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venerdì 20 luglio 2018

Le golose



Un accostamento quasi inseparabile – almeno nel passato - era quello che esisteva tra un buon caffè, magari accompagnato da un dolcetto, e la letteratura. Gli intellettuali (scrittori, poeti, artisti) avevano l’abitudine di darsi appuntamento in un caffè del centro storico (da Napoli a Roma, da Milano a Venezia, da Torino a Firenze...) per confrontarsi e, magari, per trovare la propria ispirazione creativa.  E sono proprio tali illustri personaggi che hanno fatto la fortuna di quelli che oggi vengono chiamati "caffè storici". Penso al Caffè Greco o al Caffè Rosati di Roma, dove era possibile incontrare Pasolini, Calvino, Morante; al Gambrinus di Napoli dove si ritrovavano D’Annunzio ed Hemingway, al Florian di Venezia, dove sedevano Goldoni, Casanova, Foscolo; al Tommaseo o al Caffè degli Specchi di Trieste dove erano di casa Svevo e Joice…E poi il Caffè Baratti & Milano, uno dei locali più antichi e prestigiosi di Torino, frequentato assiduamente da Guido Gozzano. E sono proprio le “signore e signorine” dell'alta società che frequentavano questo caffè - alle prese con i loro dolci peccati di gola - ad ispirare lo scrittore piemontese nella stesura di una delle sue poesie più conosciute:

Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.

Signore e signorine -
le dita senza guanto -
scelgon la pasta. Quanto
ritornano bambine!

Perché nïun le veda,
volgon le spalle, in fretta,
sollevan la veletta,
divorano la preda.

C'è quella che s'informa
pensosa della scelta;
quella che toglie svelta,
né cura tinta e forma.

L'una, pur mentre inghiotte,
già pensa al dopo, al poi;
e domina i vassoi
con le pupille ghiotte.

Un'altra - il dolce crebbe -
muove le disperate
bianchissime al giulebbe
dita confetturate!

Un'altra, con bell'arte,
sugge la punta estrema:
invano! ché la crema
esce dall'altra parte!

L'una, senz'abbadare
a giovine che adocchi,
divora in pace. Gli occhi
altra solleva, e pare

sugga, in supremo annunzio,
non crema e cioccolatte,
ma superliquefatte
parole del D'Annunzio.

Fra questi aromi acuti,
strani, commisti troppo
di cedro, di sciroppo,
di creme, di velluti,

di essenze parigine,
di mammole, di chiome:
oh! le signore come
ritornano bambine!

Perché non m'è concesso -
o legge inopportuna! -
il farmivi da presso,
baciarvi ad una ad una,

o belle bocche intatte
di giovani signore,
baciarvi nel sapore
di crema e cioccolatte?

Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.

lunedì 16 luglio 2018

Pereira: personaggio letterario, simbolo del riscatto politico/civile



“Sostiene Pereira” è l’insolita espressione che apre, chiude e dà il titolo al famoso romanzo di Antonio Tabucchi, edito da Feltrinelli nel 1994. “Sostiene Pereira”, due parole che vengono ripetute come un ritornello durante tutta la narrazione (almeno un paio di volte a pagina) e che sembrano rimandare ad una sorta di testimonianza delle proprie ragioni da parte del protagonista – Pereira, appunto - dinanzi ad un tribunale non ben identificato. C’è da dire che tale artifizio letterario ha la straordinaria capacità di accordare al racconto un ritmo singolare e armonioso.
Ho riletto il libro in questi giorni – mi piace spesso rifugiarmi tra i miei preferiti - e devo dire che lo stesso si presta a diverse chiavi di lettura, non necessariamente collegate tra di loro. A cominciare dalla libertà di espressione alla ritrovata coscienza civile e politica, dall’ossessione per il tempo che passa inesorabilmente fino al rapporto tra il potere e la letteratura, si ha l’impressione che Tabucchi voglia esplorare a fondo l'animo umano, facendo percepire tra le righe che esiste sempre un tempo, nella vita di un uomo, per fare un salto di qualità. Esiste sempre un’occasione per un riscatto morale.

