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mercoledì 27 settembre 2017

Correre al parco



Negli ultimi tempi mi sono lasciato convincere da chi sostiene che una corsetta giornaliera, ma anche una camminata con andatura spedita per un’ora circa, aiuti a tenere sotto controllo pressione, peso, circolazione sanguigna e colesterolo. E così, persuaso da questi effetti benefici, sono diventato un assiduo frequentatore di un parco pubblico che si trova nelle immediate vicinanze della mia abitazione. Là ritrovo, tutti i giorni, un variegato campionario di casi umani - di ogni età, di ogni peso, di ogni misura - che si cimenta intrepidamente in attività sportive all’aria aperta:
c’è  chi porta a spasso, con nonchalance, i suoi 120 chili abbondanti con pancia incorporata, sforzandosi di apparire leggero e agile come una libellula;

c’è la signora che corre con il cane (e il cane sempre avanti), la quale con il fiatone lo chiama e lo redarguisce: Cesareeee, vai pianooo (lei si chiama Fuffi);
c’è il senzatelefoninosareimorto che, con un po’ di affanno, corre e parla ininterrottamente (… questioni urgenti e indifferibili) e c’è quello che il cellulare lo porta legato con una fascetta al braccio (non si sa mai…dovesse chiamare il Presidente degli Stati Uniti d’America!);

c’è chi si estrania dal mondo ascoltando musica con le cuffie (evidentemente non sopporta sentire i suoi passi, né la fatica del correre, né il gracchiare delle cornacchie che nel parco sono le padrone);
c’è il “campione” che ti supera altezzoso in velocità, e sembra volerti dire: levati di torno che mi intralci;

c’è il ragazzo giovane e bello, con la sua fidanzata giovane e bella, che vedendoti affaticato e a corto d’ossigeno ti guardano con apprensione, pronti a chiamare l’ambulanza;
c’è il letterato che legge il giornale camminando (la gazzetta dello sport, tanto per stare in tema), come se lui si trovasse nei giardini della scuola peripatetica di Aristotele;

c’è il temerario, che corre a petto nudo anche a 40 sotto zero, al contrario dell’eccentrico, che galoppa imbacuccato di tutto punto anche sotto il solleone;
c’è nun c’à facc’ cchiù che si trascina eroicamente pur di arrivare alla meta, erede del leggendario eroe greco Filippide;

c’è il perfezionista che consulta l’orologio (o il cronometro) ad ogni metro, alla disperata ricerca di battere qualche suo record personale;
c’è la signora di una certa età, di antica bellezza, che sfoggia la sua tuta coloratissima e griffata, interessata più al suo look che alla corsa;

c’è il gruppo di pensionati (età media 85 anni) che non sembrano avere problemi respiratori, tant’è che trotterellano allegramente interrogandosi sui grandi temi dell’esistenza: quest’anno la Roma riuscirà a vincere lo scudetto?
c’è il palestrato che con il suo fisico bestiale, tatuato a mò di carta geografica, sembra voler  irridere i poveri mortali;

c’è poi un simpatico personaggio - unico nel suo genere – che ha la bellezza di 96 anni (ha fatto la campagna di Russia nella seconda guerra mondiale) ed ogni mattina non può rinunciare a fare i soliti quattro passi, perché se mi siedo non mi alzo più: sinceramente, mi preoccuperei se un giorno non dovessi più vederlo;
e c’è, per finire, lo scrivente che corre (si fa per dire), sbuffa e osserva e si rispecchia nei volti sudaticci, affaticati e stravolti (ma felici) dei suoi compagni di corsa, illudendosi di dare smalto ed elasticità al suo fisico ormai malconcio.

lunedì 18 settembre 2017

"Quel che resta" : il felice connubio tra rovine e bellezza



“l’inizio di un luogo è legato spesso alla fine di un altro”

