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domenica 30 luglio 2017

Le 10 cose che detesto



1.     Le scritte e i graffiti di qualsiasi genere sui muri dei palazzi, sui monumenti e sui treni della metropolitana, che rendono la città in cui vivo sporca e degradata;

2.     L’ostentazione di certi comportamenti (girare in città con il suv… parlare ad alta voce con il cellulare nei luoghi affollati e per strada… i tatuaggi su tutto il corpo a mò di carta geografica);

3.     La pubblicità, visiva e cartacea, che invade qualsiasi luogo pubblico e privato;

4.     I politici (e sempre gli stessi) che pontificano in televisione, saltando da una trasmissione all’altra;

5.     Chi abbandona rifiuti ingombranti lungo i marciapiedi;

6.     Gli elegantoni che in estate girano per strada indossando pantaloncini corti, infradito e canottiera (ridicoli, indecenti, inguardabili);

7.     I perditempo che stazionano perennemente davanti a quei bar di periferia, fumando, sputando per terra e parlando di calcio;

8.     Il traffico, i rumori molesti, come quel signore fermo al semaforo che ti suona il clacson appena scatta il verde, oppure quell’altro che va avanti e indietro per il quartiere, con i finestrini abbassati e lo stereo a tutto volume;

9.     I padroni dei cani che non raccolgono gli escrementi dei loro amici a quattro zampe;

10. La gentile signora, vicina di ombrellone, che nasconde nella sabbia la sua cicca di sigaretta, cerchiata di rossetto, a mò di ciliegina sulla torta.

venerdì 21 luglio 2017

Le anime morte



Le anime, nella Russia dell’Ottocento, erano i servi della gleba, cioè quei contadini  che venivano assoldati dai ricchi proprietari terrieri. All’epoca, la terra che lo Stato affidava ai notabili era commisurata al numero dei servi della gleba annoverati alle loro dipendenze, sui quali i proprietari terrieri erano tenuti a corrispondere una imposta pro capite. L’imposta veniva calcolata in occasione di ogni censimento - che di solito si verificava ogni 10 anni - per cui se nel frattempo alcuni di questi contadini morivano, il proprietario terriero era comunque obbligato a corrispondere l’imposta dovuta su queste “anime morte”, fino al censimento successivo che certificava l’avvenuto decesso.

“Le anime morte” di Nikolaj Gogol (Garzanti editore) disegna un grande affresco della società rurale e contadina della Russia ottocentesca, vista attraverso gli occhi di Pavel Ivanovic Cicikov, il protagonista del romanzo. Questo personaggio è un affarista spregiudicato e senza scrupoli, un navigato truffatore, alla continua ricerca di potere e di ricchezze, che viaggia in lungo e in largo nella Russia zarista comprando per pochi rubli “anime morte”. E lo fa attraverso finti contratti di compravendita, al fine di ottenere agevolazioni, benefici e terre dalle autorità governative, in virtù del possesso di un numero considerevole di finti contadini. Con modi seducenti e con adulazioni nei confronti dei suoi interlocutori, riesce in breve tempo ad instaurare rapporti amichevoli con i potentati della città in cui si stabilisce, al fine di poter raggiungere i suoi obiettivi economici. E’ un abile millantatore, Cicikov, e riesce a produrre un’impressione positiva anche nelle donne della buona società cittadina, grazie alle sue buone maniere e alla diceria che si portava dietro, cioè di essere un uomo molto ricco, un “milionario”. E le mogli dei dignitari locali - delle cui qualità morali l’autore ha grandissime difficoltà a parlarne, preferendo discettare, invece, del loro modo di vestire, delle loro capacità di rispettare l’etichetta e le convenienze - si lasciano facilmente attrarre dalle ricchezze e dal potere. L’ipocrisia che lo scrittore nota nelle donne aristocratiche, la osserva anche nei lettori che appartengono all’alta società e in quegli individui che dell’alta società credono di far parte, in virtù delle parole francesi e inglesi che sfoggiano con la giusta pronuncia, arrotando la erre come i francesi o facendo la bocca a “culo di gallina” come gli inglesi.

