Cerca nel blog

mercoledì 26 dicembre 2018

E' ancora possibile la poesia?

Eugenio Montale


Ha un senso parlare di poesia, oggi, nell’attuale civiltà consumistica e super tecnologica che vede affacciarsi per la prima volta un robot al posto dell’uomo? Se lo chiedeva già il grande poeta Eugenio Montale oltre 40 anni fa allorquando, insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1975, pronunciò un memorabile discorso all’Accademia di Svezia incentrato proprio sul ruolo della poesia per la quale veniva premiato. Fu un discorso illuminante, ancora oggi di grande attualità, che ci fa capire molte cose su questo “prodotto” dell’ingegno umano  “assolutamente inutile – scriveva Montale - ma quasi mai nocivo, e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà”.

Per Montale “esistono in coabitazione due poesie, una delle quali è di consumo immediato e muore appena è espressa, mentre l'altra può dormire i suoi sonni tranquilla. Un giorno si risveglierà, se avrà la forza di farlo. La poesia di “consumo immediato” è – secondo me – quella che appartiene a tutti quei poeti estemporanei che pubblicano poesie orecchiabili… sentimentali… ricche di “a capo”, però senza il rispetto di quelle regole che stanno alla base di un componimento poetico. Nel pronunciare il suo discorso all’Accademia di Svezia il poeta genovese affermava che “tutte le arti visuali stanno democratizzandosi nel senso peggiore della parola. L’arte è produzione di oggetti di consumo, da usarsi e da buttarsi via in attesa di un nuovo mondo nel quale l’uomo sia riuscito a liberarsi di tutto, anche della propria coscienza”. E poi si chiedeva: “Ma perché oggi più che mai l’uomo civilizzato è giunto ad avere orrore di se stesso? […] Sotto lo sfondo così cupo dell'attuale civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione. Il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano «datate» e il bisogno che l'artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell'attuale, dell'immediatoDi qui l'arte nuova del nostro tempo che è lo spettacolo, un'esibizione non necessariamente teatrale a cui concorrono i rudimenti di ogni arte e che opera una sorta di massaggio psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che sia. […]

“L'arte-spettacolo, l'arte di massa, l'arte che vuole produrre una sorta di massaggio fisico-psichico su un ipotetico fruitore – sosteneva ancora il poeta - ha dinanzi a sé infinite strade perché la popolazione del mondo è in continuo aumento. Ma il suo limite è il vuoto assoluto. Si può incorniciare ed esporre un paio di pantofole (io stesso ho visto così ridotte le mie), ma non si può esporre sotto vetro un paesaggio, un lago o qualsiasi grande spettacolo naturale. La poesia lirica ha certamente rotto le sue barriere. C'è poesia anche nella prosa, in tutta la grande prosa non meramente utilitaria o didascalica: esistono poeti che scrivono in prosa o almeno in più o meno apparente prosa; milioni di poeti scrivono versi che non hanno nessun rapporto con la poesia. Ma questo significa poco o nulla. Il mondo è in crescita, quale sarà il suo avvenire non può dirlo nessuno. Ma non è credibile che la cultura di massa per il suo carattere effimero e fatiscente non produca, per necessario contraccolpo, una cultura che sia anche argine e riflessione. Possiamo tutti collaborare a questo futuro. Ma la vita dell'uomo è breve e la vita del mondo può essere quasi infinitamente lunga. […]

In quel lontano 1975 il poeta si chiedeva ancora: “quale può essere la sorte della poesia? Le risposte potrebbero essere molte. La poesia è l'arte tecnicamente alla portata di tutti: basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto. Solo in un secondo momento sorgono i problemi della stampa e della diffusione. L'incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione, cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda”.  […] Montale si soffermava poi sulla crisi che sembrava avvolgere tutto il mondo artistico, “crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati, i soli che si credono padroni della loro sorte e depositari di un destino che nessun'altra creatura vivente può vantare. Inutile dunque chiedersi quale sarà il destino delle arti. È come chiedersi se l'uomo di domani, di un domani magari lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte fin dal primo giorno della Creazione (e se di un tale giorno, che può essere un'epoca sterminata, possa ancora parlarsi).
Vorrei concludere con una poesia di Eugenio Montale che forse più delle altre contiene l’essenza stessa dell’arte poetica, o meglio quel “materiale” con cui viene costruita una poesia: le parole

Le parole
se si ridestano
rifiutano la sede
più propizia, la carta
di Fabriano, l’inchiostro
di china, la cartella
di cuoio o di velluto
che le tenga in segreto;
le parole
quando si svegliano
si adagiano sul retro
delle fatture, sui margini
dei bollettini del lotto,
sulle partecipazioni
matrimoniali o di lutto;
le parole
non chiedono di meglio
che l’imbroglio dei tasti
nell’Olivetti portatile,
che il buio dei taschini
del panciotto, che il fondo
del cestino, ridottevi
in pallottole;
le parole
non sono affatto felici
di essere buttate fuori
come zambrocche e accolte
con furore di plausi e
disonore;
le parole
preferiscono il sonno
nella bottiglia al ludibrio
di essere lette, vendute,
imbalsamate, ibernate;
le parole
sono di tutti e invano
si celano nei dizionari
perché c’è sempre il marrano
che dissotterra i tartufi
più puzzolenti e più rari;
le parole
dopo un’eterna attesa
rinunziano alla speranza
di essere pronunziate
una volta per tutte
e poi morire
con chi le ha possedute.

Eugenio Montale

giovedì 20 dicembre 2018

"Un'anima persa" di G. Arpino: mistero e verità nascoste



Sono tanti gli scrittori bravi e dimenticati che hanno fatto la storia della letteratura italiana del Novecento. Giovanni Arpino, morto nella sua Torino nel 1987 a soli 60 anni, è uno di questi. Grande appassionato di calcio (scriveva anche articoli sportivi per “La Stampa”) è autore di molti romanzi alcuni dei quali hanno vinto premi letterari importanti quali lo Strega  con “L’ombra delle colline” e il Campiello con “Randagio è l’eroe”.

“Un’anima persa” - il romanzo che ho appena finito di leggere - fu pubblicato nel 1966. L’ho scovato sui banchetti di un mercatino dell’usato (Oscar Mondadori edizione del 1974) e credo che il libro oggi sia fuori catalogo. La vicenda narrata si manifesta al lettore tra inquietudine e mistero avvolgendolo in un’atmosfera carica di apprensione. Non saprei come definire questo libro, in quale ambito collocarlo: certamente non è un horror - nell’accezione classica del termine – né un thriller, generi questi che non mi affascinano più di tanto e che io difficilmente leggo. Forse potrebbe essere catalogato come una sorta di giallo psicologico, incentrato com’è sulla doppiezza dei comportamenti umani, sullo squilibrio mentale e la forza attrattiva del male. In ogni caso, posso dire che il racconto - che si presenta sotto forma di diario condensato in soli cinque giorni - si legge tutto d’un fiato grazie all’abilità narrativa dello scrittore torinese che riesce a far emergere, tra le righe, le forti tensioni emotive che vivono i pochi personaggi della storia.

