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domenica 24 giugno 2018

Il superfluo ci rende felici?



Ci sono alcuni luoghi in cui si respira un’atmosfera del tutto particolare, dove è possibile perdersi piacevolmente e dimenticare, per qualche momento, gli affanni e le fatiche del vivere quotidiano: questi luoghi sono le librerie, i vivai e le ferramenta. Si, proprio quegli esercizi commerciali dove rispettivamente si vendono libri, si vendono fiori e piante e si vendono attrezzi vari. Sono spazi magici e incantati che mi conquistano in maniera diversa. Non mi stancherei mai di curiosare tra i banchi che espongono quella merce, così differente. Sono tre luoghi che appaiono molto distanti l’uno dall’altro, assai diversi per le peculiarità  che presentano singolarmente, e la capacità di poter attrarre e stimolare lo stesso visitatore sembra davvero inconciliabile. Tuttavia hanno un filo sottile e speciale che li unisce: la meraviglia e la curiosità che immancabilmente destano in un visitatore come me. Sono della autentiche cattedrali, permettetemi l’accostamento. La cattedrale del sapere e della conoscenza, per quanto riguarda la libreria, la cattedrale dei colori e dei profumi per il vivaio ed infine la cattedrale della creatività per le ferramenta. Insieme celebrano la bellezza: quella dell’ingegno umano, quella della natura, quella della manualità creativa. Ho cominciato ad avvertire interesse e curiosità per  questi luoghi, nonché il piacere per le cose che vi si possono trovare, allorquando ho iniziato a frequentarli: luoghi in cui ho trascorso e tutt’ora trascorro momenti davvero gradevoli. Con questo non voglio dire che tutti i giorni io mi rechi in questi posti. Non è proprio così. Però confesso che se durante i miei percorsi giornalieri vedo una libreria, oppure incrocio uno di quei negozi in cui fanno bella mostra martelli, cacciaviti, trapani e quant’altro, ovvero scorgo in lontananza vasi di fiori, e alberelli da piantare, ebbene la voglia di entrare e di curiosare resta sempre fortissima. Comprare quel libro di quell’autore che volevo leggere da tempo…trovare finalmente quel “geranio parigino”, a portamento pendente di colore lillà, per decorare il balcone di casa…procurarmi quei due reggi mensole di ferro battuto per attrezzare quell’angolo della cucina. Ecco, sono idee come queste che mi spingono ad entrare. Ed è molto difficile uscirne a mani vuote. Semmai è il portafogli che potrebbe svuotarsi. Queste visite me le godo quasi sempre in solitudine, condizione fondamentale per assaporare meglio quel piacere che vi si può trovare.
 
In questa nostra società consumistica tutta basata sul profitto, sull’utilitarismo e sull’efficienza visibile, luoghi come le librerie o i fiorai, dove si vendono per lo più cose “inutili”, potrebbero apparire sprecati e superflui. Con la cultura non si mangia, diceva tempo fa un politico. Nell’accezione consumistica i libri non servono, con i fiori non si pranza; eppure se noi abbiamo da mangiare e da dormire, abbiamo cioè le cose che in una società civile ognuno dovrebbe avere, non per questo siamo felici. Che cosa, allora, ci rende felici o ci illude di esserlo? Potrebbe essere un regalo… come un bel libro che ci procura quella felicità immateriale fatta di stimoli, di idee, di intelligenza che ci porta magari a  comprendere qualcosa prima non compresa. Potrebbe essere un mazzo di rose o un vaso di ciclamini. E perché no: un bel trapano elettrico che ci permette di unire l’utile al dilettevole.
 
