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venerdì 21 settembre 2018

Un paese e le sue rovine



Ritorno ogni estate nel mio paese d’origine, nel Cilento. E’  l’abituale “viaggio non viaggio” che faccio tutti gli anni verso il luogo dove sono nato e dove ho vissuto fino a 19/20 anni. Un tragitto, questo, di poche centinaia di chilometri: inizia da Roma – dove vivo abitualmente da circa 40 anni – e termina in questo piccolo borgo di poche anime aggrappato ad una collina che guarda verso il mare. E’ il mio luogo dell’infanzia e della memoria. Il mio luogo dell’anima che conserva, come un salvadanaio, sentimenti e ricordi; un posto dove esistono ancora valori come la lentezza e il silenzio, cioè quei modi diversi di guardare la realtà che non appartengono ad una grande città come Roma. Questo rimpatrio genera in me sentimenti contrastanti: a volte mi sento come un emigrante che torna nel paese nativo per cercare l’antica identità; a volte mi vedo straniero nel paese in cui sono nato, perché non trovo più quei riferimenti che avevo lasciato; a volte avverto un senso di profondo spaesamento di fronte ai tanti cambiamenti che sono avvenuti negli anni; a volte mi sembra di non essermi mai allontanato da quelle antiche case in pietra, da quelle viuzze assolate, perché si può restare in un posto anche vivendo altrove. Quel luogo è come una parte del mio corpo che mi appartiene ed a cui io appartengo. E’ una sorta di protesi e racchiude un pezzo significativo della mia esistenza.
Scrive l’antropologo Vito Teti in un suo bellissimo libro che si intitola “Il senso dei luoghi” con sottotitolo “Memoria e storia dei paesi abbandonati” (Donzelli editore – pagg. 593): “…Ognuno di noi ha un luogo dove, ora con amore ora con disagio, ora con piacere ora con dolore, si sente a casa, o in quella che è stata la casa, un luogo, dove anche se se n’è allontanato, si sente a suo agio, sente il proprio corpo in maniera diversa. E’ una soglia e un confine, una siepe e un carcere. E’ tante cose ma soltanto a partire da quel luogo, da quella casa, da quelle sabbie, da quella strada, da quella ferrovia, da quel fiume, misuri il senso della tua lontananza, dei tuoi spostamenti, ripercorri la tua nostalgia e riacciuffi la tua memoria, o scarichi il tuo desiderio di oblio”. Ecco, io da quella stradina che si incunea tra le case di Melito, frazione di Prignano (questo il nome del paese), dove giocavo serenamente da ragazzo con i miei amici, da quella antica casa costruita in pietra ai primi del Novecento dove sono nato, da quella piccola chiesa dedicata a Santa Caterina che mi ha visto partecipare a lontane funzioni religiose, da quella Torre medioevale che tanto mi affascinava da bambino ispirandomi storie fantastiche,  insomma da quel paesino circondato da querce e ulivi, riacciuffo la mia memoria. Quella memoria che mi fa ritrovare l' infanzia spensierata fatta di giochi “poveri” finiti ormai nel dimenticatoio, che mi riporta agli anni adolescenziali, così diversi da quelli vissuti dai ragazzi dei nostri tempi.

Per fortuna Melito non è a rischio abbandono – come spesso accade in alcune zone del sud - tuttavia al suo interno esistono alcune case in rovina, disabitate (accanto a quelle abilmente ristrutturate nel rispetto del territorio), dal momento che gli antichi abitanti sono morti da tempo e gli eredi non hanno nessun interesse a ristrutturarle. Vengono spesso messe in vendita tramite agenzie, ma restano quasi sempre invendute e lentamente diventano dei corpi morti, pericolanti, estranei, che generano inquietudine e tristezza. Mi soffermo spesso ad osservare queste casette costruite con la pietra locale che ormai presentano il tetto sfondato e gli infissi cadenti: un tempo custodivano storie ed affetti, gioie e dolori e ogni volta il mio pensiero va a quelle persone conosciute, che un tempo le abitavano e che appartengono alla mia fanciullezza. Ai miei ricordi giovanili. Quelle case abbandonate, nonostante tutto, conservano una loro dignità e bellezza, continuano a parlare a chi le osserva attraverso le storie racchiuse tra quelle mura, più di quanto possa raccontare una recente e anonima costruzione, in qualsiasi luogo essa si trovi; quelle rovine ai miei occhi esercitano una sorta di attrattiva perturbante. Lo ammetto: mi assale un senso di nostalgia per quel tempo perduto. E questo sentimento diventa ancora più doloroso e straziante quando vedo proprio quella casetta in rovina che - per un breve periodo - fu abitata (in affitto) dai miei genitori. Sia ben chiaro: non è nostalgia del passato inteso come paradiso perduto (la vita, allora, era difficile). Ma è - come scrive sempre Vito Teti nel suo libro che mi ha tenuto compagnia durante le passate vacanze estive e che mi ha ispirato questa mia riflessione - "la nostalgia di quanti pensano che il tempo presente non debba smarrire la memoria del passato e che anche le macerie del passato servono per ricostruire …”. Perché la memoria definisce la nostra identità e senza la memoria del passato non possiamo costruire il futuro. 
Quando nel paese muore una persona anziana, si sente spesso dire: “un’altra casa si è chiusa”. Per dire che con la scomparsa di quella persona, finisce una storia, si estingue una famiglia conosciuta e apprezzata nel paese, si chiude definitivamente un’epoca. Ma il paese dei padri continua a vivere con i figli che sono rimasti o che ritornano – come il sottoscritto – nella casa avita; e continua a vivere anche con i nuovi abitanti che vengono spesso da lontano, i quali, pur non avendo alcun legame con il territorio, cercano faticosamente di integrarsi e fare paese. Come per dire che un vecchio paese muore un po’ alla volta mentre, con difficoltà, ne sorge uno nuovo.

