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giovedì 26 ottobre 2017

E' tempo di olive



Tra tutti gli alberi presenti in natura, l’olivo è quello a cui sono più affezionato: una pianta di straordinaria e antica bellezza che accompagna da sempre la storia dell’uomo, fin dalle sue origini. Simbolo di pace, di fecondità, di resistenza, di unione familiare (le mie reminiscenze scolastiche mi riportano ai versi dell’Odissea e  a quel letto scavato nel tronco di un albero d’olivo che ornava “la maritale stanza” e rinforzava segretamente l’unione matrimoniale tra Ulisse e Penelope).
Dell’olivo mi affascina quel suo tronco attorcigliato e scanalato dal tempo, tanto che nell’osservarlo uno si chiede come possa stare in piedi e dare linfa ai suoi frutti; mi conquista la sua sorprendente longevità (ne esistono tantissimi plurisecolari, alcuni addirittura millenari);  e mi ispira, ogni qual volta lo guardo, un piacevole senso di pace, di forza e di arcaica saggezza. Confesso che quando mi trovo a camminare tra i miei olivi nel Cilento, alcuni secolari altri piantati dal sottoscritto solo una ventina di anni fa (ho ereditato da mio padre un piccolo terreno situato su una collina),  non mi stanco mai di ammirarli. Potrei stare lì delle ore in solitaria contemplazione, avvolto dal silenzio e protetto dalla loro imponenza. Quella vista mi commuove e mi rende felice. In tali occasioni mi viene sempre in mente quello che scriveva Giuseppe Dessì in un suo famoso romanzo ambientato nella Sardegna dei primi anni del ‘900, “Paese d’ombre”, a proposito di queste piante che sembrano sfidare il tempo ovunque esse si trovino, in Sardegna come nel Cilento:

“… erano simili a enormi pachidermi, con il loro tronco colossale, sproporzionato e gibboso (...) Il ragazzo camminava nell’oliveto silenzioso, e camminando contava gli olivi. A vederli dalla strada, sembravano tutti uguali; ora invece, per la prima volta, si accorgeva che erano diversi: avevano ognuno una fisionomia particolare, come persone. Se guardi da lontano la gente che affolla una piazza, o una processione che ti viene incontro, ti sembra che tutte le persone siano uguali: se invece ci vai in mezzo ti accorgi che si assomigliano, ma nella somiglianza sono diverse. Così era anche per quegli alberi di cui percepiva il silenzio, non come si percepisce il silenzio delle cose, ma come si percepisce il silenzio di persone che stanno zitte e pensano “. Forse solo un grande poeta potrebbe trovare parole più belle per descrivere quello che si prova camminando tra gli olivi.
Mi domando: ma esistono ancora in questa nostra società supertecnologizzata “persone che stanno zitte e pensano”? Guardandomi in giro (per strada, sui mezzi pubblici, nei locali…) vedo solamente persone che parlano ad alta voce con un telefonino o smanettano come indemoniati sui tasti del loro giocattolo più amato. Forse costoro non hanno mai visto un olivo, se non in fotografia; forse hanno paura del silenzio e non pensano, presi come sono a navigare in un mondo sempre più virtuale e lontano. Mi viene da pensare che oggi stanno zitti e pensano soltanto quei vecchi contadini ormai condannati a sparire, il cui corpo ricurvo, i cui volti bruciati e rinsecchiti dal sole, le cui mani nodose per il duro lavoro nei campi, ricordano proprio le forme irregolari di questo albero antico e meraviglioso: l’olivo. Credo che il contadino, nella sua accezione più vera, sia ormai una figura in via di estinzione; l’olivo, invece, l’unica pianta che davvero gli somiglia, con le sue nodosità ed i suoi tronchi contorti, con le sue belle foglie argentate, resiste al passare dei secoli ed appare come una presenza quasi umana, senza tempo. Eterna. E’ un autentico monumento naturale: andrebbe salvaguardato…studiato…osservato. Le scuole, di ogni ordine e grado, dovrebbero organizzare visite guidate negli oliveti e nei frantoi. Ognuno di noi dovrebbe provare - almeno una volta nella vita - a raccogliere manualmente le olive e seguire tutte le fasi della lavorazione. Vi assicuro che quando ci si arrampica su una pianta di olivo muniti di un piccolo rastrello per “pettinare” i suoi rami carichi di olive - che vanno poi a cadere su un apposito telo steso per terra intorno all’albero – si prova una intensa e bellissima emozione. E’ un’ esperienza umana unica, degna di essere vissuta, che ci rimanda a una dimensione della vita più semplice e genuina, lontana dal caos, dalla fretta, dalle macchine. Potersi, poi, portare a casa il proprio olio extravergine rappresenta il giusto coronamento di un percorso lavorativo, fonte di piacere e soddisfazione. Un modo per apprezzare ancora di più l’origine di quel gesto semplice e genuino che si perde nella notte dei tempi: versare un filo di olio di oliva (il nostro olio) su una fetta di pane.