Con una descrizione minuziosa e con una prosa piacevole e sempre ironica e sferzante, Gogol ci presenta una variegata umanità fatta di notabili altolocati e provinciali, di funzionari, di impiegati ma anche di gente umile, tutti rappresentativi della realtà cittadina, burocratica e rurale della Russia degli Zar. Un posto importante nella narrazione occupano i vari proprietari terrieri, cui si rivolge Cicikov per comprare le anime morte, personaggi “difficili da ritrarre” - dice l’Autore - “signori di cui è pieno il mondo, che sembrano tutti simili gli uni agli altri” . C’è quello che emerge per i suoi modi eccessivamente ossequiosi e deferenti, il quale inizialmente appare gradevole all’interlocutore, per rivelarsi, poi, superficiale e noioso. C’è poi l’uomo rozzo, grossolano che somiglia ad un orso nei modi e nell’aspetto, molto attento, però, ai suoi affari, che disprezza tutti coloro che occupano posizioni importanti nella gerarchia statale. Non manca, in questa carrellata di personaggi, il prototipo universale dell’avaro, unico guardiano e custode delle sue ricchezze il quale, pur essendo ricchissimo, conduce una vita misera, alimentata inesorabilmente dalla sua insaziabile avarizia. E come dimenticare, infine, lo spaccone esibizionista, amante della baldoria, dei balli e dei convegni mondani, appassionato di scommesse e di carte, baro, sbruffone e bugiardo, quel soggetto che non scomparirà mai dal mondo, che sarà sempre presente in mezzo a noi, in qualsiasi epoca lo si voglia collocare.

Gogol è veramente sorprendente nel presentarci l’uomo nelle sue quotidiane contraddizioni e aberrazioni, nelle sue passioni e nella sua fragilità, ma anche nelle sue miserie quotidiane e nei suoi vizi; ci descrive il perbenismo, la meschinità e la vanità  dell’animo umano, tratteggiando dei personaggi che, a seconda delle circostanze della vita e sempre per un proprio tornaconto personale, sanno essere forti con i poveri ed i diseredati e deboli con i ricchi ed i potenti, attraverso tutte quelle gradazioni e sfumature del linguaggio, dei gesti e del comportamento che rivelano - di volta in volta – da parte degli stessi, alterigia e arroganza, servilismo  e cortigianeria. Gogol è un grande osservatore, si dimostra prodigo di pungenti ed ironiche osservazioni e descrizioni degli ambienti rurali, ma a volte si ha l’impressione che l’autore voglia trasmettere al lettore anche sensazioni di disgusto e di ribrezzo che si provano di fronte a certe aspetti della realtà. Così, nel descrivere  alberghi e bettole di periferia, fa notare che “per due rubli al giorno i viaggiatori hanno diritto a due metri di cameretta e agli immancabili scarafaggi che come prugne secche fanno capolino dappertutto”, e che le pareti delle stanze adibite a sala da pranzo sono di solito “verniciate a olio, annerite in alto dal fumo e lucidate in basso dalle schiene degli avventori di passaggio”, oppure nel raffigurare il disordine e la sporcizia di una stanza, ritiene significativo far sapere al lettore che “il padrone aveva lasciato sul tavolo uno stuzzicadenti completamente ingiallito con cui si era forse frugato tra i denti prima dell’ingresso dei Francesi a Mosca”.

Con questo libro Gogol riesce a cogliere sapientemente lo spirito dell’epoca in cui è vissuto, ma si dimostra anche un attento studioso dell’animo umano quando afferma che “fino a quando la gente non si preoccuperà della propria ricchezza interiore, smettendola di occuparsi delle cose per le quali ci si azzuffa e ci si sbrana qui sulla terra, non ci sarà nessuna ricchezza e nessun benessere terreno”.