La trama: ci troviamo negli anni ’60 del secolo scorso in una Torino spettrale nell’afa di luglio. Direi che la città è solo sfiorata, perché la vicenda si svolge in gran parte nella casa di due persone alquanto strane (Serafino Calandra “l’ingegnere” e sua moglie Galla) gli zii del protagonista diciassettenne (Tino), voce narrante del libro. Costui - che vive in un orfanotrofio da quando i suoi genitori sono morti in un incidente stradale - arriva nel capoluogo piemontese per sostenere gli esami di maturità classica, ospite di questi suoi parenti che non vede da molto tempo. E’ da sempre prigioniero di oscure ed inspiegabili paure che non riesce “ a soffocare con le sole forze della ragione”, e che si manifestano ancor di più da quando è arrivato nella casa degli zii. Queste paure, che gli procurano un vero scompiglio, sono generate soprattutto da strani fruscii e scricchiolii che lui avverte soprattutto quando si trova a letto. A questa sua instabilità emotiva si aggiunge – ora che si trova a Torino - una nuova preoccupazione: la casa che lo ospita nasconde un doloroso dramma familiare ed umano. Lo zio, infatti, ha un fratello pazzo - “il professore” - relegato in una stanza della casa dove non entra mai nessuno da vent’anni, tranne lo zio che provvede personalmente a tutti i suoi bisogni. Il nostro giovane protagonista, impaurito e digiuno di vita reale, si ritrova suo malgrado coinvolto in una storia più grande di lui, suggestionato dagli eventi che si susseguono rapidi e impietosi e dai quali viene inghiottito “come un boa inghiotte un coniglio”.
Intorno a queste inquietudini l’autore inizia a tessere magistralmente la sua tela narrativa, facendo crescere le tensioni e introducendo improvvisi colpi di scena, legati alla contrapposizione tra la vita apparentemente normale che lo zio fornisce agli altri e la follia latente che alberga nel suo animo. Ci si domanda: chi è l’anima persa? Il giovane Tino avvolto dalle sue paure irrazionali o sua zia Galla succube del marito? Lo zio Serafino schiavo della sua doppiezza o il fratello pazzo che nessuno ha mai visto? Sembra quasi che l’autore, con questo libro, voglia dirci che a volte la normalità che mostriamo altro non è che una maschera di comodo che serve a nascondere quell’identità malata che ci divora dentro.

giovedì 13 dicembre 2018

Un libro sull'infelicità...e il piacere è assicurato



Facciamo di tutto per essere infelici: è forse la cosa che ci riesce meglio. D’altra parte i motivi non mancano mai: le ipocrisie della classe politica, gli effetti deleteri del tran tran quotidiano, il traffico della grande città, la spazzatura che ci sommerge, la crisi economica, gli anni che avanzano inesorabilmente, il lento disfacimento del corpo, ecc.

Facevo queste amare riflessioni mentre mi trovavo a gironzolare tra i banchi di un mercatino dell’usato, illudendomi di trovare qualcosa che potesse scacciare dalla mente quel mio temporaneo malumore. All’improvviso la mia attenzione è rivolta ad un libro, dal titolo tutt’altro che appetibile: “L’infelicità – Storia di una passione”. Considerato anche il mio stato d’animo, non sembrava affatto il balsamo della situazione. E’ pur vero che se dovessimo soffermarci solo sul titolo, certi libri apparirebbero autentici “mattoni” che non invogliano alla lettura. A volte può capitare, infatti, che per una serie di motivazioni psicologiche difficili da spiegare, o di pregiudizi duri a morire - che probabilmente nascono dal tema trattato, ma anche dalla dimensione del volume - almeno inizialmente si avverta una strana sensazione che ti fa pensare di non riuscire a portare a termine certe letture. Nonostante queste premesse, l’ho comprato senza indugi e a lettura ultimata mi viene da pensare che un libro ti può dare felicità anche se parla di infelicità. E’ un po’ come leggere una poesia di Leopardi, che sebbene contenga tutto il dolore di questo mondo, riesce tuttavia a trasmettere gioia in chi la legge (almeno al sottoscritto), grazie alla bellezza ed alla profondità dei versi e alla ricchezza delle immagini che sa creare. E poi, se proprio vogliamo fare un discorso leggermente egoistico: non esiste forse un sottile e cinico legame tra l’infelicità degli altri e il nostro personale piacere? Tutte le tragedie familiari che vengono trasmesse a puntate dai programmi televisivi, che generano angoscia e dolore in chi le subisce, non sono forse liberatorie per chi le guarda con eccessivo e morboso interesse?

“L’infelicità”, con quel suo sottotitolo che rimanda ad una passione, è un libro godibile, delicato e accattivante, scritto con leggerezza ed ironia da Armando Torno, giornalista e scrittore. Ci tiene a sottolineare l’autore che con questo testo non intende approdare ad alcun risultato, né a dare consigli per debellare le sofferenze che attanagliano  l’umanità; tanto meno è sua intenzione competere con i grandi del passato che si sono cimentati in dotte dissertazioni su tale tematica. Perché l’infelicità, scrive Torno, “la proviamo, la viviamo, la subiamo, ma non riusciamo però a conoscerla razionalmente”. E’ uno strano e impenetrabile sentimento che tutti i giorni “si incontra con gli uomini, frequenta le loro case, indugia nei loro pensieri”. L’hanno cantata i poeti, l’hanno raccontata gli scrittori, ne hanno discusso i sommi filosofi dell’antichità. Tutti i grandi animi hanno incontrato l’infelicità, chiamandola con nomi diversi e cercando di sconfiggerla, con le loro opere e con il loro esempio, senza però riuscirci.

E’ ormai risaputo, scrive l’autore, che l’infelicità aumenta di pari passo con la civiltà; ma pare che esista anche uno stretto rapporto tra l’intelligenza e l’infelicità. Nell’Ecclesiaste si legge “grande sapienza grande tormento, più intelligenza avrai, più soffrirai”. Anche Arthur Schopenhauer puntualizzava che “man mano che la conoscenza diviene più distinta e che la coscienza si eleva, cresce anche il tormento, che nell’uomo raggiunge quindi il grado più alto, e tanto più alto, quanto più l’uomo è intelligente; l’uomo di genio è quello che soffre di più”. Sembrerebbe, quindi, che la stupidità attenui l’infelicità e che non occorra particolare acume per essere felici. Davvero una magra consolazione: l’idiota non sa nulla ed è felice. Ma come si fa ad affievolire e combattere l’infelicità? Naturalmente non esiste un metodo preciso; l’uomo ha bisogno del piacere, uno dei pochi anestetici contro il dolore e le sofferenze che tanta infelicità gli procurano. Ma anche qui siamo dinanzi ad un enigma – afferma Armando Torno – perché ci si chiede cosa sia questo piacere che sa lenire i dolori dell’infelicità. A questo punto ci vengono in soccorso i filosofi: Aristotele, Epicuro. Montaigne e tanti altri. Ha scritto Eugenio Montale in Ossi di seppia che la nostra vita si svolge al di qua di “una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Per Armando Torno quella muraglia si può chiamare con un nome più semplice: infelicità. Vale comunque la pena trarre giovamento da chi ha sofferto e ha conosciuto l’infelicità, perché nessuno meglio di chi è stato infelice può darci lezioni di quotidiana felicità.


lunedì 10 dicembre 2018

E' Natale: ma passerà.



