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venerdì 9 novembre 2018

I cilentani: chi sono costoro?



Nella primavera del 1881 – a vent’anni dall’Unità d’Italia – un insigne studioso pugliese, Cosimo De Giorgi, intraprese un lungo viaggio esplorativo nel Cilento, con l’incarico di redigere una carta geologica del territorio. Nel percorrerlo tutto, dalle valli del Calore a quelle dell’Alento, ebbe modo di conoscere e studiare dettagliatamente anche le condizioni di vita e di lavoro dei suoi abitanti nonché le caratteristiche degli stessi, evidenziandone miserie e degrado, pregi e difetti. Il suo reportage è contenuto in un libro molto importante “Viaggio nel Cilento” (pubblicato da Galzerano Editore) la cui lettura mi stimola (da buon cilentano) a fare una riflessione unicamente sull’identità e sulle caratteristiche peculiari dei cilentani. Sarebbe oltremodo interessante capire – a distanza di 137 anni da quel viaggio – se le specificità caratteriali di quei nostri antenati, descritte con dovizia di particolari nel libro, ancora ci appartengano o siano invece superate dai tempi, dalla cultura e dalla civiltà. Insomma, quello che io mi chiedo è se  possiamo ancora considerarci – noi moderni cilentani – discendenti di quegli antichi abitanti della seconda metà dell’Ottocento. E’ chiaro che la mia non vuole essere un’analisi socio-antropologica a valenza scientifica dell’intima natura dell’uomo cilentano: vorrei soltanto soffermarmi, con leggerezza e senza pregiudizi ed in maniera anche ironica, su alcuni aspetti caratteriali messi in evidenza dallo scrittore pugliese, il quale, “calandosi” tra gli uomini del Cilento, ci offre la possibilità di guardarci nello specchio del passato e verificare cos’è cambiato in questo arco di tempo.


La prima cosa che traspare dalla lettura del libro è la grande ospitalità che i cilentani sapevano offrire ai propri visitatori “un’ospitalità franca, cordiale e senza orpelli. E’ questa la pagina più bella che renderà simpatica a tutti gli Italiani questa regione, come ha lasciato in me dei ricordi carissimi”. Così scriveva De Giorgi, il quale, girando tra i diversi paesi ebbe la possibilità di sperimentare la bontà e la meravigliosa accoglienza che gli riservavano: infatti a Roccadaspide il Sindaco lo accolse “a braccia aperte e mi offrì una cortese e gradita ospitalità nel suo palazzo”; a Felitto i signori che lo ospitarono “furono cortesissimi e mi prodigarono nel breve tempo che mi  trattenni delle cure affettuose delle quali serberò perenne ricordo”; a Vallo della Lucania il sig. Ermenegildo “mi usò un mondo di cortesie nel tempo che mi trattenni da lui”; a Pollica i signori della Cortiglia si dimostrarono nei suoi confronti “gentilissimi e colti”; a Ortodonico “mi prodigarono mille cortesie”, a Rutino la famiglia Magnoni “mi fu cordialissima” e a Vatolla “fui accolto gentilmente”.