venerdì 7 luglio 2017

Schiavi del telefonino



In questa nostra società - dominata dai social network, dai telefonini sempre accesi e connessi e dai format televisivi dove uomini e donne esibiscono e spettacolarizzano senza alcuna vergogna i propri sentimenti, mettendo in piazza la propria vita intima e privata – si avverte sempre più forte un bisogno di visibilità sociale. Tutto ciò ci fa riflettere su quanto gli individui, oggi, si sentano isolati e vogliano uscire dall’anonimato in cui sembrano ingabbiati. Il telefonino - ma ormai è riduttivo chiamarlo così - è certamente il principale strumento tecnologico attraverso il quale si cerca di colmare il vuoto esistenziale per non sentirsi soli e abbandonati. Dovunque ci troviamo – per strada, sui mezzi pubblici, nelle stazioni, nei ristoranti, nei cimiteri, nelle chiese, nei centri commerciali, lungo i sentieri di montagna – non vediamo altro che persone con lo sguardo chino su uno schermo. Siamo contemporaneamente spettatori e concorrenti di una sorta di gara a chi ce l’ha più lungo (lo smartphone), più bello, più tutto; assistiamo e partecipiamo ad una estenuante esibizione di conversazioni e di chiacchiere ad alta voce, le più varie, le più insignificanti; siamo deliziati da un incalzare di suonerie le più stravaganti, mentre si smanetta su uno schermo alla ricerca continua di notizie, video, pettegolezzi sulla vita degli altri, eternamente connessi con un “altrove” che allontana dal presente e da quello che succede intorno a noi.
Siamo schiavi della tecnologia e della necessità di essere sempre contattati e rintracciabili, condizioni queste che restringono la nostra libertà di movimento e di pensiero: dobbiamo sempre giustificarci se non rispondiamo ad una telefonata o se teniamo il cellulare spento. Se poi - pur avendo il telefonino sempre acceso - non ci chiama nessuno (mentre tutti gli altri intorno a noi stanno al telefono) - ci lasciamo prendere dallo sconforto e dalla malinconia. E allora, per soddisfare quel bisogno di sicurezza, per sentirci vivi, per ripristinare quel contatto continuo con qualcuno e con il “mondo”, e per non sentirci abbandonati, facciamo il primo numero che ci capita, anche se non abbiamo nulla da dire. Pronto? Dove sei? E immediatamente spunta il sorriso sulle nostre labbra. Ci tranquillizziamo.

Non conosciamo più l’attesa e non abbiamo più il tempo di elaborare una risposta meditata. Dobbiamo sempre rispondere con urgenza, in qualsiasi momento ed in qualsiasi situazione. Tutto è diventato terribilmente improrogabile. Con un telefonino in mano possiamo comunicare, contemporaneamente, con un interlocutore lontano e con tanti vicini che ascoltano. E’ una protesi che indossiamo ogni mattina, appena svegli. E’ la droga del terzo millennio. E come tutte le droghe, genera dipendenza. Abbiamo paura di essere tagliati fuori da questa comunicazione continua e incessante, andiamo in fibrillazione quando lo dimentichiamo o temiamo di averlo perso. E poi quella smania di controllarlo continuamente in cerca di notizie, messaggi, chiamate perse, pagine facebook…Non vengono risparmiati neanche i bambini da questo uso indiscriminato. Una volta - i nostri figli, i nostri nipoti - cominciavano a prendere coscienza del mondo e ad instaurare relazioni affettive con un orsacchiotto di peluche, con un trenino, con una bambolina: oggi hanno lo smartphone già alle elementari e si chiamano tra di loro per comunicare.

Spero che il telefonino, nel prossimo futuro, non provochi nuove malattie, ma io penso che già da ora contribuisca ad accrescere le patologie che uno già possiede, le evidenzia e le fa conoscere a tutti. Con un telefonino in mano abbiamo l’illusione di poter risolvere qualsiasi problema e la pretesa di poter controllare i nostri familiari, i luoghi che frequentano, gli spostamenti che effettuano durante la giornata. Intanto la nostra capacità di gestire l’ansia si va progressivamente indebolendo: si cade in preda al panico se il telefonino resta muto per molto tempo, o se la figlia, che è uscita con gli amici, non telefona da più di mezz’ora.  In compenso cresce l’esibizionismo: diamo volutamente in pasto ai presenti i nostri fatti personali, anche i più intimi e segreti, come se fosse un diritto/dovere farsi sentire.

P.S. – Non possiedo telefonini. Pensate che per fare una telefonata mi servo, ancora, del telefono fisso di casa. E così facendo, rinuncio a quel piacere impagabile che solo una telefonata con uno smartphone riesce a darti, per strada o su un autobus affollato di gente nell’ora di punta.