“Ho cominciato a raccogliere memorie di luoghi abbandonati, in via di abbandono, a rischio spopolamento e svuotamento quaranta anni fa”. Così l’antropologo calabrese Vito Teti inizia “Quel che resta – l’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni” (Donzelli editore), un bellissimo libro che si colloca tra il saggio antropologico e il romanzo, il diario intimistico e il reportage. “I grandi antropologi – scrive Claudio Magris nella prefazione del libro – sono insieme storici, archeologi che scavano nello spazio e nel tempo, nel passato e anche nel presente, e per questo sono, nel senso forte, dei poeti”.
Io credo che sia davvero raro trovare, nel firmamento letterario dei nostri tempi, un’opera così appassionante che sappia fondersi tra analisi storico-antropologica e poesia, sentimento e ragione. Con questo suo libro Teti riesce a toccare le corde più sensibili del nostro animo: ci fa commuove e riflettere sul senso della vita e della morte e su “quel che resta”: di esperienze passate, di tradizioni, di storie, di legami, di memorie, di paesi che si spopolano e muoiono. E lo fa attraverso un racconto a tratti autobiografico, intriso di malinconia e di poesia, un viaggio tenero e affettuoso nell’Italia “dei paesi, tra abbandoni e ritorni”, come recita il sottotitolo. I paesi abbandonati, la case chiuse che custodiscono le memorie degli antichi abitanti, le rovine che restano a testimoniare un antico passato “possono continuare a vivere – scrive l’autore - soltanto attraverso la letteratura e la scrittura. Gli oggetti, i materiali, le cose, le parole del mondo perduto e sommerso rivivono, almeno per un attimo, nel momento in cui vengono nominati”. Perciò, fino a quando ci sarà qualcuno che ricorda un paese e mantiene viva la sua memoria, ne ricostruisce la sua storia, quel paese non scompare del tutto. E continua a vivere.

I resti di città e monumenti, che assurgono a testimonianza di antiche civiltà, hanno sempre esercitato su di noi fascino e attrazione e, almeno a partire dal Settecento, è difficile immaginare la bellezza in modo separato dalle rovine. L’autore del libro fa notare che sempre più spesso le rovine del passato convivono con le rovine/macerie del presente, quest’ultime provocate dal passare del tempo, dall’incuria dell’uomo, ma anche dalle calamità naturali: come quelle case costruite con chissà quali speranze e troppo in fretta abbandonate, oppure come quelle nuove costruzioni in cemento, a più piani, lasciate incompiute che finiscono per deturpare in maniera violenta il paesaggio o come quelle vecchie case di paese diventate ruderi a seguito della morte degli originari proprietari, ma anche a seguito della loro partenza verso paesi lontani. E come dimenticare, poi, le macerie di interi paesi distrutti dal terremoto, che stanno lì a testimoniare la furia devastatrice del sisma e soprattutto le tante, troppe, vite spezzate. Certo, bisogna sempre distinguere tra macerie e rovine: le macerie non parlano, sono “un puro ingombro, vuoto a perdere”, le rovine, al contrario, ci ricollegano “a un tempo passato che dura nel presente...possono rappresentare memoria, ma anche vita, diventare elementi di un diverso sentimento dei luoghi”. Ma sono soprattutto le case abbandonate che hanno la forza di stabilire “collegamenti tra coloro che sono rimasti e coloro che sono partiti”. E coloro che sono partiti rappresentano la ragione principale dello spopolamento di un paese, nella Calabria raccontata da Teti così come in qualsiasi altro luogo dell’Italia. Con l’emigrazione di massa degli anni passati - che ha interessato soprattutto le regioni meridionali - intere comunità si sono frantumate e disperse dando origine in territori lontani (Americhe, Francia, Germania ecc.) a “paesi doppi”, i sosia dei paesi d’origine. Una sorta di dilatazione del luogo nativo. Muoiono i vecchi paesi e rinascono in altre terre. Da qui – secondo Teti – è nata la malinconia, intesa come “sentimento e condizione dell’uomo errante, sradicato, esiliato, come manifestazione di nostalgia autentica e non retorica dell’individuo che abbandona, per necessità o per scelta, la casa, l’universo d’origine”. E quando si torna – ma forse si parte per non ritornare mai - tutto è cambiato e niente è più come prima: in primis la casa, che se non è stata venduta o ristrutturata, appare come un rudere, è circondata dai rovi, è irriconoscibile. Colui che si è spostato e colui che è rimasto nel posto si percepiscono l’uno come ombra dell’altro.
E’ un libro che fa riferimento a tantissimi altri testi di storia e di antropologia e “dopo averlo letto – scrive Magris – si sta un po’ meglio, ci si sente meno smarriti di fronte all’andirivieni delle cose, del mondo, di noi stessi. Non è un dono da poco”. Per concludere, vorrei dire che io non ho la pretesa di consigliare a qualcuno i libri che leggo. La lettura è sempre personale, legata al nostro modo di essere, alla nostra cultura, alla nostra sensibilità. Tuttavia, se proprio dovessi farlo in questa occasione, consiglierei la lettura di “Quel che resta” a tutti coloro che sanno cogliere la bellezza struggente che evoca l’immagine sotto riportata e sanno riconoscere quel filo sottile che lega le rovine alla caducità del tempo, che tutto modifica. Meno l’anima, che comunque resta e si percepisce nell’osservare sia le rovine dell’antichità che quelle del presente, la maestosità di un tempio dell’antica Grecia come l’arcaica bellezza di una vecchia casa in pietra abbandonata e intrisa della vita delle persone che l’hanno abitata e posseduta.
Roscigno vecchia (SA)
 

