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lunedì 29 ottobre 2018

L'arte: tra collezioni private e interesse pubblico

Burri:  Grande legno e rosso


Ho seguito in questi giorni, con vivo interesse, l’accesa controversia riportata da “il Fatto Quotidiano” tra lo storico dell’arte, nonché professore universitario Tomaso Montanari e l’estroverso critico d’arte Philippe Daverio, direttore di Art e Dossier, già assessore alla Cultura del Comune di Milano e noto personaggio televisivo. La disputa, se così si può chiamare, è nata dopo che la Presidente onoraria del FAI (Fondo Ambiente Italiano), Giulia Maria Crespi, ha deciso di far battere all’asta di New York, il prossimo 15 novembre, un famoso quadro di Alberto Burri il “Grande legno e rosso”, quadro di proprietà (da oltre 50 anni) della fondatrice del FAI, appeso sullo scalone monumentale della sua residenza patrizia risalente al XVII secolo, nel centro storico di Milano, anch’essa patrimonio culturale italiano.
Sono volate anche parole grosse che certamente non si addicono a personaggi abituati a parlare del “bello”. Il prof. Montanari sostiene che se l’Italia è quel grande contenitore di opere d’arte che tutto il mondo ci invidia, è perché lo Stato ha ritenuto che l’arte tutta - e quindi anche quella in mani private - fosse un bene comune da conservare e su cui vigilare. Secondo Montanari l’arte non può essere oggetto di speculazioni finanziarie tant’è che,  proprio per questo, esistono vincoli e limitazioni molto pesanti sulle opere artistiche ed architettoniche che appartengono a privati cittadini. Ciò significa – scrive Montanari - che “si è sempre pensato che fosse giusto e saggio far rimanere in Italia anche opere private che lo Stato non può sul momento comprare, ma che, in tempi lunghi, magari lunghissimi, finiranno col divenire pubbliche”. Va detto che se oggi è possibile la vendita all’estero di opere d’arte contemporanea è grazie ad una norma - introdotta dall'ex Ministro Franceschini - che liberalizza la circolazione delle opere – già sottoposte a vincolo - prodotte tra il 1947 e il 1967. Prima che venisse introdotta tale normativa - che Montanari si augura venga cancellata il prima possibile - si poteva far uscire dall' Italia tutto ciò che era stato dipinto solo dopo il 1967.

Cosa ribatte il simpatico e colto Philippe Daverio? Egli afferma che la fondatrice del FAI ha dedicato tutta la sua vita agli interessi dei beni culturali italiani e “che abbia poi deciso di vendere, forse per finanziare ulteriormente il suo impegno, un’opera d’arte contemporanea da lei acquistata a poco e oggi di valore alto, non solo è il suo diritto ma pure forse la gioiosa verifica del proprio intuito nell’avere individuato in Alberto Burri un talento emergente quando il resto della borghesia italiana era ottuso e acquistava opere altrettanto opache”. Daverio, insomma, ritiene che vendere opere contemporanee non impoverisca affatto il patrimonio artistico nazionale perché “la circolazione libera delle opere d’arte è pari a quella delle idee, dei libri e delle invenzioni che formano il tessuto di coesione delle società moderne e democratiche”. A sostegno di questa sua tesi egli dice che se i viaggiatori del Grand Tour non avessero acquistato le opere di Canaletto e di Bellotto, tanto per fare qualche esempio, mai questi pittori avrebbero avuto l’importanza e la fama che hanno oggi. Chi ha ragione? Montanari, che vuole cacciare i “mercanti” dal tempio dell’arte o Daverio che  si batte, invece, per la libera circolazione delle opere d’arte? Ai posteri l’ardua sentenza.

martedì 23 ottobre 2018

Leggere Proust: una sfida e un'impresa



Se c’è un libro che mi suscita un vero timore reverenziale e mi induce a pensare che, al suo confronto, tutti gli altri sembrano inferiori, ebbene questo libro è “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust. Io penso che non esista nel panorama letterario universale uno scrittore tanto amato quanto detestato come Proust. Se i suoi estimatori (e sono tanti) non fanno che esaltare la sua scrittura e il suo stile incomparabile, crogiolandosi nelle sue lunghissime, meticolose disquisizioni, i suoi denigratori (che sono altrettanti), lo considerano un pesante mattone prolisso e indigeribile che ti stordisce. Tra quest’ultimi và ricordato quell’editore che nel 1913 lo bocciò con queste famose parole: «Sarò particolarmente tonto, ma non riesco a capire come questo signore possa impiegare trenta pagine a descrivere come si gira e si rigira nel letto prima di prendere sonno».

