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lunedì 23 aprile 2018

Senza il telefonino...sarei morto



Non possiedo cellulari. Non ne ho mai avvertito la necessità. Né l’urgenza. Giustamente qualcuno potrebbe dirmi: ma chissenefrega! Il mondo va avanti lo stesso. Qualcun altro potrebbe domandarmi: ma come fai a vivere senza? Io potrei rispondere con un’altra domanda: ma forse si viveva male, solo una ventina di anni fa (mica nel medioevo) quando il telefonino ancora non esisteva? Comunque si osservino le cose, sono consapevole di essere (almeno per gli altri) un soggetto strano in via di estinzione, un po’ come lo sono i boscimani del Botswana o i masai che vivono sugli altopiani fra il Kenia e la Tanzania.
Siamo talmente avvinghiati ai nostri oggetti tecnologici che se oggi, per assurdo, si verificasse una sorta di black out digitale a livello planetario, noi periremmo tutti in poco tempo. E quindi anche il sottoscritto che non si è lasciato fagocitare da quel pozzo dei miracoli che è l’iPhone. Si salverebbero solo loro, i boscimani e i masai  i quali, non conoscendo facebook e non essendo schiavi della tecnologia – ma sapendo invece accendere il fuoco senza fiammiferi e cacciare con arco e frecce - da popoli in via di estinzione diventerebbero paradossalmente gli unici superstiti del pianeta. Noi invece, da popolo super civilizzato, siamo arrivati al punto che senza cellulare non sappiamo più campare. E’ una protesi che indossiamo ogni mattina, appena svegli. E’ la droga del terzo millennio: se ci viene a mancare, ci sentiamo perduti, indifesi, in balia di un avverso destino.
“Senza telefono io sarei morto…”. Ricordate quel famoso spot pubblicitario, di una trentina di anni fa, dove un condannato a morte in un fortino della legione straniera – interpretato da un indimenticabile Massimo Lopez – tiene in attesa il plotone di esecuzione aggrappandosi all’ultima lunghissima telefonata? Ecco, se oggi mi guardo in giro mi viene in mente proprio quell’immagine: sembriamo tanti condannati a morte che rinviano la propria esecuzione rimanendo sempre connessi con un altrove.
Per rendersi davvero conto di come siamo ridotti basta entrare, a qualsiasi ora, in un treno della metropolitana di Roma, o di qualsiasi altra grande città. Lo spettacolo che si presenta al nostro sguardo è a dir poco inquietante: ci sono occhi solo per quella scatoletta che tutti impugnano come un salvavita. Non credo che esista in natura una tale situazione in cui, contemporaneamente, una moltitudine di persone apparentemente normali effettui la medesima operazione: cioè guardare un piccolo monitor facendolo roteare su e giù con un solo dito, alla spasmodica ricerca di un qualche cosa di indefinito. Se all’improvviso, quando si aprono le porte del convoglio, entrasse qualcuno in costume adamitico oppure un marziano, credo che nessuno se ne accorgerebbe. E credo che pure il marziano rimarrebbe stupito nel vedere tutti quei volti chini simultaneamente su un oggetto illuminato. Tanto da far pensare a chissà quali cose strabilianti. Ma chi glielo direbbe, al marziano, che quei digitaldipendenti stanno solo cazzeggiando? E che non stanno facendo (la stragrande maggioranza) nulla di urgente e di importante?

Scrive Vittorino Andreoli nel suo libro “La vita digitale” (Rizzoli Editore) “… ho paura che questa società non si domandi più nulla, ma chieda solo e sempre tecnologia che vuol dire sollevarsi da compiti che prima l’uomo svolgeva direttamente. Una tecnologia che lo rende sempre più inutile come corpo, ridotto a semplici dita che digitano. Ho paura che non si domandi più nulla poiché semplicemente non ha nemmeno la testa per pensare: la tecnologia la svuota, modifica il suo modo di procedere, fino a sostituirla con una macchinetta che saprà fare quello che serve per sopravvivere, e bene, ma non per risolvere il tema del senso della vita e senza questa domanda finirebbe una civiltà. Intendiamoci: l’uomo continuerà a vivere, ma in una civiltà differente. L’uomo si ridurrà alla logica dei viventi non umani, regredendo e passando alla fase dei nostri antenati primitivi. Saremo dei primitivi tecnologizzati, ma primitivi”.

giovedì 19 aprile 2018

Il lupo della steppa



Ho riletto “il lupo della steppa” di Hermann Hesse (Oscar Mondadori). E’ proprio vero: il piacere della lettura cambia a seconda delle circostanze e degli umori che ci accompagnano. E poi, leggere Hesse, in qualsiasi momento della nostra vita, rappresenta sempre un’occasione per riflettere sulla condizione umana.