Quando entro in una grande libreria, la prima reazione emotiva che ne ricevo è quella dello smarrimento. Mi sento piccolo, come un guscio di noce in mezzo all’oceano. Le mie ridotte conoscenze vacillano di fronte alla vastità di milioni di pagine scritte. Poi un po’ alla volta mi riprendo. Mi lascio incuriosire da un titolo, da un autore e immediatamente vengo irretito da un altro titolo, da una bella copertina, da una frase significativa. Vengo rapito dalla quarta di copertina di un romanzo e poi salto all’interno del libro per leggere, magari, un’intera pagina. E poi sapeste la gioia che provo quando scorgo quel romanzo già letto…e poi quell’altro ancora. Mi capita di sorvolare con uno sguardo il mondo incantato delle fiabe, raccontato in centinaia di titoli. Mi soffermo, ma solo per un attimo, sugli scaffali del “brivido” dove sono depositati quei romanzi che fanno della suspense la propria ragione di vita. Il mio sguardo non può non indugiare sui best seller, quelli che dovrebbero essere i più letti del momento (anche se non sempre sono i migliori) che stanno sempre in bella posizione. Poi mi trattengo a lungo coi classici, che come disse Calvino, sono quei libri che non hanno mai finito di dire quel che hanno da dire. Ricordo sempre quello che scrisse in un suo libro il critico d’arte Vittorio Sgarbi “il libro è il “superfluo” della nostra esistenza, è quell’oggetto tanto necessario quanto apparentemente inutile, che vive e ti fa vivere meglio, che ti dà libertà”

 Il superfluo, insomma, è ciò che rende felice la vita.
 
 
 
E già il superfluo! Come posso non pensare alla mia cassetta degli attrezzi, se la confronto alle mie modeste e ridottissime capacità di utilizzo. Oltre che superflua, appare inutile. Se potesse parlare, mi griderebbe: usami! Eppure è talmente piena e completa di cacciaviti e di chiavi di tutte le misure, di martelli e di tenaglie, di pinze e di viti, di chiodi, di chiodini, di bulloni, di gancetti, di feltrini, di punteruoli; e poi tutta la serie delle punte da trapano, da muro, da ferro, da legno…e i tasselli, le rondelle, le fascette. Una cassetta degli attrezzi che farebbe invidia ad un vero professionista del settore. Se ne sta custodita in un angolo del ripostiglio e si riempie sempre di più ogni qual volta mi capita di entrare in una ferramenta. Ricordo quelle di una volta: erano piccoli avamposti dall’apparente disordine, che spesso si tramandavano di padre in figlio. Si entrava con il pezzo vecchio da cambiare, con quel bullone spanato a filettatura metrica che ci serviva e ci accoglieva un omino con il camice grigio e gli occhialini sul naso, una sorta di chirurgo-meccanico-falegname, che prima ancora di salutarti aveva già individuato il pezzo che cercavi. Oggi quelle ferramenta all’antica sono sparite e al loro posto sono sorti enormi brico center. Fai da te. Non ti accoglie più l’omino, ma giovani ed efficienti commessi con il computer. Ma il fascino del posto è rimasto intatto. Come rimanere indifferenti di fronte a quella fila di scale e scalette di tutte le dimensioni…di armadi e armadietti…di seghetti alternativi e di seghe circolari, di motoseghe e decespugliatori, di trapani, di levigatrici, di smerigliatrici, di avvitatori. E poi il reparto delle vernici, con i suoi innumerevoli colori, la fila di pennelli pura setola e le spatole. E poi i prodotti per l’edilizia, raccordi e guarnizioni per l’idraulica. E le serrature di sicurezza. E poi il reparto minuteria con la serie infinita di viti a testa esagonale, a testa cilindrica a testa svasata, chiodi, dadi, bulloni, cerniere, tasselli, cassette porta minuteria. I prodotti elettrici e per falegnameria. Le casseforti. Le tronchesine. Compro sempre qualcosa che “mi potrebbe servire”, che mi dà quella vana e piacevole illusione di saper fare tutto, in virtù di quella chiave inglese cromata e di quel set di cacciaviti a croce appena comprati e di cui vado fiero.
 