Per chi non se ne fosse ancora accorto, sono arrivate anche quest’anno – con largo anticipo - le attese feste di Natale e di fine anno. E allora, eddaje
alle quintalate di panettoni e pandori farciti e torroni e cioccolate e dolciumi natalizi accatastati nei centri commerciali; alle abbuffate quotidiane di fichi secchi, di lupini, di noci e di salumi, di mandorle e di castagne, di carne di maiale e di cappone ripieno, di ravioli e di risotti, di cotechino e lenticchie “perché portano bene”, di cannelloni e agnolotti, di broccoli e salsicce; eddaje alla corsa ai regali, ai pacchi e pacchettini e ai cesti infiocchettati, all’accaparramento isterico di qualsiasi prodotto; agli alberi di natale, ai regali sotto l’albero di natale, allo “spelacchio” in piazza Venezia a Roma, all’albero di Natale a Piazza San Pietro sempre più alto; al presepe e all’immancabile mostra dei presepi, e al concorso “il presepe più bello”, agli addobbi colorati e alle luci intermittenti e alle palle colorate e ai fuochi d’artificio, ai botti, agli zampognari, alla messa di mezzanotte e alle tombolate; ai sorrisi forzati, all’allegria tanto al chilo e alla felicità a buon mercato; eddaje alle vagonate di auguri, di telefonate, di messaggi  “perché a Natale siamo tutti più buoni e poi cosa fai a Natale e con chi festeggi il veglione di fine anno e tanti auguri a te e famiglia e speriamo che il nuovo anno sia migliore”; agli ingorghi di macchine strombazzanti, alle file al supermercato, alle luminarie lungo le strade, alla fretta per gli ultimi acquisti e per quel regalo che avevamo dimenticato; eddaje ai consigli televisivi per le spese  e per ”come preparare il pranzo di natale e il cenone di capodanno” ; ai programmi sul Natale e su come trascorreranno il Natale gli italiani e al Natale nel mondo e che tempo farà a Natale e dove andranno i vip a Natale e cosa faranno a Natale Salvini e Di Maio; eddaje all’attesa della mezzanotte davanti alla TV in compagnia delle mare venier, delle lucianine littizzetto delle barbare d’urso degli amadeus, per brindare all’anno che verrà. E chissà…  forse ne usciremo vivi, ancora una volta.

sabato 1 dicembre 2018

I muretti a secco: patrimonio dell'umanità



Chissà se un giorno l’Unesco potrà mai  dichiarare “Patrimonio dell’umanità” uno solo dei tanti  grattacieli che svettano nelle grandi metropoli del mondo, alcuni dei quali si avvicinano ormai ai mille metri di altezza! Sono opere architettoniche ardite e grandiose frutto dell’ingegno umano, ma forse non meritano di essere inserite nella lista perché non interpretano quella “relazione armoniosa fra l’uomo e la natura” che è alla base del riconoscimento.

Invece è  di questi giorni la notizia che i  “muretti a secco” sono diventati patrimonio dell’umanità a seguito della richiesta avanzata all’Unesco da alcuni stati europei, tra cui l’Italia. Si realizza finalmente il riscatto della pietra sul cemento; si rafforza l’antica arte contadina di tutelare il territorio attraverso piccoli interventi murari rispetto all’esaltazione delle “grandi opere” e si riconosce il valore dell’abilità manuale sulla tecnologia sempre più invadente dei nostri tempi.

I muretti a secco sono autentici capolavori di architettura rurale. Già questo diminutivo, muretto, rimanda a qualcosa di gradevole, gentile, rispettoso dell’ambiente, che evoca protezione e legami, al contrario del muro di cinta o della muraglia che ricordano confini e divisioni. Resto sempre affascinato quando mi trovo al cospetto di questi manufatti costruiti con una tecnica semplice e quasi primitiva, frutto di antica sapienza e del lavoro caparbio e certosino dei nostri contadini. Mute sentinelle a salvaguardia del territorio, baluardi naturali a difesa di memorie e tradizioni da recuperare, i muretti a secco entrano nell’olimpo del patrimonio dell’umanità. Servivano e servono – in quasi tutte le regioni italiane - a terrazzare zone particolarmente scoscese necessarie alle coltivazioni, ad arginare frane e crolli. Il muretto a secco, con quella sua elementare costruzione fatta esclusivamente di pietre messe l’una sopra l’altra - a contenere un declivio, a rendere più morbido un pendio e più armoniosa una collina, perfino a ingentilire un luogo - è l’affermazione di un’arte rurale che nasce con l’uomo e si tramanda da millenni, legata al paesaggio delle nostre campagne. E’ un’opera che utilizza per la sua realizzazione un solo elemento, tra i più nobili presenti in natura: la pietra, propria di ogni territorio. Io penso che con questo riconoscimento il muretto a secco acquisisca anche un suo valore simbolico di argine alla cementificazione selvaggia e allo sfruttamento del territorio. Oggi la barbarie - sia ben chiaro - non si identifica nelle distruzioni, ma nelle costruzioni. I nuovi barbari distruggono, costruendo. Da qui le alluvioni, le frane che provocano morte e distruzione del paesaggio. Mi auguro che con l’inserimento del muretto a secco nella lista del patrimonio mondiale da tutelare ci sia un forte cambiamento di rotta, vale a dire no alle case abusive e si ai muretti a secco.

lunedì 26 novembre 2018

Lettere di una novizia di Guido Piovene



Si capisce già dal titolo che il libro di Guido Piovene “Lettere di una novizia” , pubblicato nel 1941, appartiene a quello specifico genere letterario classificato come “romanzo epistolare” in cui la narrazione si dipana attraverso uno scambio di lettere tra i vari personaggi, legati in maniera differente alle vicende del racconto. Da Foscolo (Le ultime lettere di Jacopo Ortis) a Goethe (I dolori del giovane Werther), da Grossman (Che tu sia per me il coltello) a Tabucchi (Si sta facendo sempre più tardi) – tanto per fare qualche nome – sono tanti gli autori, sia del passato che del presente, che si sono cimentati con questo interessante genere letterario.
“Lettere di una novizia”, considerato dalla critica il romanzo più importante dello scrittore vicentino, racconta la storia di una giovane donna (Margherita Passi) la quale - vicina a farsi suora – si trova a vivere una profonda crisi esistenziale che la porterà a dubitare della sua stessa vocazione monacale. Non riuscendo più a vedere chiaro in se stessa e provando timore per il futuro, la protagonista decide di scrivere una lunga lettera al suo padre confessore raccontandogli della sua vita, delle sue paure, dell’inquietudine da cui è tormentata. Da questa prima missiva prende il via una fitta corrispondenza che coinvolgerà altri personaggi, tra i quali la madre superiora del convento, il Vescovo e la stessa madre della novizia. Sono lettere di un elevato livello letterario, piene di risvolti psicologici da cui traspare un mondo, quello religioso legato in modo particolare alla vita conventuale,  ermeticamente chiuso in se stesso, dove l’ipocrisia, l’ inganno, la menzogna e le paure sembrano regnare sovrani. Ognuno si batte per salvare se stesso: la novizia cerca di far prevalere i suoi sentimenti e le sue buone ragioni, ricorrendo anche a falsità, mentre le autorità religiose si adoperano alacremente affinché l’ordine costituito non venga messo in discussione e l’esempio negativo non prenda il sopravvento. Tuttavia, tra errori ed inganni, sullo sfondo di un Veneto molto amato dall’autore, dove “solo la nebbia colorata e la luna hanno una triste opulenza”, non mancano i messaggi di amore e di redenzione diffusi attraverso le lettere dai protagonisti del libro.

martedì 20 novembre 2018

"Cristo si è fermato a Eboli": le annose questioni del Sud



Per la tematica trattata, oggi potrebbe essere definito un libro-denuncia il romanzo di Carlo Levi “Cristo si è fermato a Eboli”, che  io ho letto per la prima volta negli anni scolastici. L’ho voluto rileggere perché bisogna sempre ritornare sui grandi libri; e poi volevo ritornare a riflettere su quei problemi riguardanti il territorio a sud di Eboli che comunemente vengono associati alla “questione meridionale”.