sabato 15 settembre 2018

Baricco e "La sposa giovane"



Se l’obiettivo di Alessandro Baricco era quello di disorientare il lettore complicandogli la vita, ebbene io credo che con il suo ultimo romanzo “La sposa giovane” (pubblicato da Feltrinelli nel 2015) abbia raggiunto appieno il suo scopo. “Alcuni scrivono libri – sostiene l’autore – altri li leggono: sa dio chi è nella posizione migliore per capirci qualcosa”.
Protagonista del romanzo è una bizzarra e inquietante famiglia benestante i cui membri, il Padre, la Madre, il Figlio, la Figlia, lo Zio (non ci è dato sapere i loro nomi) vivono arroccati nella loro ricca dimora di campagna in un luogo non ben precisato. Ci troviamo, forse, all’inizio dello scorso secolo, ma se la vicenda fosse ambientata ai nostri giorni, nulla cambierebbe. La storia è tutta incentrata sull’attesa del Figlio (che si trova in Inghilterra a curare gli affari della propria azienda tessile) il quale dovrà convogliare a nozze con la Sposa giovane. In questa lunga attesa (verrà…non verrà…sta arrivando…è un po’ come aspettare Godot o i nemici nel “Deserto dei tartari”), la vita scorre monotona e abitudinaria orchestrata abilmente, nei suoi ritmi quotidiani, dal maggiordomo Modesto - l’unico personaggio ad avere un nome – (ci sarebbe da capire il perché ma non ne vale la pena). Costui, come un sacerdote, officia e serve in quella casa da circa 60 anni, fedele ad un protocollo “la cui razionalità, ammesso che esistesse, affondava le sue radici in un passato privo ormai di spiegazioni”. Le stranezze in questa casa non mancano: innanzitutto non ci sono libri perché i nostri personaggi “orfani di qualsiasi logica” hanno una grande fiducia nelle cose materiali e non vedono la necessità di “ricorrere a palliativi”; hanno paura della notte perché nel corso delle generazioni i vari antenati sono venuti a mancare proprio nelle ore notturne; sono soliti ricevere i loro ospiti in pigiama, durante le torrenziali colazioni senza fine e ignorano la successione dei giorni, perché mirano a “viverne uno solo, perfetto, ripetuto all’infinito”. E nell’attesa del promesso sposo, la Sposa giovane viene iniziata alla vita e al sesso dal Padre, dalla Madre, dalla Figlia e dallo Zio. A loro immagine e somiglianza.

Insomma Baricco, con la sua prosa brillante, con i suoi virtuosismi e le sue invenzioni si diverte a far scorrere la penna “lontano dalla via maestra” ed a farla “rotolare giù da improvvise scarpate”. Anche la voce narrante del libro segue le sue strane logiche passando bruscamente dalla terza alla prima persona e viceversa “con l’evidente risultato di complicare la vita al lettore”. E durante questi volteggi lessicali si inserisce spesso anche l’autore – che diventa egli stesso personaggio del libro - con le sue riflessioni che in qualche maniera toccano anche la sua sfera privata. In una di queste incursioni il personaggio Baricco scrive: “…non ho mai pensato che il mestiere di scrivere si possa risolvere nel confezionare in modo letterario gli affari propri, col penoso stratagemma di modificare i nomi e talvolta la sequenza dei fatti, quando invece il senso più giusto di quello che possiamo fare mi è sempre parso mettere tra la nostra vita e quel che scriviamo una distanza magnifica che, prima prodotta dall’immaginazione poi colmata dal mestiere e dalla dedizione, ci porta in un altrove dove risultano mondi, prima inesistenti, in cui quanto c’è di intimamente nostro, inconfessabilmente nostro, torna ad esistere, ma a noi quasi ignoto, e toccato dalla grazia di forme delicatissime, come di fossili o farfalle”.