Entrare, poi, in un vivaio è come accedere in uno speciale reparto maternità, dove al posto dei bambini nascono i fiori e le piante. Ci si entra sempre sorridenti, di buon umore, sicuri che il posto non può che predisporci al bello, non può che migliorarci. Perché i fiori ingentiliscono, decorano gli ambienti e abbelliscono l’animo di chi li regala e di chi li riceve. E’ un luogo che, attraverso i suoi profumi e la varietà dei colori, rende lievi le difficoltà del vivere quotidiano e attenua lo stress. Al cospetto di un glicine o di una bougainvillea, chi mai può rimanere distaccato? Provate a guardare un glicine nel pieno della fioritura: lo spettacolo è bellissimo. Provate ad osservare una piantina di limoni o di mandarini cinesi  in vaso: quella visione vi rilassa. A volte mi capita di incontrare lungo il percorso delle bellissime composizioni floreali in ciotole di terracotta che sembrano appena uscite da un dipinto di Renoir; inoltre certi colori cangianti e fiammeggianti, certe sfumature mi riportano ai pittori impressionisti dell’Ottocento, come Monet, che per dipingere le sue opere traeva ispirazione dalla natura. E il vivaio è ricco di spunti pittorici. E’ un modello naturale che ispira bellezza e ci fa diventare più buoni. Un luogo che prelude all’ottimismo. Viva le librerie! Viva i vivai! Viva le ferramenta!

domenica 17 giugno 2018

Raffaele La Capria: quando Napoli ti ferisce a morte



Ricordo di essermi accostato - per la prima volta - allo scrittore Raffaele La Capria leggendo quel suo bellissimo libro che si intitola “L’estro quotidiano”: pagine autobiografiche di grande intensità emotiva che mi svelarono un autore straordinario, un napoletano colto e raffinato, una figura di primissimo piano nel panorama della letteratura contemporanea italiana. Ed è proprio sulla scia di quella piacevole lettura che ho iniziato a leggere “Ferito a morte”. Devo dire, però, che il libro mi ha un po’ deluso: mi aspettavo altro. Tuttavia, se non sono riuscito ad apprezzarlo come si deve, la colpa non può essere che mia. Può anche darsi che il romanzo meriti una rilettura, da farsi  in un momento diverso.

Ambientato in quella Napoli a lui tanta cara “che ti ferisce a morte e ti addormenta, o tutt’e due le cose insieme”, questo romanzo - che si aggiudicò il premio Strega nel 1961 – ripercorre la storia di Massimo de Luca, un giovane della Napoli “bene” – probabilmente alter ego dello scrittore – il quale rievoca, attraverso un susseguirsi di ricordi e di immagini tra il sogno e la realtà, tra il presente e il passato, le sue vicende esistenziali, i suoi fallimenti e le sue “occasioni mancate” sullo sfondo di una Napoli assolata e luminosa a cavallo tra la seconda guerra mondiale e gli anni cinquanta. E sembrano proprio le occasioni mancate, il tema dominante del libro, quelle occasioni che i napoletani, storicamente, non hanno mai saputo cogliere per il proprio riscatto sociale, così come il protagonista non sa cogliere l’amore per la bella Carla Boursier.

La storia non presenta un vero e proprio intreccio narrativo; mostra invece, almeno nella prima parte - che io ho trovato alquanto noiosa - una serie di istantanee all’interno delle quali si sovrappongono in cerchi concentrici, tra il passato e il presente, le passioni e le speranze, i dubbi e le certezze, i vizi e le virtù di una moltitudine di personaggi dalla spiccata napoletanità. D’altra parte, La Capria, napoletano doc, è molto bravo nel far percepire gli odori della sua Napoli, gli odori di una bella giornata, gli odori del caffè, come solo certi napoletani sanno fare, gli odori ed i rumori del mare, tutto ciò raccontato con una vena di struggente nostalgia. La Capria racconta inoltre quella Napoli che “cerca l’assoluzione da ogni condanna” e dipinge, attraverso i suoi caratteristici personaggi “il napoletano che vive nella psicologia del miracolo, sempre nell’attesa di un fatto straordinario tale da mutare di punto in bianco la sua situazione....con la sua antitesi di miseria e commedia, di vita e teatro”. Spinge il suo sguardo, con occhio ironico e a volte  compiacente e complice, sull’odiata classe media, causa e origine di tutti i mali del sud, perché a “qualsiasi partito appartenga il cavaliereavvocatocommendatore resta, e rimesta sempre nel solito impasto d’imposture”. Naturalmente c’è una spinta ad evadere da questo mondo, tanto che il protagonista lascia Napoli, per trasferirsi a Roma. Ma il richiamo per la città partenopea è troppo forte, tant’è che nei suoi ritorni lui ripercorre quei momenti che l’avevano visto protagonista, insieme a tutti quei personaggi che ora ritrova invecchiati e stanchi, non più all’altezza delle gesta del passato.