Il romanzo rappresenta un duro e amaro “dipinto” sulle condizioni di vita disumane delle popolazioni del Sud Italia - e della Lucania in particolare - negli anni del ventennio fascista, popolazioni abbandonate da Dio e dallo Stato alle quali – scrive Levi - “neppure la parola di Cristo sembra mai essere giunta”. Si, perché Cristo, fermandosi ad Eboli non sarebbe mai arrivato in quella terra che era stata il regno dei banditi, dove il contadino viveva la propria esistenza nella miseria, eternamente paziente e rassegnato. Dove anche la natura, fatta di lande desolate e incolte, sembrava più matrigna che madre. Carlo Levi, antifascista di Torino, laureato in medicina, venne confinato in Lucania nel 1935 dove rimase per 3 anni. Assegnato prima a Grassano venne poi trasferito a Gagliano (l’attuale Aliano), dove si trovò immerso in una realtà per lui completamente sconosciuta, in un mondo arcaico, chiuso, feudale dove “gli odi e le guerre dei signori sono il solo avvenimento quotidiano”. E sono proprio i signori ed i contadini i protagonisti di questo libro. Da una parte, quindi, i cosiddetti galantuomini, rappresentati dal podestà, dal brigadiere dei carabinieri, dal medico condotto, dal farmacista, dal prete e così via, uomini  pieni di sussiego e supponenza, sempre diffidenti tra di loro “che trasformano la propria delusione e la propria noia mortale in un furore generico, in un odio senza soste, in un perenne risorgere di sentimenti antichi e in una lotta continua per affermare, contro tutti, il loro potere nel piccolo angolo di terra dove sono costretti a vivere”.  Dall’altra parte i contadini, che non erano considerati uomini ma bestie, rassegnati alla loro sorte, che vivevano miseramente in catapecchie fatte di una sola stanza che serviva da cucina, da camera da letto e quasi sempre anche da stalla per le bestie. I signori erano quasi tutti iscritti al “Partito”, perché il “Partito” ai loro occhi rappresentava il Governo, lo Stato, il Potere: essi naturalmente si sentivano partecipi di quel potere. I contadini invece, per la ragione opposta, non erano iscritti a nessun movimento politico, non potevano essere né fascisti, né socialisti, né liberali, perché erano faccende che non li riguardavano, appartenevano ad un altro mondo, non avevano una coscienza politica. Per loro, lo Stato era un’entità sconosciuta e astratta, da cui non si aspettavano nulla; per la gente della Lucania, Roma era la capitale dei signori, il centro di uno stato in cui non si sentivano di appartenere. La vera capitale era stata Napoli, al tempo dei Borboni; ora poteva essere New York, la città dove i contadini emigravano in cerca di lavoro e di fortuna. Ed infatti nelle loro case si potevano trovare due sole immagini appese alle pareti: il Presidente Roosevelt e la Madonna di Viggiano. Quindi né il Re, né il Duce vegliavano su di loro, ma il capo di uno stato estero e la Madonna. L’arrivo del forestiero Carlo Levi a Gagliano venne salutato dai signori con diffidenza: soprattutto i due medici del posto vedevano in lui (laureato in medicina anche se non aveva mai esercitato la professione) un possibile rivale. I contadini invece lo accolsero molto bene, si affidavano alle sue cure, ai suoi consigli, lo vedevano come un vero medico, molto più preparato dei “medicaciucci” del paese, di cui non si fidavano.

L’autore si dilunga in descrizioni molto intense sulle condizioni di vita di questa povera gente, alle prese con la fatica quotidiana del vivere in una terra senza risorse, completamente abbandonata dallo Stato e in continua lotta con una malattia che non lasciava scampo e mieteva vittime: la malaria. Attraverso quell’amara esperienza di vita, Carlo Levi maturò una convinzione: non poteva essere lo Stato a risolvere la questione meridionale, perché lo Stato era il vero ostacolo a che si facesse qualcosa di propositivo verso quella terra. Lo scrittore piemontese era convinto che esistesse un abisso fra lo statalismo fascista allora imperante e l’antistatalismo dei contadini, abisso che si sarebbe potuto colmare solo se i contadini si fossero sentiti parte integrante dello Stato. E poi c’era la borghesia di paese  - un vero nemico per quella terra - che impediva ogni libertà e ogni possibilità di esistenza civile ai contadini “una classe degenerata fisicamente e moralmente  - così scrive Carlo Levi - incapace di adempiere la sua funzione, e che solo vive di piccole rapine e della tradizione imbastardita di un diritto feudale. Finché questa classe non sarà soppressa e sostituita non si potrà pensare di risolvere il problema meridionale”. Cristo si è fermato a Eboli costituisce la rappresentazione letteraria di un dramma umano e sociale, le cui molteplici sfaccettature, a distanza di 80 anni, non sembrano del tutto risolte.

martedì 13 novembre 2018

I potenti



Che ridicole, le pose vanitose
e disperate dei potenti. Quando
sono al centro della scena,
si mostrano sicuri ed arroganti –
cala il sipario e in un istante,
senza pudore, alzano al cielo
guaiti, pianti, penosissimi lamenti.

E’ universale l’umano affanno
per il tempo che implacabile
trascorre, ma la parabola
dell’uomo di potere disegna un arco
più misero, meschino – ché dietro
all’eroico trionfatore si cela
quasi sempre un querulo bambino.

 
Franco Marcoaldi

venerdì 9 novembre 2018

I cilentani: chi sono costoro?



Nella primavera del 1881 – a vent’anni dall’Unità d’Italia – un insigne studioso pugliese, Cosimo De Giorgi, intraprese un lungo viaggio esplorativo nel Cilento, con l’incarico di redigere una carta geologica del territorio. Nel percorrerlo tutto, dalle valli del Calore a quelle dell’Alento, ebbe modo di conoscere e studiare dettagliatamente anche le condizioni di vita e di lavoro dei suoi abitanti nonché le caratteristiche degli stessi, evidenziandone miserie e degrado, pregi e difetti. Il suo reportage è contenuto in un libro molto importante “Viaggio nel Cilento” (pubblicato da Galzerano Editore) la cui lettura mi stimola (da buon cilentano) a fare una riflessione unicamente sull’identità e sulle caratteristiche peculiari dei cilentani. Sarebbe oltremodo interessante capire – a distanza di 137 anni da quel viaggio – se le specificità caratteriali di quei nostri antenati, descritte con dovizia di particolari nel libro, ancora ci appartengano o siano invece superate dai tempi, dalla cultura e dalla civiltà. Insomma, quello che io mi chiedo è se  possiamo ancora considerarci – noi moderni cilentani – discendenti di quegli antichi abitanti della seconda metà dell’Ottocento. E’ chiaro che la mia non vuole essere un’analisi socio-antropologica a valenza scientifica dell’intima natura dell’uomo cilentano: vorrei soltanto soffermarmi, con leggerezza e senza pregiudizi ed in maniera anche ironica, su alcuni aspetti caratteriali messi in evidenza dallo scrittore pugliese, il quale, “calandosi” tra gli uomini del Cilento, ci offre la possibilità di guardarci nello specchio del passato e verificare cos’è cambiato in questo arco di tempo.


La prima cosa che traspare dalla lettura del libro è la grande ospitalità che i cilentani sapevano offrire ai propri visitatori “un’ospitalità franca, cordiale e senza orpelli. E’ questa la pagina più bella che renderà simpatica a tutti gli Italiani questa regione, come ha lasciato in me dei ricordi carissimi”. Così scriveva De Giorgi, il quale, girando tra i diversi paesi ebbe la possibilità di sperimentare la bontà e la meravigliosa accoglienza che gli riservavano: infatti a Roccadaspide il Sindaco lo accolse “a braccia aperte e mi offrì una cortese e gradita ospitalità nel suo palazzo”; a Felitto i signori che lo ospitarono “furono cortesissimi e mi prodigarono nel breve tempo che mi  trattenni delle cure affettuose delle quali serberò perenne ricordo”; a Vallo della Lucania il sig. Ermenegildo “mi usò un mondo di cortesie nel tempo che mi trattenni da lui”; a Pollica i signori della Cortiglia si dimostrarono nei suoi confronti “gentilissimi e colti”; a Ortodonico “mi prodigarono mille cortesie”, a Rutino la famiglia Magnoni “mi fu cordialissima” e a Vatolla “fui accolto gentilmente”.