Sette volumi con circa “9.609.000 caratteri, scritti in 3724 pagine” (fonte Wikipedia): un’opera monumentale. Uno dei massimi capolavori della letteratura di tutti i tempi, piaccia o meno. Per scrivere “Alla ricerca del tempo perduto” lo scrittore francese trascorse circa 13 anni della sua breve, intensa e – forse - infelice esistenza (dal 1910 fino all’anno della sua morte avvenuta nel 1922), relegato in una stanza foderata di sughero per isolarsi dai rumori e dalle “sirene” del mondo circostante, scrivendo di notte in dolorosa solitudine. Con un’abile combinazione di finzione letteraria e fatti autobiografici, Proust riportò in vita il tempo passato rendendolo ancora vivibile attraverso la “memoria involontaria”, quella che viene accesa all'istante da un odore… da un colore… da una parola… da un paesaggio… da una persona… da una sensazione. Scrive Paolo Pinto nell’introduzione al libro: “Nella Recherche, insomma, tutto è falso, e chi pretendesse di scrivere una biografia di Proust basandosi esclusivamente su di essa giungerebbe sicuramente ad esiti fallimentari; eppure è anche tutto vero, nel senso che non c’è emozione, sentimento, idea, personaggio dell’opera che prescinda totalmente dalla vita dell’autore”. Con la sua scrittura Proust è riuscito a scavare nell’animo umano come nessun altro, attraverso un viaggio a ritroso nel tempo, mettendo in risalto vizi e virtù di un mondo perduto: il suo mondo e quello della borghesia del suo tempo di cui era un degno e raffinato rappresentante. E chissà se tra quelle pagine non si nascondano anche aspetti della nostra esistenza e del nostro mondo interiore! Come solo i grandi scrittori sanno fare quando, pur raccontando sé stessi, parlano di noi.
Ho comprato, di recente, il bellissimo cofanetto edito dalla Newton Compton Editore contenente i sette volumi - finemente rilegati - di cui si compone l’opera di Proust, spendendo solo 20 euro (e poi dicono che i libri costano troppo!). Avevo già letto – e devo dire con difficoltà e con stupore – i primi due libri ( “Dalla parte di Svann” e “All’ombra delle fanciulle in fiore” ). Ora mi aspettano sullo scaffale della mia libreria gli altri cinque volumi: una sfida e un’impresa. La lettura di questo romanzo, inutile nasconderlo, risulta molto impegnativa, a volte faticosa, e richiede una dote invidiabile di pazienza. I periodi, come è nello stile di Proust, sono molto lunghi, articolati e complessi. Spesso bisogna ritornare indietro, rileggerli con calma e attenzione per comprenderne appieno il senso e coglierne le infinite  sfumature. Sono come quelle canzoni d’autore poco orecchiabili che non ti prendono immediatamente: hanno bisogno di un ascolto molto più lungo e attento per apprezzarle. Poi si fanno amare per sempre. Luoghi e personaggi dell’opera sono inventati, sebbene ricordino luoghi e persone legate all’esistenza del narratore: in primis la mamma, anzi la “mammina” e la nonna, le figure a cui l’autore era più legato. Poi i suoi vicini di casa, le donne di cui si innamorava, le persone aristocratiche che frequentava, i suoi amici…Questi innumerevoli personaggi, nel corso della narrazione, compaiono e scompaiono ripetutamente e spesso ce li portiamo dietro per pagine e pagine attraverso minuziose e a volte snervanti descrizioni. E’ un libro che lascia un segno profondo nell’animo perché ti sovrasta e ti fa sentire piccolo piccolo. C’è chi nemmeno osa affrontarlo, vista la mole; c’è chi lo rinvia a data da destinarsi, perché lo teme; c’è chi lo inizia e lo abbandona dopo poche pagine, affranto; c’è chi lo legge estasiato e poi lo rilegge, senza mai saziarsene; c’è chi lo porta a termine con fatica, però felice di esserci riuscito. Credo che nessun altro romanzo desti così tante reazioni tra chi ha un po’ di dimestichezza con i libri.