domenica 8 ottobre 2017

Il silenzio delle cicale



Con il suo romanzo di rara bellezza che si intitola “Il silenzio delle cicale” (pubblicato nel 1981 da Garzanti editore), lo scrittore piemontese Gian Piero Bona (nato a Carignano 91 anni fa) racconta la storia della decadenza economica e morale di una ricca e nobile famiglia di origine austriaca - trapiantata in Italia - in un arco di tempo relativamente breve che va dal 1930 al 1950. E lo fa attraverso la voce narrante di un suo rampollo, Tristano Baumgrille, il quale, sulla soglia dei cinquant’anni - musicologo squattrinato in un caffè-concerto sulle rive del Danubio - ritorna dopo circa venti anni nel paese della sua infanzia, in quella sontuosa dimora in stile fascista (ormai di proprietà dello Stato) situata sul dolce pendio di una collina nei pressi di Torino, dimora che aveva visto l’ascesa e poi progressivamente la rovina dell’ illustre casata. La vicenda può essere inquadrata nel filone delle grandi saghe familiari, un genere letterario che annovera molti capolavori della letteratura: da “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa a “I Vicerè” di de Roberto, da “A Dio piacendo“ di  d’Ormesson  a “I vecchi e i giovani” di Pirandello.  Tanto per ricordare qualche titolo. Libri che ho letto e riletto nel corso degli anni, e sempre con rinnovato piacere.

Scritto con una prosa colta e raffinata, a tratti ironica e velata  di  malinconia, credo che “Il silenzio delle cicale” (oggi fuori catalogo) abbia avuto meno successo di quanto meritasse. I personaggi sono incredibilmente simbolici, rappresentativi di quella particolare classe sociale - borghese ed aristocratica - sempre al traino del potere dominante, che consumava la propria esistenza tra vaniloqui familiari inconcludenti ed insulsi, pranzi all’aperto, concorsi di bellezza per cani, vacanze nelle stazioni termali e partite di tennis…La caduta di questa famiglia – metafora del crepuscolo della borghesia europea all’indomani della seconda guerra mondiale - va vista non solo come la naturale conseguenza del disordine socio-economico dilagante in quel periodo, ma anche come mancanza di sentimenti morali da parte dei suoi rappresentanti.

L’unica figura che appare diversa, direi di autentica rottura rispetto ai personaggi descritti nel libro è proprio Tristano, “il poeta della famiglia”  (come veniva soprannominato), poco attento alla salvaguardia del casato di appartenenza, di cui ne evidenziava l’ipocrisia, troppo educato e sensibile rispetto all’ambiente circostante “cresciuto nella retorica della guerra e maturato nei disastri della sconfitta”, rinunciatario e perdente, “eccessivamente predisposto alla delicatezza della vita e alla bellezza del pensiero”, in forte contrasto con il cugino Italo, icona dell’uomo fascista, volgare ed ossessionato dai fucili e dall’enfasi della forza fisica, egoista e vanitoso. Nel suo viaggio di ritorno, in quella villa che non esisteva più così come lui l’aveva conosciuta, dove tutto era cambiato - quasi a voler rimarcare l’evidenza che nulla poteva sopravvivere al trascorrere lento ed inesorabile del tempo - Tristano ripercorre a ritroso il suo passato: si rivede adolescente, quando andava a giocare a carte nelle osterie con i contadini della zona e ritornava a casa “entusiasticamente ubriaco di rozzezza”,  nonostante sua madre lo riprendesse perché “comprometteva la dignità del suo nome in una taverna di ubriachi”; si rivede collegiale solitario, ossessionato dal peccato e studente modello destinato a un grande avvenire; si rivede maggiorenne alla sua prima visita in un bordello “annebbiato dal rimorso ardente non per il male in sé, ma per la sua ineleganza”; si rivede inadeguato e a disagio, prigioniero delle sue pene d’amore e del suo rapporto conflittuale con la madre, una donna frivola e falsa nei cui confronti provava un forte sentimento di ripugnanza, in contrapposizione al sentimento di pena che gli infondeva suo padre, il Colonnello Max Baumgrille, ma anche industriale, scrittore e politico fallito, sul cui volto poteva leggere “quel dramma coniugale che da trentacinque anni era sopportato in silenzio”, un uomo onesto e ingenuo che non sopportava la vanità del suo ambiente, che mal digeriva la dilagante industrializzazione e soffriva nel vedere i filari dei pioppi della sua terra falciati dalle prime costruzioni nucleari “le oscure strutture della stoltezza umana avanzanti”. Tristano è un personaggio colto e intelligente, così anomalo e raro nel panorama delle famiglie ricche e aristocratiche della società italiana del ventennio fascista, una figura scomoda che scandalizzava i salotti, osava intrattenersi con le persone più umili, indipendente e ribelle, quel tanto che bastava per sradicarlo dall’ordine borghese e dall’ottusità sociale. Ma è anche un uomo rinunciatario e pigro che viveva l’egoismo del suo mondo “con la maschera dell’indifferenza”,  che avrebbe voluto fuggire di casa, ma non riusciva, per la sua inettitudine, a staccarsi da quella villa, diventata con gli anni la sua tomba.

Attraverso i tanti personaggi che affollano il libro, Gian Piero Bona dipinge il grande affresco di una famiglia alla deriva, arroccata nei suoi antichi privilegi e avulsa dalla realtà, una famiglia alla ricerca disperata della propria sopravvivenza, che viene progressivamente divorata dai debiti e dalle difficoltà economiche, in un contesto storico di grandi rivolgimenti e trasformazioni sociali. Una famiglia che si estingue così come le cicale (Baumgrille, il nome di famiglia, vuol dire cicala) cessano lentamente di cantare.