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venerdì 18 agosto 2017

Cilento: ritorno alle origini



“Un paese ci vuole – scriveva Pavese – non fosse che per il gusto di andarsene via”. E per il gusto di ritornare, mi permetto di aggiungere. Infatti, ogni estate ritorno nel mio paese nativo, nel Cilento, dal quale andai via tanti anni fa, per motivi di lavoro. Si chiama Melito (frazione del Comune di Prignano)  ed è un piccolo borgo di poche anime. Adagiato sul pendio di una collina tra querce, olivi e vigneti, si affaccia sul mare di Agropoli e, dall’alto dei suoi 415 metri, mi offre in lontananza una vista straordinaria: l’isola di Capri e la Costiera Amalfitana. Questo ritorno mi riporta, ogni volta, agli anni della mia infanzia e della mia giovinezza. Ma oggi tutto sembra cambiato e niente è più come prima: le persone che incontro, le case, il paesaggio, i rapporti di amicizia e le atmosfere proprie del luogo. L’identità stessa del paese mi appare stravolta. E’ come se quel villaggio che mi ha visto crescere mi sfuggisse di mano - se così si può dire - e non mi riconoscessi più nelle sue pietre, nelle sue strade, nei suoi angoli più nascosti e caratteristici, nella sua gente. Insomma, è come se avessi difficoltà a sentirlo mio, come mi accadeva una volta, e questa condizione mi rende spaesato ed esiliato nella mia terra.
Gente nuova, spesso proveniente da paesi lontani, ha preso il posto dei vecchi abitanti ormai scomparsi e dei loro figli, che hanno scritto la storia del paese e che fanno parte dei miei ricordi giovanili, della mia vita passata. Nuove costruzioni si sono appropriate di lembi di collina dove rigogliosa si estendeva la macchia mediterranea, oscurando scorci panoramici di rara bellezza. Incendi dolosi si ripetono ad ogni estate, devastando boschi e campagne circostanti. Il cemento avanza inesorabile, con le sue moderne costruzioni che spesso mal si adattano al territorio,  mentre vanno in rovina o risultano abbandonate molte di quelle vecchie casette in pietra, mute sentinelle del passato. E con loro finisce un’epoca, si chiude una storia familiare, un passato ricco di ricordi, un mondo di tradizioni contadine. E osservando, poi, la stradina che si incunea tra le case del paese (dove giocavo spensieratamente da ragazzo con i miei amici), completamente invasa dalle macchine; e le case chiuse dove abitavano persone che io conoscevo e che in qualche maniera erano parte della mia vita; e quello spiazzo dove tiravo calci ad un pallone su cui hanno costruito delle villette a schiera, occupate soprattutto nei mesi estivi; e le strade che collegano il borgo al resto del territorio diventate, vergognosamente, una discarica in itinere, lungo i cui bordi si può trovare di tutto e di più; ebbene, osservando tutto ciò, non posso che provare un profondo senso di tristezza.
Un mondo si chiude e se ne apre un altro. Devo dire che con queste mie amare riflessioni non voglio invocare un periodo storico scomparso, non desidero ritornare al passato né rimpiangere quel paese che fu, ma auspicare invece un diverso modello di sviluppo, una diversa sensibilità civica e ambientale nei confronti delle cose e del territorio, una migliore riqualificazione urbanistica nel rispetto delle leggi e del decoro. Credo che un “paradiso” di cui avere nostalgia non sia mai esistito nel Meridione ed in modo particolare nel Cilento. Né allora né oggi. Ho avuto il privilegio di vivere, insieme ai miei coetanei, la fine di una civiltà - quella contadina, ancorata alla sua filosofia di vita semplice e naturale ed alle sue tradizioni - ed il passaggio ad una nuova era di cui non conosco ancora bene i contorni e gli sviluppi futuri. E’ una società, questa in cui viviamo, che va di fretta e tende a distruggere la memoria del passato, in nome di una modernità che non sempre è connessa ad una migliore qualità della vita.
Sappiamo bene che il paese cambia nel corso degli anni e con esso le persone che lo abitano. Le vecchie generazioni, nate nel paese ed ivi rimaste nel corso degli anni, legate agli usi ed ai costumi tradizionali, lentamente si estinguono, mentre i giovani del posto, compresi coloro che arrivano da altri luoghi, anche stranieri, non sembrano nutrire particolari legami affettivi con il territorio in cui vivono né tantomeno con le storie del recente passato. Secondo gli osservatori, nell’epoca della globalizzazione, il paese – quale microcosmo comunitario di relazioni umane – va scomparendo progressivamente. Ed al suo posto si va affermando un luogo sempre più massificato, senza anima e senza memoria. Ma un paese ci vuole – e ritorno nuovamente a Pavese – perché “un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. E per questo io ritorno.