I cilentani, insomma, erano e sono rimasti così: ospitali, dal carattere tranquillo e cortese. Ecco, bisogna tirar fuori il meglio della tradizione. E il meglio è rappresentato senza dubbio dall’accoglienza e dall’affabilità dei comportamenti che sono alla base della nostra forza e ci contraddistinguono. Il De Giorgi scriveva anche che il cilentano è in generale “docile, buono, quieto, laborioso, coraggioso e audace nei pericoli”. Però poi notava che era anche “geloso e vendicativo specialmente nella cerchia dei suoi parenti e conterranei”.  Escludo che lui oggi possa considerarsi vendicativo: la vendetta è un sentimento che non gli appartiene. E poi uno che possiede una grande dose di bontà non può pensare alla vendetta come mezzo di riparazione delle offese ricevute. Sarebbe una palese contraddizione. Aveva poi notato - il viaggiatore pugliese - che l’abitante di quel territorio aveva qualcosa dei popoli orientali quando cantava le sue canzoni intrise di frasi monotone e melanconiche che egli ripeteva in maniera cantilenante: canzoni in cui vi era sempre “l’impronta dell’amore disperato, della gelosia, dell’abbandono e della voluttà”. E’ difficile oggi immaginare le giovani generazioni (sempre con un cellulare tra le mai) che si dedichino a questo tipo di canto di stampo orientale. La televisione e San Remo, diciamocelo, hanno provveduto in maniera definitiva a cancellare ogni traccia di quel passato. Parlando poi dell’indole del contadino, De Giorgi scriveva che “è svelto, sobrio, perspicace per talento naturale non per educazione o per istruzione: ma il suo lavoro è profuso in modo cieco ed irrazionale, e serve più come forza muscolare che come intelligenza”. Ebbene quando ho letto questa frase il mio pensiero è andato immediatamente a ciò che mi disse, tempo fa, proprio un contadino del mio paese natale, che avendo visto il suo asino in difficoltà mentre stava per attraversare un ruscello, se lo caricò sulle spalle sussurrandogli in un orecchio: “mi puoi fottere con l’intelligenza ma non con la forza”.

Nonostante il De Giorgi non viaggiasse per scopi artistici, tuttavia non poteva esimersi dal visitare i monumenti e i cimeli d’arte che incontrava lungo il suo percorso. “Quanti tesori di arte e di antichità sono nascosti in questi piccoli paesi”, così annotava tra i suoi appunti. A tal proposito ebbe modo di verificare, in diverse circostanze, che nel popolo cilentano il sentimento della bellezza e dell’arte “era ridotto ai minimi termini”. Infatti, osservando gli edifici pubblici oltre quelli privati, si era reso conto che non era raro “veder delle case a due e tre piani, belle e finite e mobiliate con lusso nell’interno, ma senza facciata”. Devo dire che questo vizio non l’abbiamo ancora perso, tant’è che girando per i paesi è facile imbattersi in queste costruzioni le cui rifiniture esterne lasciano molto a desiderare. Il De Giorgi aveva notato inoltre che la coltura dei fiori, che ingentilisce lo spirito e rallegra la vista, in quei posti era sconosciuta, tanto è vero che un ricchissimo proprietario gli rispose “che preferivano un cavolo cappuccio ad una rosa o a un gelsomino”. Ma la cosa più grave era che sia a Paestum che a Velia “l’incuria degli uomini verso i monumenti sa dei popoli barbari…la profanazione qui ha toccato l’apice e prosegue vandalicamente senza che nessun italiano pensi ad opporvi riparo”. Mi viene da pensare a tutte le spoliazioni di monumenti perpetrate sul suolo italico e non solo nel Cilento. Basti pensare al detto latino: quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini.

Aveva inoltre riscontrato nella popolazione anche la mancanza di iniziativa, lo scarso spirito di associazione, una certa indolenza e indifferenza per le cose, caratteristiche queste che forse ancora ci appartengono e che riguarderebbero praticamente tutto il meridione. Ogni opera buona e degna di attenzione veniva accolta con freddezza e con indifferenza – rilevava De Giorgi – “va innanzi pel tenace buon volere di qualcuno, e poi rapidamente languisce. Invano l’Autorità superiore cerca di soffiare un po’ di vita nel corpo addormentato; difficilmente si sveglia e presto si addormenta”. Egli portava l’esempio di Vallo della Lucania, dove due monumentali fontane decoravano la piazza; ma erano simulacri senz’acqua nonostante i monti dei dintorni fossero ricchissimi di acque potabili.

Ma gli odierni cilentani si sono risvegliati da quel torpore? Hanno abbandonato quell’atavico letargo che li costringeva all’inerzia? Sono stati capaci – nel corso degli anni – di esprimere una classe di amministratori locali all’altezza della situazione? I risultati sono sotto gli occhi di tutti, nel bene e nel male. Mi viene da pensare che quando un popolo, qualunque esso sia, riesce a fare autocritica individuando la parte peggiore di sé, debba munirsi di strumenti adeguati per combatterla. E penso che debba anche saper investire tutte le risorse e le energie necessarie al fine di potenziare il meglio che gli appartiene.

lunedì 5 novembre 2018

Gesualdo Bufalino e quegli amori fuggitivi del '51



Ci troviamo in una Roma “deserta di luna”, più o meno agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso; un professore di lettere sessantenne - ormai in pensione – bloccato dall’inverno in un albergo della Capitale, rievoca le sue giovanili avventure di cuore risalenti al periodo in cui insegnava a Modica, un paesino della Sicilia “a pigione di un’Amalia vedova, con figlia in collegio, usufruttuario settimanale delle sue vogliose pinguedini”. Questo professore, protagonista del romanzo “Argo il cieco” (Bompiani editore) è siciliano come l’autore del libro, Gesualdo Bufalino, e si chiama - guarda caso - anche lui Gesualdo: è l’alter ego dello scrittore oppure è solo una strana coincidenza onomastica?
“Fui giovane e felice un’estate, nel cinquantuno. Né prima né dopo: quell’estate”. E’ lo struggente incipit del romanzo con cui il protagonista ci tiene a farci sapere, quasi a sottolineare, che fu sfiorato dalla felicità e dalla giovinezza solo “quell’estate” quando aveva circa trent’anni, lui che si era sempre sentito come un bambino vecchio “invecchiato dalla vita e dai libri” e di non avere mai avuto vent’anni. “Li ebbi allora all’impensata – dice la voce narrante – in regalo da quell’estate, dopotutto m’erano dovuti”. Nella sua camera d’albergo il vecchio professore ritorna ad essere il trentenne di quell’estate del cinquantuno e rammenta, con nostalgia, quel breve periodo spensierato della sua vita; ricorda quei suoi “amori non corrisposti” che secondo lui “sono i più comodi”. “Maria Venera non provava niente per me? – pensava Gesualdo mentre si faceva la barba – Tanto meglio: me ne veniva una libertà senza limiti, i miei moti per lei non appartenevano a nessun altro che a me, potevo nella fantasia giocarmela e vincerla a gusto mio”. Come si fa a non provare simpatia per un tale personaggio, che sa scherzare con i sentimenti e ridere di se stesso! E poi c’era Assunta, Isolina, Flora, Ada, Corrada “la cassiera Adalgisa del cinema Splendor, sdegnosa, chissà dov’è…”. Tutte ragazze brune che si affacciavano allegre dai balconi del paese “fuggitive, ahimè, come gli anni…”. Ma l’amore – dice il nostro personaggio – “non ha nulla da spartire con un’idea di felicità. Salvo quando non è ancora giunto e lo aspettiamo dietro i vetri, coltivandone il vizio nella mente, e fiutandone da lontano il fiato come un allarme di primavera”.