mercoledì 6 settembre 2017

Ceronetti e il suo viaggio nell'Italia invisibile



“Quella che vedo e vado percorrendo è un’Italia ormai completamente stravolta, sfigurata e priva di senso”

“La gamba ancora inferma, e troppi libri nella valigia. Il bagaglio mi pesa, qualcuno dovrebbe portarmelo, apparendo e sparendo al momento giusto. Prenderò treni, corriere, taxi; andrò a piedi”. Questo l’incipit di “Un viaggio in Italia”, intrapreso da Guido Ceronetti oltre 30 anni fa (tra il 1981 e il 1983), su richiesta dell’Editore Giulio Einaudi - che di recente ha ristampato il libro – il quale conosceva molto bene lo stile pungente del suo conterraneo. Quello di Ceronetti, è un vagabondaggio senza una meta precisa in lungo e in largo per l’Italia degli anni ‘80, attraverso grandi città e piccoli paesi di provincia, alla scoperta di piazze, monumenti, chiese, musei, con un’attenzione particolare a quei luoghi marginali come i cimiteri e gli ospedali, le case di cura e le carceri, le stazioni ferroviarie e i manicomi, i locali pubblici e le zone industriali. E’ soprattutto il racconto di quell’Italia non riportata nelle guide turistiche, che non appare nelle cartoline illustrate; quel Paese invisibile, poco conosciuto, che esiste ma che a volte viene nascosto oppure visto diversamente da come si presenta. Questo suo reportage è una sorta di diario sui generis affollato di pensieri, riflessioni corrosive sui costumi degli italiani, epitaffi funerari intravisti nei cimiteri, scritte rilevate sui muri dei luoghi visitati, sui manifesti pubblicitari, nelle sale d’aspetto delle stazioni. E’ una lunga e graffiante denuncia di brutture urbanistiche, di degrado e devastazioni ambientali susseguenti al boom economico, ma è anche un elenco di volgarità comportamentali che feriscono e indignano l’autore.
Ceronetti  inizia questo suo originale viaggio da Trieste “che non ha voglia di riprodursi, abortisce molto…e che di notte è un po’ Calcutta, sommersa dalla carta sporca” per colpa soprattutto degli Slavi. Vede, poi, una Genova “tristemente sfigurata…e quella che stanno progettando sarà bruttezza infinita”. Fino a Voltri “tutto è incubo industriale”. A Pavia trova una città deserta e resta sbigottito nel conoscere il motivo che la svuota: sono tutti davanti al televisore a guardare una partita di calcio della nazionale. A Milano “niente è bello, eccetto il castello. Questo simbolo della pura forza è l’unica immagine di gentilezza che la città conservi. Antenati bruti, ma spirituali”. Assiste a comportamenti di “bestialità pura” in Piazza della Scala dove una banda di giovinastri “tra gli sghignazzamenti” prende a calci un povero piccione che non riesce a volare. Nota che a Firenze “il rumore di motori è sempre più intollerabile, la sua escandescenza più persecutrice”. Ma Firenze è anche “un luogo arcano, un’arcana conca spirituale”. Trova delizioso il vecchio albergo Universo di Lucca, dove lui si può abbandonare “al piacere di essere triste”. E, sempre a Lucca, visita il vecchio ospedale in abbandono dove gli sarebbe piaciuto fare il medico “tra i busti e le crepe, avviluppato nel grande lenzuolo della sofferenza umana, prescrivendo pochissimo, tisane e qualche cardiotonico, aiutando a morire bene, con poco dolore, gli incurabili, chiudendo finestroni, rincalzando coperte, leggendo poesie ai più intelligenti”. Palladio, a Vicenza, non gli piace perché “privo di anima” e poi “gli raggela il cuore”. Esplora poco il Mezzogiorno perché – scrive – “non mi adattavo al suo vivere, lo scempio era già troppo avanti”. Però trova tempo, modo e parole per farsi sentire e, forse…per farsi odiare. Scrive, infatti, che Napoli “è uno dei peggiori luoghi d’Italia”. Ma, tanto per capirsi, lui non ce l’ha solo col meridione d’Italia perché “tutta intera questa nazione non è più che uno sbubbonare di tante Napoli, che se anche non sanguinano come Napoli, ne riproducono sintomi, crolli, abbrutimento”. Visita Salerno, la cui bruttezza “è deprimente”. Invece la bruttezza di Messina è “diffusa bene, come un cancro”. E mentre a Catania “la gente usa le strade con inciviltà spaventosa, dove non c’è di bello che quel che è in sfacelo”, i paese etnei “sono orribili aggressioni di geometri deliranti, incrostazioni di rogna sulle pendici sublimi”. Annota, nel suo peregrinare per la Sicilia, che il paesaggio dell’isola “velato dalla pioggia è di un’irraggiungibile bellezza; perde con il sole”. Si consola con la bellezza di Noto che è “accecante”. Aci Trezza, invece, è “un lebbrosario edilizio, un luogo sciagurato”. E scappa a precipizio da Taormina, soffocata dal turismo di massa “che non è la presenza di qualcosa, ma la privazione a pagamento di tutto”. Nei pressi di Augusta resta affascinato da una visione bucolica: “un solitario aratore affondava l’erpice tirato da due magnifici cavalli bruni in un piccolo campo. Era certamente conscio – scrive Ceronetti – di essere, col suo campetto e i suoi cavalli da Iliade, condannato a sparire, eppure arava, con pazienza, con disprezzo, con umiltà, con sapienza. Un Dio in incognito, un Dalai Lama in esilio, un simbolo, o semplicemente un uomo forte e tranquillo. Non sapeva che quel suo erpice è una spada, che il luogo dove arava ha il segreto nome di Termopili”. Visitando Reggio Calabria, non riesce a sopportare la bruttezza delle sue strade “la via centrale, interminabile, americana, non arriva in nessun posto”. E non poteva mancare la visita ai Bronzi di Riace “che sono divorati da una folla insaziabile” che non si stanca mai di ammirare quei glutei “sublimi” capaci di ridestare “anche le nostre vecchie chiappe malaticce…Un’industria prospera su di loro, se ne vendono le immagini a migliaia di migliaia”. E che dire, poi, dei calabresi: a suo dire hanno tutti una faccia concentrata e “sembrano, anche non pensando, una nazione di filosofi”.

