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lunedì 28 maggio 2018

Erri De Luca: Tu, mio



Ho letto “Tu, mio” di Erri De Luca all’indomani di una mia vacanza a Ponza e devo dire che tale lettura mi ha restituito le stesse piacevoli sensazioni vissute  sull’isola ponziana, mi ha ricordato le stesse atmosfere soleggiate intrise di profumi e dolci malinconie. Erri De Luca – non sta a me dirlo - è uno scrittore davvero molto bravo che scrive come parla; e che sa catturare il lettore raccontando le sue storie in maniera poetica e fiabesca, così come un nonno sa carpire l’attenzione del suo nipotino mentre gli racconta una favola.

La vicenda del romanzo è ambientata su un’assolata isola del Sud - potrebbe essere Ischia o Procida, e perché no, la stessa Ponza - verso la metà degli anni cinquanta, subito dopo l’ultima guerra evocata e vissuta da alcuni dei personaggi del libro. E’ la storia di un adolescente napoletano di sedici anni, molto sensibile “...ero un ragazzo di città ma d’estate m’inselvatichivo...” che trascorre tutte le sue estati sull’isola, insieme alla sua famiglia, ospite di uno zio. Ogni giorno va a pesca con Nicola, un marinaio del posto taciturno e malinconico, il quale era stato in guerra nell’ex  Jugoslavia: il suo unico viaggio dall’isola a Sarajevo, esperienza questa che l’aveva molto segnato e irrigidito. Nicola, però, si fida di quel ragazzo che gli copia i gesti, che ascolta senza fare troppe domande, e lui gli parla della guerra e di quella famiglia di Sarajevo che l’aveva salvato subito dopo l’otto settembre, quando i tedeschi avevano imprigionato i soldati italiani per spedirli nei campi di lavoro in Germania. Perciò non gli piacciono molto i tedeschi, neanche quelli che ora passeggiano come turisti sull’isola, troppo forte è il ricordo della guerra e dei soprusi subiti. Al suo amico insegna a pescare, ad amare il mare, a rispettarlo, ricordandogli sempre che “...si ottiene dal mare quello che ci offre, non quello che vogliamo...”. E questi insegnamenti, per il giovane protagonista del libro, sono precetti di vita, di crescita, di maturità. Egli avverte la consapevolezza di essere più grande della sua età, perché se ne sta quasi sempre in disparte, lontano dai suoi coetanei e poi non è attento alle ragazze della sua età, perchè è attratto da quelle più grandi di lui. “...era l’estate dei miei sedici anni – dice la voce narrante -  stavo su un precipizio di sentimenti....il corpo era acerbo, la vita dentro invece si era precipitata in avanti per un comando venuto da fuori, da lontano...” . E questo “comando” venuto da fuori si materializza in Caia, una ragazza ebrea di alcuni anni più grande del nostro protagonista - di cui si innamora perdutamente - con un suo segreto e con il suo dolore per la morte del padre avvenuta durante la guerra. “Tu, mio”, è un romanzo di formazione delicato e amaro che ripercorre i sogni e le attese di un adolescente sulla soglia della maturità.

