzi ti rende ancora più impossibile il fare la minima impressione su di loro…”  Ora noi non sappiamo realmente quanto Hazlitt credesse a queste sue parole. Forse lui voleva essere un provocatore a tutti i costi, visto che era una persona molto colta, amante dei libri, che non gradiva la gente rozza e ignorante. E forse subiva questa sua condizione che in qualche maniera lo emarginava e lo portava a pensare che il mondo, da sempre, vive in una contraddizione irreparabile tra come è e come invece dovrebbe essere. Che dire? Noi, alla fine, “per non saper né leggere né scrivere” continueremo ad amare i libri, infischiandocene di chi, invece, li considera una cosa inutile e dannosa.

venerdì 4 gennaio 2019

Un'oasi di silenzio nel cuore di Roma




Vivendo in una grande città come Roma, soffocata dai rumori e dal traffico e invasa dai turisti tutto l’anno, sono in continua fuga proprio dai suoi luoghi maggiormente frequentati e chiassosi, sempre alla ricerca di spazi più silenziosi e meno affollati. E devo dire che - anche tra le mura della città eterna - a volte basta svoltare un angolo, percorrere una stradina secondaria e poco frequentata, per trovarsi all’improvviso in un altro mondo, in un’oasi di tranquillità, dove magari una piccola chiesa, un convento, un antico e nobile palazzo o solo una suggestiva piazzetta con al centro una fontanella, ti invitano alla lentezza, alla contemplazione. E’ noto che chi viene in visita a Roma, in maniera frettolosa e solo per qualche giorno, finisce quasi sempre per aggirarsi nei soliti posti superaffollati (Fontana di Trevi, Piazza Navona, Piazza di Spagna, il Colosseo…), visitando i monumenti più noti e tralasciando alcune bellezze e taluni scorci urbani che da soli meriterebbero una visita approfondita. E’ pur vero, però, che se certi posti conservano ancora il loro antico fascino, è perché non vengono letteralmente invasi da orde di turisti rubicondi, scortati come un gregge di pecore da una guida che agita un ombrellino alla testa del gruppo. C’è da dire, altresì, che chiunque voglia osservare il fenomeno con un po’ di spirito critico – con  il rischio di essere tacciato di snobismo - non può non considerare che, frequentando in massa lo stesso luogo si finisce per danneggiarlo in poco tempo. Questo vale per le città d’arte come per le località di mare.
Dicevo che mi piace “scoprire”, durante le mie solitarie passeggiate romane, spazi alternativi a quelli maggiormente frequentati, per poter godere di rilassanti momenti di silenzio che almeno in una grande città sembrano definitivamente scomparsi. E così l’altro giorno - mentre la città sta consumando in maniera convulsa gli ultimi strascichi festaioli - sono ritornato al Monastero dei Santi Quattro Coronati, annesso alla omonima Basilica paleocristiana risalente al V secolo (complesso monumentale incastonato tra Piazza S. Giovanni ed il Colosseo), sede fin dal 1564 di una comunità di monache agostiniane. Cercavo un po’ di silenzio, volevo allontanarmi dalla folla, pur godendomi la bellezza insuperabile di Roma. Questo luogo – che è dedicato, secondo la leggenda, ai “quattro scalpellini cristiani messi a morte sotto Diocleziano per essersi rifiutati di scolpire idoli pagani” - è raggiungibile attraverso una stradina fin troppo silenziosa (visto il traffico di macchine che gravita intorno alla zona) che parte da piazza S. Giovanni in Laterano e sfocia in una deliziosa piazzetta proprio davanti al complesso monastico, sormontato da una enorme torre quadrata. L’imponente struttura, che comprende non solo la basilica ma anche altri ambienti religiosi e residenziali, fu utilizzata nel Medioevo come fortezza papale a guardia del Palazzo Lateranense e nel corso dei secoli ha subito diverse trasformazioni ed interventi di restauro. Oltrepassato il portone d’ingresso, mi sono trovato immerso in una suggestiva atmosfera medioevale; ho attraversato due cortili esterni comunicanti, dove il tempo sembrava essersi fermato e, prima di entrare nella Basilica, mi sono lasciato attrarre da un luogo di autentica bellezza che ispira sentimenti di grande spiritualità: l’Oratorio di S. Silvestro.


