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martedì 31 maggio 2016

L'amicizia secondo Proust



“…stupisce scoprire come Proust avesse un’idea piuttosto pessimistica dell’amicizia, e quanto fosse limitato il valore che attribuiva alle sue amicizie, o a quelle di chiunque altro. A dispetto delle sue doti di brillante conversatore e amabile ospite, Proust riteneva:
- che avrebbe potuto fare ugualmente amicizia con un divano

<< L’artista che rinuncia a un’ora di lavoro per conversare con un amico sa di sacrificare una realtà per qualcosa che non esiste (gli amici essendo tali solo in quella dolce follia che ci prende nel corso della vita, alla quale ci prestiamo, ma che dal fondo della nostra intelligenza consideriamo l’errore di un folle che creda vivi i mobili e conversi con loro).>>

- che parlare è un’attività futile
<< Conversare, che è il modo in cui si esprime l’amicizia, significa perdersi in superficiali divagazioni, che non ci danno niente che valga la pena acquisire. Possiamo parlare per una vita senza fare altro che ripetere all’infinito la vacuità di un minuto.>>

- che l’amicizia è uno sforzo inutile
<<… diretto a farci sacrificare la sola parte vera e incomunicabile (se non per mezzo dell’arte) di noi stessi a un io superficiale.>>

- e che l’amicizia alla fin fine non è che
<<… una bugia che cerca di farci credere che non siamo irrimediabilmente soli.>>

“Ciò non vuol dire che fosse un insensibile, o che fosse un misantropo, o che non avesse il desiderio di vedere degli amici (…) Semplicemente, Proust diffidava delle dichiarazioni troppo esaltate in favore dell’amicizia…”

tratto da “Come Proust può cambiarvi la vita”
di Alain De Botton – Guanda Editore

 

domenica 29 maggio 2016

Passione


M'affascina
il tuo colore biondo grano,
e mi conturba,
m'attrae
la tua pelle ruvida,
odorosa di antichi,
genuini sapori...
Sei così bella,
così calda...
desiderabile,
e il tuo profumo
riaccende atavici istinti
in tutto il mio essere.
Mi sei mancata,
e la tua assenza
ha spalancato
terribili voragini di vuoto
dentro me...
Ma ora
sei qui,
finalmente mia...
distesa
nel verde...dell'insalata,
impareggiabile,
fantastica...
cotoletta alla milanese....

Giorgio Alessandro Bonnin

martedì 24 maggio 2016

Povera gente



“Ah, come avvilisce un uomo, la miseria!”

Quando il romanzo “Povera gente” fu dato alle stampe nel 1846, il suo autore Fedor Dostoevskij aveva solo 24 anni ed era un perfetto sconosciuto. Bastò quella prima pubblicazione per lanciarlo nel firmamento della letteratura mondiale. La critica lo acclamò come il nuovo Gogol.

Due sono i protagonisti principali della narrazione: Makàr, un attempato e oscuro impiegato, un brav’uomo, incapace di fare del male al prossimo, che vive relegato in una umile pensioncina, proprio di fronte al caseggiato in cui conduce la sua esistenza una giovane ragazza molto povera di nome Varvara. E’ un romanzo epistolare che racconta la società indigente della Russia zarista della prima metà dell’Ottocento e si immerge nella realtà popolare dei sobborghi di San Pietroburgo, con tutti i suoi problemi di sopravvivenza. Sono lettere appassionate quelle che si scrivono Makàr e Varvara, tenere e amare, ma anche piene di buoni sentimenti, sono componimenti a volte struggenti, velati di malinconia, seppure schermati da un incrollabile ottimismo nei confronti della vita e del futuro; sembra quasi che i due soggetti, legati dallo stesso destino, attraverso questa accorata corrispondenza cerchino un reciproco conforto, una sorta di benevola alleanza, per alleviare così quella condizione di estrema povertà in cui appaiono relegati dalle circostanze della vita.