Il protagonista del romanzo è Harry Haller, (nome simbolico che richiama le iniziali del nome dello scrittore), un intellettuale cinquantenne, un uomo di pensiero e di libri, che non esercita alcuna professione “nessun’idea gli era più odiosa e ripugnante che quella di avere un impiego, osservare un orario, obbedire agli altri”. Mi viene da pensare, ironicamente, a quella famosa frase: “il lavoro nobilita l’uomo”. Egli si sente metà uomo e metà lupo e questa duplice coscienza, di spirito e di istinto, lo rende infelice. E’ sempre sull’orlo del suicidio. Ha dentro di sé una natura umana, fatta di pensieri, di sentimenti, di cultura, ma ha anche dentro di sé una natura rozza e primitiva, cioè un mondo di istinti selvaggi, di crudeltà. Vive da solo in una camera ammobiliata, in un ambiente familiare e borghese - in contrasto con la sua vita solitaria e sregolata - tra mucchi di libri, mozziconi di sigaro e bottiglie di vino, dove tutto è disordinato, trascurato. E’ alla continua ricerca di un nuovo significato da dare alla sua vita insensata. Gli piace, però, respirare quell’odore di pace, di ordine, di pulizia di vita domestica nonostante il suo odio e il suo disprezzo per la vita borghese e per le buone maniere. Crede che sia molto difficile trovare una traccia divina e spirituale in mezzo alla vita quotidiana “...in questo tempo così privo di spirito, alla vista di queste architetture, di questi negozi, di questa politica, di questi uomini...” traccia che può incontrare solo in una musica di Mozart, in un pensiero di Goethe o di Pascal. E perciò si diventa lupi della steppa. Ma un bel giorno Haller incontra una donna, una cortigiana di nome Erminia (nome simbolico anche questo, perché sarebbe il femminile di Hermann). Ebbene, questa donna incolta e semplice sa comprendere i suoi problemi, lo distoglie dalle sue inquietudini e dalle sue malinconie, lo allontana dalla sua idea ricorrente di suicidio e lo porta pian piano a conoscere i piccoli e genuini piaceri della vita.

Il lupo della steppa - probabilmente uno dei romanzi più conosciuti e profondi di Hermann Hesse – affronta l’eterno tema della lotta tra l’istinto e la ragione, lo spirito e la brutalità. La narrazione presenta alcuni spunti autobiografici dello scrittore tedesco e rimanda, in particolare, ai suoi tormenti interiori, ai suoi conflitti esistenziali e spirituali, che di riflesso sono, poi, i conflitti e i disagi che vive l’uomo contemporaneo. Il libro, inoltre, vuole essere anche un atto di accusa nei confronti del potere e della borghesia dominante, quest’ultima rafforzata proprio dagli intellettuali che, pur disprezzandola, o facendo finta, continuano tuttavia a farne parte “poiché in fondo devono pur essere d’accordo con lei se vogliono vivere”.  E’ considerato un classico della letteratura mondiale e chi ha un po’ di dimestichezza con i libri non può non conoscerlo.

lunedì 9 aprile 2018

Il tempo ci divora



E’ proprio vero, noi vorremmo ammazzare il tempo ma finiamo sempre per soccombere. E’ una battaglia persa quella che intraprendiamo, appena nati, con il padrone predestinato della nostra esistenza. Ma che cos’è dunque questa entità astratta che domina la vita di tutti noi? Per sant’Agostino il tempo non esiste in quanto è una dimensione dell’anima; egli affermava: “se nessuno me lo chiede lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede non so cosa rispondere”.
Effettivamente nulla è più sfuggente e inafferrabile del tempo che ci accompagna come un’ombra in ogni istante della nostra vita, che scandisce le nostre giornate dalla nascita fino alla morte. Per poterlo percepire abbiamo inventato l’orologio e il calendario; ci affidiamo a questi strumenti per controllarlo, per programmarlo, per piegarlo ai nostri bisogni, ma non possiamo fermarlo, come ci piacerebbe fare in molte occasioni. “Vorrei fermare il tempo in questo dolce istante”, cantava Adamo negli anni ‘70. Ma il tempo, proprio nei momenti più belli, sembra avere una maggiore rapidità, acquista la velocità del suono. E allora per illuderci di poterlo domare, per allontanare questo pensiero ingombrante che ci assilla e, in qualche maniera, per rallentare la sua corsa ci adoperiamo alacremente per riempirlo di cose, di lavoro, di divertimenti, di programmi, di impegni, di doveri, di incontri.