giovedì 11 ottobre 2018

Albert Camus e la "dolce indifferenza del mondo"



“Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so”. Inizia con queste stranianti parole il romanzo di Albert Camus “Lo straniero” (Bompiani Editore), un classico della letteratura. E’ la madre di Meursault, un modesto ed oscuro impiegato che vive ad Algeri nella più completa apatia verso se stesso e il mondo, il quale si trascina in uno stato di indifferenza, di solitudine e di estraneità. Neanche la morte della madre – notizia appresa dalla direzione dell’ospizio in cui da tempo la donna era ricoverata - riesce a rattristarlo, a scuoterlo dalla sua pigrizia mentale e corporea, a liberarlo da quella inerzia che sembra plasmare la sua mente, incapace com’è di avvertire qualsiasi sentimento di dolore. E la sua indifferenza sembra concretizzarsi subito dopo il funerale della madre allorquando afferma “tutto è stato così naturale, che non mi ricordo più niente”. Il dimenticare, quindi, scandisce inesorabilmente la sua esistenza; ma anche la noia del vivere, l’indifferenza verso il sentimento dell’amore nei confronti di una persona cara, il disinteresse verso quelle semplici azioni quotidiane vissute solo come abitudini consolidate senza alcuna responsabile consapevolezza. Le sue giornate sono piatte, prive di entusiasmo e di iniziative, senza molta partecipazione, anche quando si trova a vivere momenti di intimità “...l’ho baciata, ma male” oppure quando si appresta a trascorrere una giornata di festa “..mi è venuto in mente che era domenica e questo mi ha dato noia: la domenica non mi piace”.

L’atmosfera che si respira nel libro - attraverso il monologo interiore del protagonista - è sempre melanconica, direi rassegnata: è l’accettazione remissiva degli eventi che gli accadono, o meglio che gli scivolano addosso e lo allontanano sempre di più dalle cose e dalla vita. La narrazione procede quasi sempre in maniera lenta e intorpidita, che poi è la stessa tensione che anima il protagonista, tensione mista ad una forte incertezza che si manifesta anche nel rapporto amoroso che lui intrattiene con la sua donna: “mi ha domandato se l’amo - dice Meursault – le ho risposto che era una cosa che non significava nulla, ma che mi pareva di no”. L’apatia e l’indifferenza non lo abbandonano neanche quando uccide, per futili motivi, un arabo che nemmeno conosce: si lascia arrestare e si consegna impassibile al processo, evitando di difendersi e senza cercare giustificazioni al suo gesto. La sua filosofia di vita è che ci si abitua a tutto, anche alle situazioni più estreme che offre la vita come quella carceraria, e l’abitudine, appunto, sembra costituire la sua forza d’animo, la sua corazza protettiva nei confronti del mondo esterno e delle avversità dell’esistenza. “se avessi dovuto vivere dentro un tronco d’albero morto, senz’altra occupazione che guardare il fiore del cielo sopra il mio capo, a poco a poco mi sarei abituato – dice Meursault – avrei atteso passaggi di uccelli o incontri di nubi” così come nel carcere attendeva “le strane cravatte dell’avvocato” o come da cittadino libero aspettava pazientemente “il sabato per avere il corpo di Maria”. Anche il processo che subisce è la rappresentazione di una sorta di commedia dell’assurdo in cui, da una parte, i giudici sembrano accanirsi più sulla mancanza di qualità morali dell’imputato che sul reato per cui viene giudicato, mentre dall’altra, l’imputato -  che non aveva mai assistito ad un processo - diventa attore interessato ma passivo ed estraneo, senza avere la possibilità non solo di difendersi, ma di esprimere alcun parere al riguardo.