Makàr è un uomo pieno di carità cristiana il quale, nonostante viva in una condizione di estrema indigenza, non sembra demoralizzarsi, anzi appare pieno di ottimismo e cerca di trasmettere questa voglia di riscatto morale e sociale anche alla sua dirimpettaia, di cui sembra intimamente innamorato. Il suo è un sentimento inconfessato che però traspare dalle lettere, sempre piene di affetto e di premura per la sua giovane protetta, lettere che sono diventate la sua unica gioia, la sua esclusiva ragione di vita. Ma la giovane le procurerà un grande dispiacere, quando gli confesserà, nella sua ultima e straziante missiva, che ha preso una decisione irrevocabile…

mercoledì 18 maggio 2016

Gli Italiani: figli della Controriforma?



Per conoscere un po’ meglio la società in cui viviamo e, soprattutto, per cercare di capire chi siamo realmente noi italiani, non basta leggere solo i giornali e seguire passivamente i tanti dibattiti televisivi che vengono trasmessi in proposito. E’ necessario - secondo me - affidarsi ogni tanto a qualche specifica e buona lettura, che possa farci riflettere in solitudine. Mi è capitato di leggere in questi giorni un testo molto interessante, scritto da un grande giornalista e scrittore napoletano di quasi 90 anni, il quale dall’alto della sua esperienza umana e culturale, ha effettuato una sorta di viaggio intorno a noi stessi al fine di scoprire la nostra peculiare identità di cittadini. Mi riferisco ad Ermanno Rea ed al suo saggio “La fabbrica dell’obbedienza” con sottotitolo “il lato oscuro e complice degli italiani”, pubblicato da Feltrinelli nel 2011.
Scrive l’autore che il libro “può essere letto anche come lo sfogo di un cittadino con i nervi a fior di pelle”. E vista la situazione socio-politica in cui ci ritroviamo – tra evasione fiscale, corruzione, disoccupazione giovanile, impunità, ruberie e scandali vari e chi più ne ha più ne metta – e considerate le singolari inclinazioni degli italiani che spaziano dal servilismo all’ipocrisia, dalla superficialità all’opportunismo, la nostra solidarietà non può che andare a quel cittadino con i nervi a fior di pelle. Ma insomma noi Italiani come siamo? Abbiamo qualche responsabilità – oltre naturalmente a quelle endemiche della classe politica che ci governa - se le cose in questo Paese non vanno proprio bene? Se l’Italia non è mai apparsa così malandata, neppure nei suoi momenti più tragici, è colpa solo dei politici che sono diventati dei delinquenti, oppure è anche colpa nostra che li votiamo e li appoggiamo?

L’autore, attraverso un’attenta analisi, sostiene che noi possediamo una diffusa e cieca soggezione per il potente di turno e quindi abbiamo sviluppato una grande abilità nel saltare sempre sul carro del vincitore. Il nostro è un servilismo con prospettiva di lucro o comunque finalizzato ad ottenere anche piccoli e miserevoli vantaggi occasionali. La mancanza di scrupoli, di dignità e di responsabilità etica e civile che ci caratterizzano, deriva essenzialmente – scrive Rea - da un “addomesticamento che si sviluppa nei secoli a partire dalla Controriforma fino ai giorni nostri senza soluzione di continuità”.  Secondo lo scrittore napoletano, prima della Controriforma esisteva il “cittadino responsabile”, nato durante quella magnifica stagione di rinnovamento che va sotto il nome di Umanesimo e Rinascimento. Ancora oggi il mondo intero continua deferente a inchinarsi di fronte a quella “fervida Italia” che va dal Trecento a tutto il Cinquecento. “L’italiano – scrive Rea – comunque lo si voglia giudicare oggi, spunta fuori da lì, proviene da quel “bagliore” fatto di tante luci improvvisamente accese, a cominciare da quella di un idioma che quasi non fa in tempo a nascere e già si incarna in una serie di capolavori che dettano legge ancora oggi: basti pensare a Dante, Petrarca, Boccaccio”. Poi fa irruzione sulla scena la Controriforma, con i suoi obblighi di fedeltà ai papi e alle gerarchie ecclesiastiche, con i suoi roghi (emblematico quello di Giordano Bruno) e con tutte le altre forme di violenza e repressione nei confronti di chi non si adeguava ad dettato della Chiesa; ed è proprio la Controriforma– sostiene ancora Rea - che respinse quell’ homo novus, quel cittadino consapevole appena forgiato dall’Umanesimo sostituendolo con un suddito deresponsabilizzato, vera e propria maschera dell’asservimento e della rinuncia a ogni forma di indipendenza e di libertà di pensiero. Leggiamo nel libro che la permanente egemonia politica e culturale della Chiesa si è rivelata, nel corso dei secoli, come uno dei maggiore ostacoli alla crescita civile del Paese, impedendo la formazione di una coscienza nazionale forte e coesa, ossia di una responsabilità collettiva e individuale. Ma allora, si domanda lo scrittore: siamo destinati a rimanere sempre figli della Controriforma? Sembrerebbe di si, almeno fino a quando la “fabbrica dell’obbedienza” continuerà a produrre consenso verso ogni forma di potere, sia politico che religioso. Nulla sembra cambiato rispetto al passato, tant’è che quel forte desiderio di obbedienza e quella propensione alla cortigianeria e alla complicità che continuano ad abitare dentro di noi ci spingono inesorabilmente tra le braccia di chi comanda, fosse anche il peggiore dittatore, in cerca di protezione e di favori. Non sappiamo dire di NO, “un monosillabo con il quale noi italiani abbiamo da sempre un rapporto difficile” e ce ne freghiamo della libertà e di qualsiasi principio etico, pronti come siamo ad acclamare sempre e soltanto chi ci promette qualcosa.