lunedì 3 luglio 2017

Lessico famigliare: storia di una famiglia



Io penso che il romanzo autobiografico sia uno dei generi letterari più difficili da elaborare. Una cosa è raccontare a voce un fatto privato, altra cosa, invece, è fare letteratura rivolgendosi a dei potenziali lettori, attraverso vicende che riguardano direttamente chi scrive. La scelta del romanzo autobiografico è spesso dettata dal desiderio di mettere al centro della scena se stessi, ma anche dalla necessità di scavare nella memoria e far rivivere fatti e vicende personali in cui possa ritrovarsi anche chi legge. E’ chiaro, però, che se l’autore non possiede arte narrativa, se non ha vocazione letteraria, il rischio che il racconto di tali vicende possa risultare noioso agli occhi del lettore, è davvero molto alto. La nostra letteratura abbonda di scrittori, anche famosi, che si sono cimentati con il romanzo autobiografico. In tale contesto narrativo si pone il romanzo “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg (nata Levi) con cui la scrittrice di origine triestina vinse nel 1963 (anno della sua prima pubblicazione) il Premio Strega. Il libro - nella sua bella edizione Oscar Mondadori del 1974, arricchito da una interessante prefazione di Cesare Garboli – l’ho scovato su una bancarella dell’usato al prezzo di 1 euro. E pensare che c’è gente che ha ancora il coraggio di dire che in Italia si legge poco perché i libri costano troppo.
Niente è inventato in questa narrazione autobiografica: luoghi, fatti e persone sono reali. “Non avevo molta voglia di parlare di me – scrive la Ginzburg – Questa difatti non è la mia storia, ma piuttosto, pur con vuoti e lacune, la storia della mia famiglia. Devo aggiungere che, nel corso della mia infanzia e adolescenza, mi proponevo sempre di scrivere un libro che raccontasse delle persone che vivevano allora, intorno a me. Questo è, in parte, quel libro: ma solo in parte, perché la memoria è labile, e perché i libri tratti dalla realtà non sono spesso che esili barlumi e schegge di quanto abbiamo visto e udito”. E’ la storia, quindi, della famiglia Levi/Ginzburg accusata, nel 1934, di antifascismo, imputazione che colpirà tutti i suoi rappresentanti, compreso un loro amico, quel Leone Ginzburg, che diventerà poi il marito della scrittrice. Il racconto memoriale di Natalia Ginzburg, scritto in prima persona, copre un arco di circa quarant’anni, a partire dagli anni della sua infanzia, lei ultimogenita di cinque tra fratelli e sorelle. Vengono rievocati, con tono a volte grave e preoccupato, gli anni del Fascismo, lo scoppio della guerra che renderà la vita sempre più difficile, l’esilio in Abruzzo, quindi la fine del regime fascista, la lotta clandestina di Leone Ginzburg, l’arresto e la sua morte avvenuta in carcere nel 1944. Ma l’interesse predominante della Ginzburg pare quello di voler raccontare, in maniera quasi confidenziale ed ironica, soprattutto la vita familiare colta nelle sue innumerevoli sfaccettature quotidiane, come le lunghe e monotone villeggiature trascorse sempre in montagna, la sua infanzia, i giochi, le abitudini e i costumi di casa, quanto mai semplici e austeri, i vari trasferimenti dei suoi genitori, da Firenze a Sassari, poi a Palermo (sua città natale) e infine Torino. Figura dominante del racconto è certamente quella del padre – il prof. Giuseppe Levi, ordinario di anatomia comparata – che aveva speso tutta la sua vita nella ricerca scientifica; un uomo burbero, dispotico, complicato, che non sopportava i letterati (per lui uno scrittore era qualcosa di frivolo), sempre diffidente e sospettoso nei riguardi degli estranei, indifferente al denaro però attento agli sprechi familiari (ogni sera faceva il giro delle stanze, urlando contro i figli che lasciavano le luci accese), condizionato per tutta la vita dalla preoccupazione irrazionale di trovarsi, da un momento all’altro, sul lastrico. E poi le lunghe e feroci discussioni politiche tra il padre e i fratelli che finivano sempre con sfuriate e porte sbattute. La scrittrice pone, inoltre, particolare risalto nel ricordo dei tanti personaggi, passati alla storia, che spesso erano ospiti della sua casa a Torino. In particolare, il giornalista e politico Filippo Turati, il famoso industriale Adriano Olivetti (che mostrava gran rispetto per i romanzieri e i poeti, ma non li leggeva); e poi il grande editore Giulio Einaudi, quindi Cesare Pavese (che andava da loro perché “non tollerava di passare le serate in solitudine”). Infine, tutti gli amici del padre, come lui professori d’università, biologi e scienziati. Ai componenti di questa famiglia, cosa davvero singolare, bastava una sola parola, una sola frase – sentite e ripetute chissà quante volte nel passato e diventate una sorta di ritornello – per ritrovare il loro antico e indissolubile rapporto domestico, la loro infanzia e la loro giovinezza. “Quelle frasi sono il nostro latino – scrive la Ginzburg – il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiro-babilonesi, la testimonianza d’un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare…”.  Costituiscono, appunto, il lessico famigliare.