In questo contesto narrativo Meursault si configura come un lucido eroe di un assurdo destino, il quale di fronte alla condanna a morte si apre per la prima volta “alla dolce indifferenza del mondo” e si sente felice al pensiero che il giorno della sua esecuzione ci siano molti spettatori che lo accolgano “con grida di odio”. E’ un libro che fa molto riflettere – come tutti i grandi libri, piacciano o meno - un romanzo che scandaglia gli angoli più nascosti dell’animo umano. Da leggere assolutamente.

lunedì 8 ottobre 2018

L'amicizia tra un uomo e una donna



Di sera mi piace  saltare da un libro ad un altro, leggiucchiare di qua e di là, per non essere tentato dalla televisione. E così facendo mi è capitato di leggere l’opinione di due grandi pensatori del passato su un argomento molto interessante: l’amicizia tra un uomo e una donna. Il primo - il poeta e scrittore argentino Borges - scriveva che l’amicizia tra un uomo e una donna è sempre un poco erotica, anche se inconsciamente, mentre l’altro - Nietzsche - affermava che “un uomo può stringere legami di amicizia con una donna, ma per mantenerla è necessario il concorso di una leggera avversione fisica”. Borges - in altre parole - concede qualche spiraglio a tale sentimento, anche se velato da una inconscia attrazione fisica che può facilmente sconfinare e andare oltre, mentre il filosofo tedesco dice, in parole povere, che un uomo può avere una donna per amico solo se questa donna è brutta.
 
Insomma, i due grandi pensatori non mi aiutano affatto nel consolidare l’amicizia con una donna, non mi danno alcuna certezza, mi scaraventano nel dubbio e, a sentire loro, mi par di capire che io stia sempre in bilico, tra un attestato di stima per la mia correttezza nei suoi confronti - da una parte - e un eventuale ceffone, dall’altra, per avere sconfinato o per essermi avventurato in “esplorazioni” non consentite. E soprattutto non gradite. A parte gli scherzi e lasciando perdere ciò che pensano i filosofi del passato, ritengo che l’amicizia tra un uomo e una donna sia un sentimento alquanto contrastante e non facile da gestire, a volte carico di ambiguità, fatto di tentazioni represse e malcelate complicità. L’occasione può essere vissuta, tuttavia, come una sorta di amicizia “amorosa”; e se riesce a correre su binari regolari, senza coinvolgimenti fisici ed emotivi, la probabilità che possa durare per sempre è davvero molto alta. E’ chiaro, però, che il fattore puramente fisico nel rapporto uomo-donna esiste sempre, non si può negare; si sa che in natura i sessi opposti si attraggono, magari in senso univoco. Ricordo che quando lavoravo in ufficio avevo installato sul desktop del mio computer una bella madonna di Antonello da Messina, la quale più che “salva schermo” per me fungeva da “salva amicizia”. Infatti mi rivolgevo a quella immagine misericordiosa nei momenti in cui l'amicizia che mi legava alla mia collega di stanza, nei cui confronti non nutrivo alcuna “avversione fisica”, sembrava tentennare. E devo dire che tale amicizia dura tuttora, a dispetto di quanto sosteneva Nietzsche.

martedì 2 ottobre 2018

Consigli non richiesti...



“…Se volete salvarvi e salvare insieme a voi il vostro presente, il vostro futuro e quello di tutti, allontanatevi in punta di piedi dalle luci troppo violente dell’oggi. Non ascoltate mai il telegiornale: cade durante le ore del pranzo e potrebbe guastarvelo. Comprate soltanto un giornale, perché con un minimo sforzo di fantasia potrete immaginare tutti gli altri. Non leggetelo la mattina, quando le vostre forze ancora vigorose debbono inoltrarsi gioiosamente nel tempo, ma verso sera: o la sera dell’indomani, quando molti fatti vi sembreranno già morti, più vecchi di quelli che potreste leggere in un foglio di cent’anni fa. Cercate di abitare nella vostra casa come se abitaste nella tenda di un nomade: cercate di possedere come se non possedeste: lasciate cadere il succo delle vostre letture nel pozzo fruttuoso della dimenticanza; cancellate dalla vostra mente i pensieri che vi rendono ansiosi, perché soltanto una mente leggera può conoscere quella parte di felicità concessa ad ognuno dal caso, o dal << piccolo Dio, che ha creato qualcosa di tanto soave come le piante e gli alberi >>. Fate il vuoto attorno a voi, anche se vi chiameranno freddi ed egoisti. Come diceva un saggio: << Siate grati a chi non vi saluta quando vi incontra e a chi non chiede vostre notizie quando siete malato. Appena giunge la notte, siate felici della solitudine attorno a voi: felici di non vedere i visi degli uomini, felici di non udire le loro parole >> ”.
1975

Tratto da “L’armonia del mondo – miti d’oggi – “ di Pietro Citati

(Rizzoli Editore)