sabato 12 maggio 2018

Le confessioni di un borghese: Sandor Marai



La nostra letteratura abbonda di scrittori che si sono cimentati con il romanzo autobiografico. Di solito le autobiografie si redigono sempre alla fine del proprio percorso umano e professionale, quasi con l’intento di stilare una sorta di resoconto di un’intera esistenza. Lo scrittore ungherese Sandor Marai, invece, quando pubblicò il suo libro di memorie “Confessioni di un borghese” - nella metà degli anni Trenta - aveva solo trentaquattro anni e ne avrebbe vissuti altri 55. Io credo che scrivere un romanzo autobiografico sia, spesso, una scelta ispirata da un inconscio desiderio narcisistico: mettere se stessi al centro della scena e quindi della narrazione. Ma credo anche che tale spinta possa nascere anche da un bisogno profondo, che è quello di scavare tra i ricordi della propria memoria per far rivivere vicende personali in cui possa ritrovarsi, in qualche maniera, anche chi legge. E’ chiaro, però, che se l’autore non possiede arte narrativa, se non ha vocazione letteraria, il rischio che il racconto di tali fatti possa risultare noioso agli occhi del lettore, è davvero molto alto. E devo dire che questo rischio non si corre affatto con Sandor Marai: con la sua prosa colta, chiara e raffinata, con i suoi illuminanti aforismi, con le sue profonde riflessioni sulla famiglia e sulla solitudine dell’uomo, sul lavoro dello scrittore, sulla libertà, sulla vita e sulla morte, con le sue belle pagine dedicate alle città in cui soggiornò, “Confessioni di un borghese” sa coinvolgere emotivamente il lettore. Tanto che si ha quasi l’impressione che i fatti privati narrati dall’autore siano stati solo un pretesto narrativo, un punto da cui partire per fare vera letteratura.
Sandor Marai apparteneva ad una ricca famiglia borghese, i cui antenati – di origine sassone – nel XVII secolo erano emigrati in Ungheria, dove avevano servito fedelmente gli Asburgo. Una famiglia complessa, la sua, dove “collera, passioni e interessi legavano persone diverse per temperamento  e inclinazioni…nella quale si mischiavano rabbia e abnegazione, poveri di spirito e personalità ipertrofiche”. Seguiamo il narratore – nelle oltre 450 pagine del libro - a partire dalla sua infanzia nella cittadina di Kassa (all’epoca impero austro-ungarico, oggi Slovacchia), alle prese con le inflessibili teorie pedagogiche della madre, i cui orari che regolavano la sua vita “erano rigidi come i ritmi imposti in tempo di guerra ai marinai di una nave militare”. Il giovane Sandor aveva ereditato sensibilità e irrequietezza dalla famiglia della madre, compensate dal senso della disciplina e dall’innato rispetto dell’autorità propri dei suoi antenati paterni, che “erano uomini riservati, taciturni e anticonformisti”. L’autore dimostra da subito la sua attrazione per il giornalismo, la passione per la letteratura e la poesia, ma suo padre (notaio reale, Senatore nonché Presidente della camera degli avvocati di Kassa) avrebbe preferito che il primogenito dei suoi quattro figli intraprendesse gli studi di giurisprudenza per poi diventare avvocato, al fine di poter rilevare il suo avviato studio legale.