I cilentani, insomma, erano e sono rimasti così: ospitali, dal carattere tranquillo e cortese. Ecco, bisogna tirar fuori il meglio della tradizione. E il meglio è rappresentato senza dubbio dall’accoglienza e dall’affabilità dei comportamenti che sono alla base della nostra forza e ci contraddistinguono. Il De Giorgi scriveva anche che il cilentano è in generale “docile, buono, quieto, laborioso, coraggioso e audace nei pericoli”. Però poi notava che era anche “geloso e vendicativo specialmente nella cerchia dei suoi parenti e conterranei”.  Escludo che lui oggi possa considerarsi vendicativo: la vendetta è un sentimento che non gli appartiene. E poi uno che possiede una grande dose di bontà non può pensare alla vendetta come mezzo di riparazione delle offese ricevute. Sarebbe una palese contraddizione. Aveva poi notato - il viaggiatore pugliese - che l’abitante di quel territorio aveva qualcosa dei popoli orientali quando cantava le sue canzoni intrise di frasi monotone e melanconiche che egli ripeteva in maniera cantilenante: canzoni in cui vi era sempre “l’impronta dell’amore disperato, della gelosia, dell’abbandono e della voluttà”. E’ difficile oggi immaginare le giovani generazioni (sempre con un cellulare tra le mai) che si dedichino a questo tipo di canto di stampo orientale. La televisione e San Remo, diciamocelo, hanno provveduto in maniera definitiva a cancellare ogni traccia di quel passato. Parlando poi dell’indole del contadino, De Giorgi scriveva che “è svelto, sobrio, perspicace per talento naturale non per educazione o per istruzione: ma il suo lavoro è profuso in modo cieco ed irrazionale, e serve più come forza muscolare che come intelligenza”. Ebbene quando ho letto questa frase il mio pensiero è andato immediatamente a ciò che mi disse, tempo fa, proprio un contadino del mio paese natale, che avendo visto il suo asino in difficoltà mentre stava per attraversare un ruscello, se lo caricò sulle spalle sussurrandogli in un orecchio: “mi puoi fottere con l’intelligenza ma non con la forza”.

Nonostante il De Giorgi non viaggiasse per scopi artistici, tuttavia non poteva esimersi dal visitare i monumenti e i cimeli d’arte che incontrava lungo il suo percorso. “Quanti tesori di arte e di antichità sono nascosti in questi piccoli paesi”, così annotava tra i suoi appunti. A tal proposito ebbe modo di verificare, in diverse circostanze, che nel popolo cilentano il sentimento della bellezza e dell’arte “era ridotto ai minimi termini”. Infatti, osservando gli edifici pubblici oltre quelli privati, si era reso conto che non era raro “veder delle case a due e tre piani, belle e finite e mobiliate con lusso nell’interno, ma senza facciata”. Devo dire che questo vizio non l’abbiamo ancora perso, tant’è che girando per i paesi è facile imbattersi in queste costruzioni le cui rifiniture esterne lasciano molto a desiderare. Il De Giorgi aveva notato inoltre che la coltura dei fiori, che ingentilisce lo spirito e rallegra la vista, in quei posti era sconosciuta, tanto è vero che un ricchissimo proprietario gli rispose “che preferivano un cavolo cappuccio ad una rosa o a un gelsomino”. Ma la cosa più grave era che sia a Paestum che a Velia “l’incuria degli uomini verso i monumenti sa dei popoli barbari…la profanazione qui ha toccato l’apice e prosegue vandalicamente senza che nessun italiano pensi ad opporvi riparo”. Mi viene da pensare a tutte le spoliazioni di monumenti perpetrate sul suolo italico e non solo nel Cilento. Basti pensare al detto latino: quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini.

Aveva inoltre riscontrato nella popolazione anche la mancanza di iniziativa, lo scarso spirito di associazione, una certa indolenza e indifferenza per le cose, caratteristiche queste che forse ancora ci appartengono e che riguarderebbero praticamente tutto il meridione. Ogni opera buona e degna di attenzione veniva accolta con freddezza e con indifferenza – rilevava De Giorgi – “va innanzi pel tenace buon volere di qualcuno, e poi rapidamente languisce. Invano l’Autorità superiore cerca di soffiare un po’ di vita nel corpo addormentato; difficilmente si sveglia e presto si addormenta”. Egli portava l’esempio di Vallo della Lucania, dove due monumentali fontane decoravano la piazza; ma erano simulacri senz’acqua nonostante i monti dei dintorni fossero ricchissimi di acque potabili.

Ma gli odierni cilentani si sono risvegliati da quel torpore? Hanno abbandonato quell’atavico letargo che li costringeva all’inerzia? Sono stati capaci – nel corso degli anni – di esprimere una classe di amministratori locali all’altezza della situazione? I risultati sono sotto gli occhi di tutti, nel bene e nel male. Mi viene da pensare che quando un popolo, qualunque esso sia, riesce a fare autocritica individuando la parte peggiore di sé, debba munirsi di strumenti adeguati per combatterla. E penso che debba anche saper investire tutte le risorse e le energie necessarie al fine di potenziare il meglio che gli appartiene.

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