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venerdì 12 agosto 2016

I luoghi dello spirito: la Certosa di Padula



Lo confesso: i monasteri hanno sempre esercitato su di me un fascino misterioso, direi quasi una straordinaria e indefinibile attrazione. Li percepisco come i veri luoghi dello spirito, del silenzio e della meditazione. Sarà perché il rumore, la confusione, il degrado e la massificazione dei comportamenti che regnano nei posti in cui vivo abitualmente hanno ormai raggiunto livelli insopportabili, fatto sta che a volte avverto uno strano desiderio: rifugiarmi, come una sorta di monaco laico, tra le mura di uno dei tanti monasteri presenti sul nostro territorio. E se proprio dovessi sceglierne uno, da buon cilentano, non avrei alcun dubbio: la certosa di Padula, detta anche di San Lorenzo, in provincia di Salerno. “Qui c’è la pace sicura, di qui l’ingresso al cielo, rimani qui tranquillo, ti attende la vera pace”. E’ la scritta che domina il portale di accesso al chiostro di questo imponente e sontuoso complesso monumentale, credo il più grande d’Italia con oltre 50.000 metri quadri fra ambienti coperti, cortili, chiostri e giardini. Fu eretto nel 1306 - quale centro politico e religioso del Meridione - dal principe Tommaso II Sanseverino, appartenente ad una delle più blasonate famiglie del Regno di Napoli. E’ un autentico capolavoro urbanistico i cui spazi sono regolati da criteri estetici e funzionali davvero straordinari, nel rispetto rigoroso degli equilibri gerarchici propri di una abbazia e dei simboli cui fanno riferimento.

Semplicità e splendore, magnificenza e rigore convivono sapientemente in questo monastero-città, costruito per ospitare raffinati certosini provenienti dal fior fiore delle famiglie nobili del tempo, la cui suprema aspirazione era quella di dedicarsi all’ozio ed alla contemplazione, alla preghiera ed al lavoro della terra. Senza dimenticare che i certosini volevano anche stupire gli ospiti illustri che non disdegnavano un soggiorno in questo centro religioso. E allora pensarono ad una superba struttura architettonica in cui all’umiltà della vita monastica si contrapponesse la ricchezza degli ambienti architettonici. Cosicché al decoro spartano delle 34 celle presenti nel monastero, ognuna delle quali ha il suo giardino e la sua vasca piena d’acqua, dove i monaci in pieno isolamento trascorrevano la loro vita fatta di preghiera, meditazione e lavoro, si rispondeva con lo sfarzo del salone delle feste (il refettorio) con il pavimento di marmi policromi intarsiati, dove i monaci mangiavano in occasione di alcune particolari ricorrenze. E poi la magnificenza della chiesa a navata unica ricca di decorazioni tipiche del barocco napoletano, di stucchi dorati, di pavimenti maiolicati e altari e cappelle marmoree e con la monumentale porta d’ingresso trecentesca in cedro del Libano. Suggestivi sono i tre chiostri, dove “chiuso e aperto” convivono in splendida armonia, in particolare il Chiostro Grande che non ha eguali al mondo per le sue misure (104 x 150 m.), su cui affacciano le celle dei monaci, al centro del quale si erge una maestosa fontana barocca del 1640.
 
Caratteristica la cucina, con la sua grande cappa posta al centro, costellata di maioliche di Vietri sul Mare, gialle e verdi. Secondo la leggenda qui fu preparata la famosa frittata con mille uova in onore del re Carlo V d’Asburgo. Splendido appare l’ appartamento del Priore formato da dieci sale (ospita il museo provinciale della Lucania) che si apre su un bellissimo chiostro rettangolare del XVIII secolo. Non poteva mancare la biblioteca contenente alcuni testi rari, raggiungibile al primo piano del Chiostro Grande attraverso un grandioso scalone ellittico di 38 scalini, vero e proprio miracolo ingegneristico, chiuso all’esterno da una torre ottagonale. E per finire i meravigliosi giardini che si estendono intorno al complesso monumentale con le loro essenze profumate. Si eleva su tutti il Desertum, giardino all’italiana del Settecento, un tempo coltivato ad ulivi, usato dai monaci di clausura durante le loro uscite esterne.
Un visitatore del passato ebbe a dire: “una prigione d’oro per reclusi snob”.