Ma le attitudini del giovane erano altre. D'altra parte il suo desiderio di evadere (dalla famiglia, dalla cerchia dei suoi parenti, dalla professione a cui era stato destinato, dal matrimonio, dal suo paese e forse da se stesso) lo perseguitava e lo perseguitò vita natural durante. Aveva solo quattordici anni quando scappò di casa la prima volta “un vagabondaggio di poche ore”, ma quel “processo di rivolta” proseguì, poi, per tutta la vita. “Non appartengo a niente e a nessuno – scrive l’autore nel suo libro - Non esiste un solo essere umano – amico, donna o parente che sia – di cui io riesca a tollerare la compagnia oltre un certo limite di tempo; non esiste comunità umana, corporazione o classe sociale in cui possa trovare il mio posto; per mentalità, modo di vivere e condotta spirituale sono un borghese, e tuttavia mi sento a casa in qualsiasi ambiente tranne quello borghese; vivo in un’anarchia che sento come amorale, e faccio fatica a sopportare questa condizione”. Parole, queste, che descrivono senza mezzi termini il personaggio che abbiamo di fronte. Si definiva “un nevrotico, un pavido e un debole…un solitario, quasi un misantropo”, inadatto ad offrire protezione a qualcuno, e non si sentiva attratto né dai soldi, né dall’amicizia, né dalla felicità (“l’uomo felice non è creativo; è un uomo felice e basta”). L’appartenenza ad una classe agiata lo faceva sentire in colpa, tant’è che da ragazzo provava un’irresistibile simpatia per i suoi vicini di casa, proletari, che vivevano con tanta allegria. E tutto ciò che diceva e faceva  lasciava trasparire quella ribellione latente, quei continui “progetti di fuga” per evadere da quella “colonia penale” dove avrebbe dovuto espiare la sua “condanna a vita”.
Nonostante avesse questo spirito insofferente e anticonformista e fosse abituato a innamorarsi e a disamorarsi, per poi dimenticare in fretta i suoi amori, nonostante gli mancasse “l’equipaggiamento giusto per affrontare quella rischiosa spedizione che è il matrimonio”, finirà per sposare Lola (della sua stessa classe sociale “conosciuta agli albori della vita”), “il primo essere umano che cercò di aprire un varco nella mia solitudine; e io le opposi una resistenza disperata”. Ed è proprio la solitudine l’elemento vitale dello scrittore: vi si rifugia appena può, fuggendo l’amicizia e le compagnie.
Comincia a girare il mondo “come un predatore, trafugando paesaggi e angoli di strada con l’esaltazione di un vandalo e incamerandoli nella memoria con una ingenua, trionfante voracità…” Lo seguiamo, pagina dopo pagina, nelle sue peregrinazioni, nelle sue innumerevoli scorribande  per l’Europa: “arrivavo in un posto per una breve visita – così scrive - e vi rimanevo sei anni, scendevo dal treno in una città straniera per concedermi una notte di sonno e cambiare la biancheria e non me ne andavo più per quattro mesi…”. Un giramondo instancabile per le città della Germania sulle tracce di uno dei suoi scrittori preferiti, Goethe, da Weimar a Dresda, da Lipsia a Francoforte. Poi a Berlino, dove il padre incontra per la prima volta sua moglie Lola: le uniche due persone che abbiano avuto un ruolo veramente importante nella sua vita. E’ il periodo, questo, in cui Sandor Marai comincia a bere in maniera smodata, come se avvertisse uno strano bisogno di stordirsi. “Bevevo con disgusto – scrive – da disperato. Cominciavo le giornate con i liquori più pesanti e le concludevo con la vodka”. Lo troviamo poi a Parigi, dove insieme alla giovane moglie condivide una vita da bohèmien. E ancora sarà a Londra, Vienna, Costa Azzurra, poi in Medio Oriente, fino a giungere in Italia dove visita molte città tra cui Torino, Venezia, Bologna, Firenze. Proprio a Firenze ha modo di conoscere finalmente quella realtà storica ed artistica che per lui, fino a quel momento, era stato soltanto “uno sfocato concetto dei tempi di scuola: il Rinascimento”. Ma comincia ad avvertire che una fase della sua vita sta per concludersi: arriva sempre il giorno “in cui è l’anima a mettersi in viaggio, e allora il mondo si trasforma in un elemento di disturbo”. Sopraggiunge il momento per lo scrittore in cui le “selvagge scorribande” della sua giovinezza - che gli avevano fatto conoscere il mondo e tante persone eccezionali – si affievoliscono e allora sente il bisogno di tornare a casa, nella sua Ungheria, sebbene quell’imperativo gli “ispirasse un senso di frustrazione e di rivolta”. Scrive, alla fine di questa avventura: “Sarei tornato in patria, e da quel momento in poi sarei vissuto a casa mia, né bene né male, niente affatto felice e contento, ma piuttosto irrequieto, infastidito, nervoso, pieno di nostalgia e tormentato dal desiderio di fuga… Dovevo avvicinarmi all’altra realtà, al piccolo mondo, avevo finito di recitare la mia parte, e adesso sarebbe iniziato il balbettio dell’esistenza quotidiana…”
Le ultime sei pagine del libro - dedicate alla morte del padre - la cui vita “era stata contrassegnata dall’eleganza, dalla bontà e dalla cortesia”, sono di una struggente, malinconica bellezza. Da leggere e rileggere. “Era stato l’unico essere umano – scrive il narratore a proposito del padre - con il quale avessi qualcosa in comune…Si stava congedando da me, dal suo primogenito, e sembrava che volesse farlo trasmettendomi un segreto, una parola-chiave della nostra famiglia, un lasciapassare per la vita, un segno tutto nostro – ma poi rimase in silenzio, come rendendosi conto che non è possibile aiutare nessuno, che gli individui e le famiglie rimangono sempre soli con il proprio destino. Mi fissava con sguardo indagatore, gli occhi spalancati, come se avesse voluto finalmente sapere chi fossi, come se mi chiedesse di rispondere a un quesito rimasto insoluto per troppo tempo. Ma non avrei saputo che cosa rispondergli. Quindi allungò le dita pallide e delicate, e mi strinse la mano. Non disse neanche una parola; chiuse gli occhi, e dopo un po’ lasciò la presa…”