Durante la narrazione, ogni tanto, l’autore smette i panni del suo personaggio Gesualdo, si sdoppia dalla voce narrante per diventare se stesso e rivolgersi al suo lettore, come quando scrive: “…hai visto lettore? Sfido che non t’è piaciuto, non piace nemmeno a me. Ma vedi, lettore, io non faccio nessuno sforzo per piacerti o piacermi, e tu mi devi capire: la mia passione divorante è la noia, mai mi diverto tanto come quando do fastidio e muoio di noia”. Caro Gesualdo Bufalino, ognuno si diverte come può; mi dispiace deluderti ma devi sapere, per quanto mi riguarda, che i tuoi sforzi per non piacere hanno sortito l’effetto contrario: mi sei piaciuto.
“Argo il cieco” è un libro la cui la scrittura prevale sulla trama e si allontana dal quel linguaggio omologato generato da una certa letteratura contemporanea e, soprattutto, dall’odierna società di massa veicolata, ormai in maniera esorbitante, dalla rete e dai social.

lunedì 29 ottobre 2018

L'arte: tra collezioni private e interesse pubblico

Burri:  Grande legno e rosso


Ho seguito in questi giorni, con vivo interesse, l’accesa controversia riportata da “il Fatto Quotidiano” tra lo storico dell’arte, nonché professore universitario Tomaso Montanari e l’estroverso critico d’arte Philippe Daverio, direttore di Art e Dossier, già assessore alla Cultura del Comune di Milano e noto personaggio televisivo. La disputa, se così si può chiamare, è nata dopo che la Presidente onoraria del FAI (Fondo Ambiente Italiano), Giulia Maria Crespi, ha deciso di far battere all’asta di New York, il prossimo 15 novembre, un famoso quadro di Alberto Burri il “Grande legno e rosso”, quadro di proprietà (da oltre 50 anni) della fondatrice del FAI, appeso sullo scalone monumentale della sua residenza patrizia risalente al XVII secolo, nel centro storico di Milano, anch’essa patrimonio culturale italiano.
Sono volate anche parole grosse che certamente non si addicono a personaggi abituati a parlare del “bello”. Il prof. Montanari sostiene che se l’Italia è quel grande contenitore di opere d’arte che tutto il mondo ci invidia, è perché lo Stato ha ritenuto che l’arte tutta - e quindi anche quella in mani private - fosse un bene comune da conservare e su cui vigilare. Secondo Montanari l’arte non può essere oggetto di speculazioni finanziarie tant’è che,  proprio per questo, esistono vincoli e limitazioni molto pesanti sulle opere artistiche ed architettoniche che appartengono a privati cittadini. Ciò significa – scrive Montanari - che “si è sempre pensato che fosse giusto e saggio far rimanere in Italia anche opere private che lo Stato non può sul momento comprare, ma che, in tempi lunghi, magari lunghissimi, finiranno col divenire pubbliche”. Va detto che se oggi è possibile la vendita all’estero di opere d’arte contemporanea è grazie ad una norma - introdotta dall'ex Ministro Franceschini - che liberalizza la circolazione delle opere – già sottoposte a vincolo - prodotte tra il 1947 e il 1967. Prima che venisse introdotta tale normativa - che Montanari si augura venga cancellata il prima possibile - si poteva far uscire dall' Italia tutto ciò che era stato dipinto solo dopo il 1967.

Cosa ribatte il simpatico e colto Philippe Daverio? Egli afferma che la fondatrice del FAI ha dedicato tutta la sua vita agli interessi dei beni culturali italiani e “che abbia poi deciso di vendere, forse per finanziare ulteriormente il suo impegno, un’opera d’arte contemporanea da lei acquistata a poco e oggi di valore alto, non solo è il suo diritto ma pure forse la gioiosa verifica del proprio intuito nell’avere individuato in Alberto Burri un talento emergente quando il resto della borghesia italiana era ottuso e acquistava opere altrettanto opache”. Daverio, insomma, ritiene che vendere opere contemporanee non impoverisca affatto il patrimonio artistico nazionale perché “la circolazione libera delle opere d’arte è pari a quella delle idee, dei libri e delle invenzioni che formano il tessuto di coesione delle società moderne e democratiche”. A sostegno di questa sua tesi egli dice che se i viaggiatori del Grand Tour non avessero acquistato le opere di Canaletto e di Bellotto, tanto per fare qualche esempio, mai questi pittori avrebbero avuto l’importanza e la fama che hanno oggi. Chi ha ragione? Montanari, che vuole cacciare i “mercanti” dal tempio dell’arte o Daverio che  si batte, invece, per la libera circolazione delle opere d’arte? Ai posteri l’ardua sentenza.

martedì 23 ottobre 2018

Leggere Proust: una sfida e un'impresa



Se c’è un libro che mi suscita un vero timore reverenziale e mi induce a pensare che, al suo confronto, tutti gli altri sembrano inferiori, ebbene questo libro è “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust. Io penso che non esista nel panorama letterario universale uno scrittore tanto amato quanto detestato come Proust. Se i suoi estimatori (e sono tanti) non fanno che esaltare la sua scrittura e il suo stile incomparabile, crogiolandosi nelle sue lunghissime, meticolose disquisizioni, i suoi denigratori (che sono altrettanti), lo considerano un pesante mattone prolisso e indigeribile che ti stordisce. Tra quest’ultimi và ricordato quell’editore che nel 1913 lo bocciò con queste famose parole: «Sarò particolarmente tonto, ma non riesco a capire come questo signore possa impiegare trenta pagine a descrivere come si gira e si rigira nel letto prima di prendere sonno».

Sette volumi con circa “9.609.000 caratteri, scritti in 3724 pagine” (fonte Wikipedia): un’opera monumentale. Uno dei massimi capolavori della letteratura di tutti i tempi, piaccia o meno. Per scrivere “Alla ricerca del tempo perduto” lo scrittore francese trascorse circa 13 anni della sua breve, intensa e – forse - infelice esistenza (dal 1910 fino all’anno della sua morte avvenuta nel 1922), relegato in una stanza foderata di sughero per isolarsi dai rumori e dalle “sirene” del mondo circostante, scrivendo di notte in dolorosa solitudine. Con un’abile combinazione di finzione letteraria e fatti autobiografici, Proust riportò in vita il tempo passato rendendolo ancora vivibile attraverso la “memoria involontaria”, quella che viene accesa all'istante da un odore… da un colore… da una parola… da un paesaggio… da una persona… da una sensazione. Scrive Paolo Pinto nell’introduzione al libro: “Nella Recherche, insomma, tutto è falso, e chi pretendesse di scrivere una biografia di Proust basandosi esclusivamente su di essa giungerebbe sicuramente ad esiti fallimentari; eppure è anche tutto vero, nel senso che non c’è emozione, sentimento, idea, personaggio dell’opera che prescinda totalmente dalla vita dell’autore”. Con la sua scrittura Proust è riuscito a scavare nell’animo umano come nessun altro, attraverso un viaggio a ritroso nel tempo, mettendo in risalto vizi e virtù di un mondo perduto: il suo mondo e quello della borghesia del suo tempo di cui era un degno e raffinato rappresentante. E chissà se tra quelle pagine non si nascondano anche aspetti della nostra esistenza e del nostro mondo interiore! Come solo i grandi scrittori sanno fare quando, pur raccontando sé stessi, parlano di noi.
Ho comprato, di recente, il bellissimo cofanetto edito dalla Newton Compton Editore contenente i sette volumi - finemente rilegati - di cui si compone l’opera di Proust, spendendo solo 20 euro (e poi dicono che i libri costano troppo!). Avevo già letto – e devo dire con difficoltà e con stupore – i primi due libri ( “Dalla parte di Svann” e “All’ombra delle fanciulle in fiore” ). Ora mi aspettano sullo scaffale della mia libreria gli altri cinque volumi: una sfida e un’impresa. La lettura di questo romanzo, inutile nasconderlo, risulta molto impegnativa, a volte faticosa, e richiede una dote invidiabile di pazienza. I periodi, come è nello stile di Proust, sono molto lunghi, articolati e complessi. Spesso bisogna ritornare indietro, rileggerli con calma e attenzione per comprenderne appieno il senso e coglierne le infinite  sfumature. Sono come quelle canzoni d’autore poco orecchiabili che non ti prendono immediatamente: hanno bisogno di un ascolto molto più lungo e attento per apprezzarle. Poi si fanno amare per sempre. Luoghi e personaggi dell’opera sono inventati, sebbene ricordino luoghi e persone legate all’esistenza del narratore: in primis la mamma, anzi la “mammina” e la nonna, le figure a cui l’autore era più legato. Poi i suoi vicini di casa, le donne di cui si innamorava, le persone aristocratiche che frequentava, i suoi amici…Questi innumerevoli personaggi, nel corso della narrazione, compaiono e scompaiono ripetutamente e spesso ce li portiamo dietro per pagine e pagine attraverso minuziose e a volte snervanti descrizioni. E’ un libro che lascia un segno profondo nell’animo perché ti sovrasta e ti fa sentire piccolo piccolo. C’è chi nemmeno osa affrontarlo, vista la mole; c’è chi lo rinvia a data da destinarsi, perché lo teme; c’è chi lo inizia e lo abbandona dopo poche pagine, affranto; c’è chi lo legge estasiato e poi lo rilegge, senza mai saziarsene; c’è chi lo porta a termine con fatica, però felice di esserci riuscito. Credo che nessun altro romanzo desti così tante reazioni tra chi ha un po’ di dimestichezza con i libri.