Le vicende del romanzo sono ambientate nella Lisbona del regime dittatoriale di Antonio de Oliveira Salazar, durante una torrida estate del 1938. Pereira, il protagonista, è un oscuro giornalista che cura la pagina culturale di un quotidiano locale filo-cattolico. Da quando è morta la moglie, ha l’abitudine di parlare con il suo ritratto che tiene sul comodino; è un uomo sovrappeso e cardiopatico che conduce una vita solitaria in “una misera stanzuccia”, frequenta il Café Orquìdea dove mangia, da solo, sempre omelette alle erbe aromatiche e beve limonate zuccherate. E’ un personaggio che non si espone politicamente e non si impegna nel sociale (ha paura della polizia salazarista che la fa da padrona nel Paese), ama la letteratura francese, scrive elogi funebri anticipati dei grandi scrittori ancora in vita (che pubblica in caso di morte), ha per confidente un francescano al quale confessa le sue eresie ed è ossessionato dall’idea della morte. “Da quando era scomparsa sua moglie – si legge nel libro - lui viveva come se fosse morto. O meglio: non faceva altro che pensare alla morte, alla resurrezione della carne nella quale non credeva e a sciocchezze di questo genere, la sua era solo una sopravvivenza, una finzione di vita”. Ma ecco che, all’improvviso, in questa sua esistenza così grigia, abitudinaria e passiva, entra prepotentemente – come collaboratore nella redazione del giornale - un giovane laureato (Monteiro Rossi), strenuo oppositore (insieme alla fidanzata) del dittatore Salazar. E’ l’inizio del cambiamento: i due giovani sembrano voler demolire  le paure di Pereira e scuotere l’apatia delle sue giornate, spingendolo ad esprimere liberamente il suo pensiero attraverso il suo giornale ed a scrivere quello che stava succedendo, non solo nel Portogallo e nella vicina Spagna, ma in tutta Europa. Pereira appare inquieto, titubante, rintanato nel suo quieto tran tran quotidiano che, almeno apparentemente, non gli dà alcuna preoccupazione; egli sembra incapace di assumere una posizione indipendente di fronte alla grave situazione politica del momento. Tuttavia in lui inizia ad insinuarsi il dubbio, la riflessione, quei due giovani continuano a stimolarlo. Quasi a braccarlo. “La smetta di frequentare il passato – gli dicono – cerchi di frequentare il futuro” Vorrebbe contenerli con la sua esperienza però comprende che la vecchiaia non può di fronte alla giovinezza. Forse è la sua ultima grande occasione. E potrebbe essere l’ultima occasione per salvare e riscattare un’intera esistenza. L’occasione per continuare a vivere e per non invecchiare male.

mercoledì 4 luglio 2018

Un libro ci cambia un pò



“Il piacere della scrittura – scrive Paolo di Paolo - in senso astratto, forse non esiste. Esistono però il piacere, il divertimento, la commozione, la tristezza, il fastidio, l’indignazione, la sorpresa, suscitati di volta in volta dai singoli libri”. Ecco, se io dovessi dire cosa ho provato nel leggere il suo ultimo libro “Vite che sono la tua” (Editori Laterza) non avrei alcun dubbio: ho provato piacere. Con la sua prosa affabulatoria “Vite che sono la tua”, pubblicato nel 2017, è un libro che parla di libri. Il giovane scrittore romano (ha solo 35 anni ma è già un affermato autore) ci offre un viaggio attraverso 27 storie scritte da altrettanti grandi protagonisti della letteratura: da Salinger ad Anna Frank, da Elsa Morante a Italo Calvino, da Giorgio Bassani a Thomas Mann, da Gustave Flaubert a Virginia Woolf, da Marcel Proust ad Antonio Tabucchi…In un’epoca in cui si legge molto poco, Di Paolo - grazie alla sua esperienza di lettore impenitente e appassionato - “non riuscirei a immaginare come sarei, chi sarei, se nella mia vita non ci fossero stati e non ci fossero i libri” – dice di se stesso – veste i panni del maestro suggeritore e ci consiglia la lettura di alcuni grandi libri che sono stati fondamentali e illuminanti per la sua formazione.
Un libro ci cambia, ci permette di allargare lo spazio che abbiamo davanti e ci consente di far entrare nella nostra vita più persone di quelle che davvero riusciamo a incontrare durante tutta la nostra esistenza. A volte da un libro possiamo trarne solo una frase che ci è piaciuta. Oppure una sensazione. Un’emozione. Una cosa che non conoscevamo. Ma anche un senso di fastidio. A volte solo un’idea o una speranza. E altre volte – perché no – una storia che somiglia proprio alla nostra. Oppure una storia che avremmo voluto tanto somigliasse alla nostra. Un libro è tutto questo, ma anche altro. Certi libri ci consegnano immagini di luoghi che non abbiamo mai visto e che poi riconosciamo immediatamente quando abbiamo la fortuna di visitarli realmente. Certi libri restano impressi per sempre nella nostra mente e ci permettono di viaggiare senza partire.

Da ciascuno di quei 27 romanzi “messi in fila” da Paolo di Paolo – oltre a tanti altri solo evocati che in qualche maniera si avvicinano a quelli precedenti, lo scrittore dice di avere riportato qualcosa che “non ha ancora perso”. Come immaginare altre vite leggendo “Canto di Natale”,  oppure sopravvivere all’adolescenza rileggendo “Il giovane Holden”; scoprire di essere amati con “l’isola di Arturo”; sentirsi inadeguati leggendo “Dietro la porta”; ma anche risvegliarsi assassini tra le pagine di “Delitto e castigo” e tornare indietro nel tempo affrontando il primo libro de “la Ricerca” di Proust; e poi amare come solo un padre sa amare con “Papà Goriot” e imparando a non invecchiare male tenendo tra le mani quel grande libro che è “Sostiene Pereira”.