lunedì 4 giugno 2018

Una burla riuscita di Italo Svevo



Italo Svevo è di sicuro uno degli scrittori del Novecento che più amo. I suoi personaggi, dietro ai quali l’autore si nasconde quasi sempre – da Alfonso Nitti il protagonista di “Una vita” a Zeno Cosini de “La coscienza di Zeno” fino ad Emilio Brentani di “Senilità”, tanto per ricordare i suoi tre romanzi più famosi – sono degli antieroi che ormai sono entrati nell’immaginario collettivo, rappresentativi di un modo di essere e di agire. Sono i tipici personaggi sveviani, sfigati e inetti, appartenenti al mondo degli uffici finanziari e delle assicurazioni, mondo di cui faceva parte anche l’autore triestino. Non conoscevo “Una burla riuscita”, questo suo libriccino di poco più di novanta pagine che ho appena finito di leggere, scovato tra i banchetti di un mercatino dell’usato al modico prezzo di 1 euro. E’ un’edizione del 2011 (la biblioteca di Repubblica) con una bella un’introduzione di Paolo Rumiz e da come si presenta (praticamente nuovo) mi fa pensare che non sia mai stato sfogliato.
Mario Samigli, questo il nome del protagonista del libro - l’ennesimo travestimento di Italo Svevo, nato Ettore Schmitz – è un impiegato sessantenne con velleità letterarie che nonostante l’età avanzata “continuava a considerarsi destinato alla gloria”. Egli ha scritto un solo romanzo, quarant’anni prima, e ancora aspetta fiducioso che un editore si faccia vivo per pubblicare quello che lui considera un autentico capolavoro della letteratura. Si direbbe che non gli manca la stima di se stesso, così come “ anche un po’ quella degli altri, dai quali certo la gloria dipende”. Intanto continua a vivere la sua vita “lemme lemme” con il suo piccolissimo reddito e con i suoi sogni letterari duri a morire. Fino a quando un suo amico commesso viaggiatore - che si rivelerà, poi, il suo peggiore nemico – gli fa credere che un importante editore viennese è interessato al suo romanzo ed è anche disposto a pagare una cifra altissima per la pubblicazione. Il nostro personaggio, che è di una ingenuità allarmante ed è estraneo alle cattiverie del mondo, non rendendosi conto della burla feroce ideata su di lui, finisce per assecondare tutti i passaggi architettati dal suo amico-nemico. Quando finalmente capirà di essere stato ingannato, avrà tuttavia la forza e l’intelligenza di vendicarsi. Riscattandosi alla grande.

La storia è ambientata nella Trieste austriaca del 1918 e chi conosce un pò le vicissitudini artistiche di Italo Svevo non può non considerare che lo scrittore triestino, anche attraverso Mario Samigli, in realtà racconta se stesso, le delusioni dei suoi primi tempi, quando nessuno scommetteva su di lui né credeva nei suoi meriti letterari. Devo dire che leggendo questa storia, velata di amarezza ed ironia, mi sono venuti in mente i tanti “scrittori” che imperversano nel nostro mondo letterario, anch’essi alle prese – come Samigli – con quell’inconscio desiderio di essere letti e di poter pubblicare il proprio libro con un grande editore. E diventare famosi. Come scrive nell’introduzione Paolo Rumiz “la Burla è una trasposizione allegorica e autoironica del caso Svevo, quello di un autore dimenticato che fino alla metà degli anni Venti non sperava nel successo se non in termini burleschi”.