Lo ammetto: Baricco non rientra tra i miei autori preferiti. Sono troppo legato alla produzione letteraria del passato e non riesco a leggere il tanto reclamizzato “successo del momento”, il “bestseller” con i suoi serial killer, i suoi detective, i suoi commissari, i suoi chef. Tuttavia non posso non riconoscere la sua grande abilità nella scrittura. Baricco non è un personaggio dello spettacolo prestato alla letteratura (ce ne sono tanti in giro e grazie alla loro notorietà gli editori sono disposti a pubblicare qualsiasi inezia essi scrivano). No. Lui è un vero scrittore che conosce molto bene il mestiere dello scrittore anche se ci tiene ad essere personaggio televisivo facendo spettacolo con la letteratura.

giovedì 13 settembre 2018

Addio a Guido Ceronetti



Dopo Gillo Dorfles, morto a 107 anni qualche mese fa, se n’è andato per sempre un altro “grande vecchio”  della nostra cultura: Guido Ceronetti, scrittore, poeta, saggista e tante altre cose. Aveva 91 anni e da tempo, ormai, viveva come un eremita in un piccolo borgo in provincia di Siena, Cetona.
Era un personaggio schivo, che non amava i riflettori, senza peli sulla lingua, sempre disorientante e catastrofico, raffinato e pungente. La sua libertà di pensiero, che a volte sfociava nell’ irriverenza, faceva storcere il naso a tante persone. Usava la penna come fosse una frusta, tanto da apparire razzista, provocatorio, antipatico. Scrisse in un suo famoso libro “Un viaggio in Italia” che il popolo italiano “dopo tanta storia, è più che mai rincretinito…non c’è un vero cittadino in queste città, come non c’è un vero spirituale in questo paese cristiano”.

domenica 2 settembre 2018

Abbiamo paura del "vuoto"



Io penso che ciò che manca nella società in cui viviamo e, soprattutto, nella vita delle tante persone “super impegnate”, sia un rigenerante e salutare “spazio vuoto”, inteso come momento di pausa e di riflessione quotidiana. Quel “vuoto” fatto di silenzi... di assenza di rumori molesti...di raccoglimento....di attesa. Quel vuoto che ci permetta di riflettere e di stare con noi stessi, di pensare, di progettare e di accantonare, per qualche istante, oggetti e occasioni che hanno reso la nostra esistenza sempre più nevrotica. Il “vuoto”, anche nella sua accezione positiva, ci fa paura e lo viviamo come un incubo; siamo sempre alla ricerca spasmodica di qualcosa che possa riempirlo, qualora si dovesse presentare durante la nostra giornata, tra un impegno e l’altro, tra un incontro culturale ed una riunione di lavoro, tra un corso di inglese ed uno di pianoforte, tra un esercizio in palestra e una gara di ballo, tra un acquisto al centro commerciale e un cazzeggiare con il telefonino.
 
Siamo terrorizzati dal vuoto e allora dobbiamo imbottirlo a tutti i costi di messaggi....di telefonate....di oggetti...di musica come sottofondo, ma non per ascoltare musica, ma solo per non ascoltare il silenzio. Il costante bombardamento di immagini, di informazioni, di pubblicità visiva e uditiva dovrebbe suscitare in chiunque una reazione di rifiuto. Ma non succede. Siamo assuefatti ad ogni forma di orrore. Anche il nostro paesaggio urbano in cui viviamo abitualmente ( e mi riferisco soprattutto alle grandi città ) è saturo di un’infinità di segnali visivi disturbanti, di graffiti e di pitture murali di ogni genere, di insegne pubblicitarie, di rumori, di sporcizia e di macchine che riempiono ogni spazio disponibile.

Maestra di riempimento è, naturalmente, la televisione. Trasmette 24 ore su 24. Senza fine. Senza vuoti. Qualche secondo di pausa tra una trasmissione e l’altra crea panico e imbarazzo. Lo si capisce subito se si presenta un piccolo impedimento tecnico, per cui le immagini o il servizio non partono: immediatamente si legge il terrore sul viso del malcapitato giornalista. Non sono ammesse pause, la narrazione deve essere continua e costante. Con una momentanea sospensione, il telespettatore può anche pensare con la sua testa e allora potrebbe decidere di spegnere quei 42 pollici che arredano la sua casa. O cambiare canale. Ed ecco allora che la pausa diventa un pericolo da evitare a tutti i costi.

Abbiamo perduto quell’antico modo di fare televisione, il cui palinsesto prevedeva un inizio ed una fine. E con la fine dei programmi serali si presentava davanti a noi un bellissimo “vuoto”, da riempire – se Morfeo tardava a venire - leggendo un libro o chiacchierando con una persona cara. Ricordo con nostalgia quell’intervallo televisivo che veniva trasmesso tra un programma e l’altro senza messaggi pubblicitari, fatto solo di fotografie, in bianco e nero, di vecchi borghi o di greggi di pecore che pascolavano, il tutto accompagnato con un dolce sottofondo musicale. Erano sprazzi di autentica felicità e di rilassamento. Sono disgustato dal “troppo pieno”, che ormai affligge la società in cui viviamo e quindi auspico un ritorno graduale ad un piacevole “vuoto” quotidiano: di oggetti, di impegni, di immagini, di notizie che generano altre notizie che a loro volta fanno nascere smentite e contro-smentite, di messaggi pubblicitari che invadono le nostre esistenze, tant’è che alla fine gli occhi e la mente finiscono per percepirli solo come consueti e irrinunciabili rumori di fondo. Le nostre capacità percettive e sensoriali sono straordinarie, però a tutto c’è un limite.