martedì 2 agosto 2016

Sartre e Abbagnano: nausea e saggezza





Penso che nessuno meglio del filosofo Jean-Paul Sartre, che aveva vissuto la nausea, avrebbe potuto tradurre tale condizione psicologica in un’opera letteraria. Ho letto la prima volta “La nausea” (Einaudi Editore) negli anni ormai lontani del liceo, quando ancora la mia formazione culturale non solo non  era ben definita ma non era stata ancora influenzata ed arricchita da altre opere che sarebbero arrivate copiose in seguito. La molla che mi ha spinto a riprenderlo una seconda volta è stata, probabilmente, la lettura de “La saggezza della vita” di Nicola Abbagnano (Rusconi Editore), un libro completamente diverso che avevo appena terminato di leggere, un libro che ispira fiducia, che trasmette utili insegnamenti per vivere una vita serena o quantomeno accettabile, in antitesi al messaggio poco ottimistico che si può trovare, invece, in Sartre.
 

Devo dire che l’interesse che mi spinge  a rileggere un libro, o anche a comprarne uno nuovo, nasce spesso da qualche “riferimento” legato al testo precedente. E i due libri sopra menzionati, seppure diversi nella trattazione e nell’intendimento letterario degli autori, secondo me sono comunque legati dalla stessa tematica: la condizione esistenziale dell’uomo moderno. “La saggezza della vita”, intravede nell’esistenza degli uomini momenti di serenità e felicità, invece “La nausea” non vi trova che delusione, scoramento e frustrazione. I due grandi filosofi, Abbagnano e Sartre, sono i degni rappresentanti dell’esistenzialismo filosofico, ma mentre il primo denota un approccio positivo e ottimista nei confronti della vita, il secondo esprime un pensiero alquanto pessimista sui diversi momenti dell’esistenza umana.

“La Nausea” di Sartre non è un romanzo nell’accezione autentica del termine, in quanto non presenta un chiaro evento narrativo, non rispecchia i canoni tradizionali della narrazione collegati ad una storia con un’origine ed una fine; appare, piuttosto, come una sorta di diario filosofico del protagonista il quale, esaminando le ragioni della propria esistenza e rispecchiandosi nel mondo che lo circonda, si sente avvolgere inesorabilmente dalla nausea. E’ un tipo introverso, il protagonista del libro, che vive appartato nella stanza di un albergo, esce per fare solitarie passeggiate, spesso di notte, frequenta qualche bar senza legare mai con nessuno e ogni tanto si porta a letto la figlia della padrona del ristorante dove consuma i suoi pasti. Scopre, giorno dopo giorno, che la vita è vuota, assurda, priva di senso e senza alcuna speranza: egli esiste come una cosa, come tutte le cose che lo circondano. E tutto ciò gli provoca nausea, così come prova nausea nell’osservare gli abitanti della città in cui vive alle prese con i riti quotidiani del vivere: il lavoro, il ritorno a casa, gli affetti familiari, la passeggiata domenicale, quella normalità che li fa sentire vivi e normali, ma che a lui provoca solo disgusto.

Ma per Nicola Abbagnano la vita dell’uomo non può reggersi e continuare senza un minimo di saggezza. E solo la saggezza può “trattenere l’uomo dal distruggersi con le sue stesse mani, dall’abbassarsi al livello bestiale, dal disperdersi nella noia e nella disperazione”.
Due libri, due visioni del mondo, due modi diversi di affrontare la vita: esistenzialismo positivo contro esistenzialismo negativo, saggezza contro nausea. Con la speranza, per quanto mi riguarda, che la prima condizione possa prevalere sulla seconda.