giovedì 11 ottobre 2018

Albert Camus e la "dolce indifferenza del mondo"



“Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so”. Inizia con queste stranianti parole il romanzo di Albert Camus “Lo straniero” (Bompiani Editore), un classico della letteratura. E’ la madre di Meursault, un modesto ed oscuro impiegato che vive ad Algeri nella più completa apatia verso se stesso e il mondo, il quale si trascina in uno stato di indifferenza, di solitudine e di estraneità. Neanche la morte della madre – notizia appresa dalla direzione dell’ospizio in cui da tempo la donna era ricoverata - riesce a rattristarlo, a scuoterlo dalla sua pigrizia mentale e corporea, a liberarlo da quella inerzia che sembra plasmare la sua mente, incapace com’è di avvertire qualsiasi sentimento di dolore. E la sua indifferenza sembra concretizzarsi subito dopo il funerale della madre allorquando afferma “tutto è stato così naturale, che non mi ricordo più niente”. Il dimenticare, quindi, scandisce inesorabilmente la sua esistenza; ma anche la noia del vivere, l’indifferenza verso il sentimento dell’amore nei confronti di una persona cara, il disinteresse verso quelle semplici azioni quotidiane vissute solo come abitudini consolidate senza alcuna responsabile consapevolezza. Le sue giornate sono piatte, prive di entusiasmo e di iniziative, senza molta partecipazione, anche quando si trova a vivere momenti di intimità “...l’ho baciata, ma male” oppure quando si appresta a trascorrere una giornata di festa “..mi è venuto in mente che era domenica e questo mi ha dato noia: la domenica non mi piace”.

L’atmosfera che si respira nel libro - attraverso il monologo interiore del protagonista - è sempre melanconica, direi rassegnata: è l’accettazione remissiva degli eventi che gli accadono, o meglio che gli scivolano addosso e lo allontanano sempre di più dalle cose e dalla vita. La narrazione procede quasi sempre in maniera lenta e intorpidita, che poi è la stessa tensione che anima il protagonista, tensione mista ad una forte incertezza che si manifesta anche nel rapporto amoroso che lui intrattiene con la sua donna: “mi ha domandato se l’amo - dice Meursault – le ho risposto che era una cosa che non significava nulla, ma che mi pareva di no”. L’apatia e l’indifferenza non lo abbandonano neanche quando uccide, per futili motivi, un arabo che nemmeno conosce: si lascia arrestare e si consegna impassibile al processo, evitando di difendersi e senza cercare giustificazioni al suo gesto. La sua filosofia di vita è che ci si abitua a tutto, anche alle situazioni più estreme che offre la vita come quella carceraria, e l’abitudine, appunto, sembra costituire la sua forza d’animo, la sua corazza protettiva nei confronti del mondo esterno e delle avversità dell’esistenza. “se avessi dovuto vivere dentro un tronco d’albero morto, senz’altra occupazione che guardare il fiore del cielo sopra il mio capo, a poco a poco mi sarei abituato – dice Meursault – avrei atteso passaggi di uccelli o incontri di nubi” così come nel carcere attendeva “le strane cravatte dell’avvocato” o come da cittadino libero aspettava pazientemente “il sabato per avere il corpo di Maria”. Anche il processo che subisce è la rappresentazione di una sorta di commedia dell’assurdo in cui, da una parte, i giudici sembrano accanirsi più sulla mancanza di qualità morali dell’imputato che sul reato per cui viene giudicato, mentre dall’altra, l’imputato -  che non aveva mai assistito ad un processo - diventa attore interessato ma passivo ed estraneo, senza avere la possibilità non solo di difendersi, ma di esprimere alcun parere al riguardo.

In questo contesto narrativo Meursault si configura come un lucido eroe di un assurdo destino, il quale di fronte alla condanna a morte si apre per la prima volta “alla dolce indifferenza del mondo” e si sente felice al pensiero che il giorno della sua esecuzione ci siano molti spettatori che lo accolgano “con grida di odio”. E’ un libro che fa molto riflettere – come tutti i grandi libri, piacciano o meno - un romanzo che scandaglia gli angoli più nascosti dell’animo umano. Da leggere assolutamente.

lunedì 8 ottobre 2018

L'amicizia tra un uomo e una donna



Di sera mi piace  saltare da un libro ad un altro, leggiucchiare di qua e di là, per non essere tentato dalla televisione. E così facendo mi è capitato di leggere l’opinione di due grandi pensatori del passato su un argomento molto interessante: l’amicizia tra un uomo e una donna. Il primo - il poeta e scrittore argentino Borges - scriveva che l’amicizia tra un uomo e una donna è sempre un poco erotica, anche se inconsciamente, mentre l’altro - Nietzsche - affermava che “un uomo può stringere legami di amicizia con una donna, ma per mantenerla è necessario il concorso di una leggera avversione fisica”. Borges - in altre parole - concede qualche spiraglio a tale sentimento, anche se velato da una inconscia attrazione fisica che può facilmente sconfinare e andare oltre, mentre il filosofo tedesco dice, in parole povere, che un uomo può avere una donna per amico solo se questa donna è brutta.
 
Insomma, i due grandi pensatori non mi aiutano affatto nel consolidare l’amicizia con una donna, non mi danno alcuna certezza, mi scaraventano nel dubbio e, a sentire loro, mi par di capire che io stia sempre in bilico, tra un attestato di stima per la mia correttezza nei suoi confronti - da una parte - e un eventuale ceffone, dall’altra, per avere sconfinato o per essermi avventurato in “esplorazioni” non consentite. E soprattutto non gradite. A parte gli scherzi e lasciando perdere ciò che pensano i filosofi del passato, ritengo che l’amicizia tra un uomo e una donna sia un sentimento alquanto contrastante e non facile da gestire, a volte carico di ambiguità, fatto di tentazioni represse e malcelate complicità. L’occasione può essere vissuta, tuttavia, come una sorta di amicizia “amorosa”; e se riesce a correre su binari regolari, senza coinvolgimenti fisici ed emotivi, la probabilità che possa durare per sempre è davvero molto alta. E’ chiaro, però, che il fattore puramente fisico nel rapporto uomo-donna esiste sempre, non si può negare; si sa che in natura i sessi opposti si attraggono, magari in senso univoco. Ricordo che quando lavoravo in ufficio avevo installato sul desktop del mio computer una bella madonna di Antonello da Messina, la quale più che “salva schermo” per me fungeva da “salva amicizia”. Infatti mi rivolgevo a quella immagine misericordiosa nei momenti in cui l'amicizia che mi legava alla mia collega di stanza, nei cui confronti non nutrivo alcuna “avversione fisica”, sembrava tentennare. E devo dire che tale amicizia dura tuttora, a dispetto di quanto sosteneva Nietzsche.

martedì 2 ottobre 2018

Consigli non richiesti...