 La nostra società, per effetto di un progresso tecnologico ormai incontrollabile, va sempre più veloce e il tempo reale è ormai al di sotto delle nostre effettive possibilità percettive. Non possiamo più competere con i tempi di un computer; non abbiamo più coscienza di come possa essere il tempo nel prossimo futuro. Verrebbe da dire che l’unico tempo certo è quello del passato, legato appunto al ricordo di un luogo o di un momento vissuto. Anche nella comunicazione il tempo è diventato talmente veloce che un avvenimento qualsiasi, nel momento stesso in cui accade, diventa già superato da un altro ancora, in un continuo frenetico rincorrersi senza fine. Il tempo è diventato un valore economico, una merce che ha un prezzo altissimo: chi arriva prima vince, gli altri soccombono. E’ cambiato anche il rapporto tra spazio e tempo, si sono accorciate le distanze tra paesi e mondi diversi. Arriviamo prima, facciamo prima, concludiamo prima. Eppure non abbiamo mai tempo. Sembra un paradosso: la tecnologia doveva farci guadagnare tempo, abbiamo inventato strumenti che velocizzano al massimo il tempo, eppure questa velocità non ci basta. Basta vedere come diventiamo impazienti se per un attimo il computer si blocca, come diventiamo isterici se ad un nostro messaggio non segue una immediata risposta.

Ma al di là del rapporto che esiste tra il tempo e i vari mezzi tecnologici, la percezione del tempo cambia a seconda delle circostanze e delle situazioni che ci troviamo a vivere; diceva Albert Einstein “quando un uomo siede un’ora in compagnia di una bella ragazza, gli sembra che sia passato solo un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa per un minuto e gli sembrerà più lungo di un’ora”. E’ chiaro che nel momento in cui siamo felici le ore diventano minuti e non ci accorgiamo del loro trascorrere; al contrario quando, per esempio, non riusciamo a prendere sonno perché siamo preoccupati, ci sembra che il tempo non passi mai e che si sia fermato. Eppure i tempi tecnici sono gli stessi, solo che noi li viviamo in maniera diversa, con uno spirito psicologico ed emotivo differenti: la gioia riduce tanto il tempo, quanto il dolore lo dilata a dismisura. Ma la sensazione varia anche a seconda dell’età e dell’esperienza. I giovani, per esempio, non avvertono mai il suo fluire perché la giovinezza, che apparentemente sembra un’età molto lunga, concede loro un privilegio che ad altri non è concesso e cioè quello di poter contrastare il tempo e addirittura sprecarlo, dal momento che ne possiedono in abbondanza; a volte per loro scorre addirittura troppo lento, tant’è che non vedono l’ora di diventare grandi, maturi e indipendenti. Non sanno a cosa vanno incontro. Infatti, una volta diventati grandi, ci si guarda indietro e  ci si accorge che, dopo i quaranta il tempo comincia a galoppare, passati i cinquanta precipita giù come un masso da una montagna e dopo i sessanta - poiché ci troviamo in età pensionabile - gli anni ruzzolano uno dietro l’altro a velocità interstellare, nonostante si viva l’illusione di giornate lunghissime, rese tali dai minori impegni.

Al suo passaggio il tempo corrode la vita e lascia i suoi segni sulle cose e sugli uomini, sulla facciata di una casa così come sul volto di una persona. Pensare di fermare o di cancellare il tempo è pura follia; è un immorale pensiero di onnipotenza insito in tutte quelle persone che, ad una certa età, proprio nel momento in cui il tempo sta per travolgerle, credono di poterlo bloccare attraverso un intervento di chirurgia estetica. Stendiamo un velo pietoso su questi penosi restauri.