Sono entrato, poi, nella chiesa che presenta tre navate abbracciate dalla sua maestosa abside, unico esempio in tutta Roma. A quell’ora non c’era nessun altro visitatore: solo una monaca, in un angolo poco illuminato diffondeva musica sacra suonando un organo, le cui note rendevano ancora più mistico e suggestivo il luogo in cui mi trovavo. Da una porticina della navata sinistra mi sono quindi affacciato nel meraviglioso chiostro, risalente alla prima metà del XIII secolo.


Si tratta, come scrive Lia Barelli nella storia del convento, “di uno splendido esempio di quella che viene definita architettura 'cosmatesca', dal nome di una delle principali famiglie di scultori-architetti operanti a Roma tra XII e XIII secolo, i Cosmati”. Confesso che al cospetto di un luogo così straordinario, circondato da un luminoso giardino – dove “chiuso e aperto” convivono in splendida sintonia - al centro del quale si leva una preziosa fontana di marmo “probabilmente dell’XI secolo” dove l’acqua zampilla, mi sono lasciato cullare da quella incantevole atmosfera. E non avrei mai smesso di passeggiare lungo il porticato che cinge il giardino in un morbido abbraccio. Come una sorta di monaco laico mi sono soffermato a lungo in quel chiostro, immerso nella solitudine e nel silenzio, così lontano dal rumore della città e dalle miserie umane. Un luogo che eleva l’animo verso la spiritualità, che fa comprendere la bellezza dell’arte, che stimola la ricerca di un’armonia verso se stessi e gli altri. E invita alla riflessione, alla calma interiore, all’amore per la vita. Ma noi, imbrigliati come siamo nella frenesia quotidiana che in maniera così violenta contraddistingue e degrada il nostro tempo, sommersi dai rumori di sottofondo, non ci accorgiamo che stiamo perdendo una dimensione fondamentale della nostra esistenza che ci permette di pensare e di ascoltare: il silenzio. Dopo circa un’ora di permanenza in quel “mondo”, sono uscito fuori, nell'altro mondo: devo dire che ero più sereno. Pronto ad affrontare il caos della città che faceva sentire forte il suo ruggito.

giovedì 3 gennaio 2019

Io non ho nulla da dire



Aver qualcosa da dire
nel mondo a se stessi, alla gente.
Che cosa ? Non so veramente
perché io non ho nulla da dire.

Che cosa ? Io non so veramente.
Ma ci son quelli che sanno.
Io no - lo confesso a mio danno -
non ho da dir nulla ossia niente.

Perché continuare a mentire,
cercare d’illudersi ? Adesso
ch’io parlo a me mi confesso:
io non ho niente da dire,

eppure tra tante persone,
tra tanti culti colleghi
io sfido a trovar chi mi neghi
d’aver questa o quella opinione,

e forse mia madre, la sola
che veda ora in me fino in fondo,
è certa che anch’io venni al mondo
per dire una grande parola.

Gli amici discutono d’arte,
di Dio, di politica, d’altro:
e c’è chi mi crede il più scaltro
perché mi fo un poco in disparte;

qualcuno vorrebbe sentire
da me qualcosa di più.
“Hai nulla da aggiungere tu ?”
“Io, no, non ho niente da dire.”

E’ triste. Credetelo, in fondo,
è triste. Non essere niente.
Sfuggire così facilmente
a tutte le noie del mondo.

Sentirsi nell’anima il vuoto
Quando altri più parla e ragiona.
Veder quella brava persona
imporsi un gran compito ignoto.

E quelli che chiedono a un tratto:
“Che avresti tu detto al mio posto ?”
“Io….Non avrei forse risposto….
Io….mi sarei finto distratto…”

Non aver nulla, né mire,
né bei sopraccapi, né vizi;
osar fino in mezzo ai comizi:
“No, sa ? Non ho niente da dire.”

Ed esser creduto un insonne,
un uomo che veglia sui libri,
un’anima ardita che vibri
da tutto uno stuolo di donne.

“Mi dica, sua madre che dice ?
Io so dai suoi libri che adora
sua madre. Nevvero signora ?
nevvero che è tanto felice ?

Un figlio ! Vederlo salire,
seguirne il pensiero profondo…”
ed io son l’unico al mondo
che non ha niente da dire.

Marino Moretti