“…Se volete salvarvi e salvare insieme a voi il vostro presente, il vostro futuro e quello di tutti, allontanatevi in punta di piedi dalle luci troppo violente dell’oggi. Non ascoltate mai il telegiornale: cade durante le ore del pranzo e potrebbe guastarvelo. Comprate soltanto un giornale, perché con un minimo sforzo di fantasia potrete immaginare tutti gli altri. Non leggetelo la mattina, quando le vostre forze ancora vigorose debbono inoltrarsi gioiosamente nel tempo, ma verso sera: o la sera dell’indomani, quando molti fatti vi sembreranno già morti, più vecchi di quelli che potreste leggere in un foglio di cent’anni fa. Cercate di abitare nella vostra casa come se abitaste nella tenda di un nomade: cercate di possedere come se non possedeste: lasciate cadere il succo delle vostre letture nel pozzo fruttuoso della dimenticanza; cancellate dalla vostra mente i pensieri che vi rendono ansiosi, perché soltanto una mente leggera può conoscere quella parte di felicità concessa ad ognuno dal caso, o dal << piccolo Dio, che ha creato qualcosa di tanto soave come le piante e gli alberi >>. Fate il vuoto attorno a voi, anche se vi chiameranno freddi ed egoisti. Come diceva un saggio: << Siate grati a chi non vi saluta quando vi incontra e a chi non chiede vostre notizie quando siete malato. Appena giunge la notte, siate felici della solitudine attorno a voi: felici di non vedere i visi degli uomini, felici di non udire le loro parole >> ”.
1975

Tratto da “L’armonia del mondo – miti d’oggi – “ di Pietro Citati

(Rizzoli Editore)

venerdì 21 settembre 2018

Un paese e le sue rovine



Ritorno ogni estate nel mio paese d’origine, nel Cilento. E’  l’abituale “viaggio non viaggio” che faccio tutti gli anni verso il luogo dove sono nato e dove ho vissuto fino a 19/20 anni. Un tragitto, questo, di poche centinaia di chilometri: inizia da Roma – dove vivo abitualmente da circa 40 anni – e termina in questo piccolo borgo di poche anime aggrappato ad una collina che guarda verso il mare. E’ il mio luogo dell’infanzia e della memoria. Il mio luogo dell’anima che conserva, come un salvadanaio, sentimenti e ricordi; un posto dove esistono ancora valori come la lentezza e il silenzio, cioè quei modi diversi di guardare la realtà che non appartengono ad una grande città come Roma. Questo rimpatrio genera in me sentimenti contrastanti: a volte mi sento come un emigrante che torna nel paese nativo per cercare l’antica identità; a volte mi vedo straniero nel paese in cui sono nato, perché non trovo più quei riferimenti che avevo lasciato; a volte avverto un senso di profondo spaesamento di fronte ai tanti cambiamenti che sono avvenuti negli anni; a volte mi sembra di non essermi mai allontanato da quelle antiche case in pietra, da quelle viuzze assolate, perché si può restare in un posto anche vivendo altrove. Quel luogo è come una parte del mio corpo che mi appartiene ed a cui io appartengo. E’ una sorta di protesi e racchiude un pezzo significativo della mia esistenza.
Scrive l’antropologo Vito Teti in un suo bellissimo libro che si intitola “Il senso dei luoghi” con sottotitolo “Memoria e storia dei paesi abbandonati” (Donzelli editore – pagg. 593): “…Ognuno di noi ha un luogo dove, ora con amore ora con disagio, ora con piacere ora con dolore, si sente a casa, o in quella che è stata la casa, un luogo, dove anche se se n’è allontanato, si sente a suo agio, sente il proprio corpo in maniera diversa. E’ una soglia e un confine, una siepe e un carcere. E’ tante cose ma soltanto a partire da quel luogo, da quella casa, da quelle sabbie, da quella strada, da quella ferrovia, da quel fiume, misuri il senso della tua lontananza, dei tuoi spostamenti, ripercorri la tua nostalgia e riacciuffi la tua memoria, o scarichi il tuo desiderio di oblio”. Ecco, io da quella stradina che si incunea tra le case di Melito, frazione di Prignano (questo il nome del paese), dove giocavo serenamente da ragazzo con i miei amici, da quella antica casa costruita in pietra ai primi del Novecento dove sono nato, da quella piccola chiesa dedicata a Santa Caterina che mi ha visto partecipare a lontane funzioni religiose, da quella Torre medioevale che tanto mi affascinava da bambino ispirandomi storie fantastiche,  insomma da quel paesino circondato da querce e ulivi, riacciuffo la mia memoria. Quella memoria che mi fa ritrovare l' infanzia spensierata fatta di giochi “poveri” finiti ormai nel dimenticatoio, che mi riporta agli anni adolescenziali, così diversi da quelli vissuti dai ragazzi dei nostri tempi.

Per fortuna Melito non è a rischio abbandono – come spesso accade in alcune zone del sud - tuttavia al suo interno esistono alcune case in rovina, disabitate (accanto a quelle abilmente ristrutturate nel rispetto del territorio), dal momento che gli antichi abitanti sono morti da tempo e gli eredi non hanno nessun interesse a ristrutturarle. Vengono spesso messe in vendita tramite agenzie, ma restano quasi sempre invendute e lentamente diventano dei corpi morti, pericolanti, estranei, che generano inquietudine e tristezza. Mi soffermo spesso ad osservare queste casette costruite con la pietra locale che ormai presentano il tetto sfondato e gli infissi cadenti: un tempo custodivano storie ed affetti, gioie e dolori e ogni volta il mio pensiero va a quelle persone conosciute, che un tempo le abitavano e che appartengono alla mia fanciullezza. Ai miei ricordi giovanili. Quelle case abbandonate, nonostante tutto, conservano una loro dignità e bellezza, continuano a parlare a chi le osserva attraverso le storie racchiuse tra quelle mura, più di quanto possa raccontare una recente e anonima costruzione, in qualsiasi luogo essa si trovi; quelle rovine ai miei occhi esercitano una sorta di attrattiva perturbante. Lo ammetto: mi assale un senso di nostalgia per quel tempo perduto. E questo sentimento diventa ancora più doloroso e straziante quando vedo proprio quella casetta in rovina che - per un breve periodo - fu abitata (in affitto) dai miei genitori. Sia ben chiaro: non è nostalgia del passato inteso come paradiso perduto (la vita, allora, era difficile). Ma è - come scrive sempre Vito Teti nel suo libro che mi ha tenuto compagnia durante le passate vacanze estive e che mi ha ispirato questa mia riflessione - "la nostalgia di quanti pensano che il tempo presente non debba smarrire la memoria del passato e che anche le macerie del passato servono per ricostruire …”. Perché la memoria definisce la nostra identità e senza la memoria del passato non possiamo costruire il futuro. 
Quando nel paese muore una persona anziana, si sente spesso dire: “un’altra casa si è chiusa”. Per dire che con la scomparsa di quella persona, finisce una storia, si estingue una famiglia conosciuta e apprezzata nel paese, si chiude definitivamente un’epoca. Ma il paese dei padri continua a vivere con i figli che sono rimasti o che ritornano – come il sottoscritto – nella casa avita; e continua a vivere anche con i nuovi abitanti che vengono spesso da lontano, i quali, pur non avendo alcun legame con il territorio, cercano faticosamente di integrarsi e fare paese. Come per dire che un vecchio paese muore un po’ alla volta mentre, con difficoltà, ne sorge uno nuovo.