Ha parole durissime nei confronti del suo prossimo e delle persone che incontra durante il suo girovagare. “Vorrei non avere più niente in comune con l’uomo – afferma - essere un puro pensiero che ne ignora la miseria e la figura. Vendicarsi di lui col silenzio, col rifiutargli la parola”. E ancora: “Sto su un bel tappeto di muschio, tra le cicale, di qua e di là ho soltanto montagne. La felicità è di non vedere esseri umani, una tregua al bisogno di servirsene e di servirli”. Sostiene che il popolo italiano “dopo tanta storia, è più che mai rincretinito…non c’è un vero cittadino in queste città, come non c’è un vero spirituale in questo paese cristiano”. Se la prende anche con la cucina italiana “fatta di scarti, senza più idee, misurata sul gusto indecente del turista-di-massa”. Pensate: lo dice uno che è vegetariano. Per la cena di San Silvestro, si trova a Siena, mangia nella camera d’albergo: “miglio e zucca, finocchio crudo, ricotta con confetture di castagne, cavallucci di Siena, olive, poi tisana di eucalipto, mentre fuori tutti addosso ai ravioli e alle povere bestie massacrate per festeggiare, tra nuvolaglie di fumo e stappamenti di micidiali bottiglie”.
“Mio Dio – scrive Ceronetti, evidentemente in un momento di sconforto - quant’è brutta l’Italia! Di bellezza restano poche, assurde tracce: beato chi le ritrova e le segue, fuori di questo mondo”.

Un libro cinico e appassionato con cui riflettere, con pagine memorabili di sferzante ironia, scritto con intelligenza da un grande intellettuale dei nostri tempi, che probabilmente fa storcere il naso a tante persone. E’ una sorta di excursus nel variegato pensiero dello scrittore piemontese, che ho imparato a conoscere attraverso la lettura di qualche suo precedente libro; è, per finire, il solito controverso Ceronetti - oggi novantenne - senza peli sulla lingua, sempre disorientante e catastrofico, colto e divertente, pungente e arguto, che usa la penna come fosse una frusta. Tanto da apparire irriverente, razzista, irritante, provocatorio, antipatico.