giovedì 12 maggio 2016

Siamo quello che leggiamo



Amo leggere soprattutto i libri dei grandi scrittori italiani. Mi ritrovo più facilmente tra quelle pagine, sento quegli autori più vicini al mio mondo, alla mia cultura, al mio modo di pensare. E così come preferisco “mangiare italiano”, do la preferenza alle opere che appartengono alla storia della letteratura italiana quando ho necessità di nutrire lo spirito. Devo dire che, almeno fino al conseguimento del diploma di maturità, non sono stato un grande lettore. Ricordo addirittura che faticavo a leggere un testo scolastico come  “I Promessi Sposi”, salvo poi rileggerlo con piacere  almeno un paio di volte, appena terminati gli studi . E’ proprio vero che la scuola, con le sue imposizioni, i libri a volte te li fa odiare piuttosto che amare. Diciamo che sono diventato un lettore abbastanza assiduo dopo i trent’anni.
Mi sono formato prima di tutto sui grandi autori della letteratura italiana dell’Otto-Novecento. Il mio pensiero va, in primis, alla famosa trilogia di Italo Svevo: “La coscienza di Zeno”, “Una vita” e “Senilità”, libri che scrutano essenzialmente le inadeguatezze e le difficoltà del vivere quotidiano dell’uomo moderno. Credo che le tematiche trattate dallo scrittore triestino siano molto vicine a quelle sviluppate da Luigi Pirandello, un autore che non potevo non conoscere: “Il fu Mattia Pascal”“Uno, nessuno e centomila” e “I vecchi e i giovani” sono per me libri fondamentali. Mi sono poi avvicinato alla complessa figura di Gabriele D’annunzio e alla sua prosa aulica e ricercata, apprezzando in particolare una delle sue opere più importanti: “Il piacere”, il cui titolo può da solo descrivere il personaggio e la sua opera. Poi ho amato i tanti libri di Cesare Pavese, che continuano ad occupare un posto molto importante nella mia libreria e sui quali torno sempre più spesso. Così come ricordo, quasi con nostalgia, i romanzi di Alberto Moravia che mi rimandano agli anni giovanili, quando lo scrittore romano andava per la maggiore, con il suo libro più importante e significativo: “Gli indifferenti”. Quindi ho letto e riletto “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa. E poi Calvino, Bassani, Brancati, Buzzati (come non leggere “Il deserto dei tartari”!), Flaiano (con la sua prosa sferzante e ironica), Federico De Roberto (“I Vicerè” autentico capolavoro), Carlo Levi (“Cristo si è fermato a Eboli”) e Primo Levi (“Se questo è un uomo”), due libri, quest’ultimi, che non smetto mai di sfogliare. E poi mi sono innamorato – stranamente, in età matura - di Collodi e del suo Pinocchio e  devo dire che nessuno meglio di quel burattino uscito dalla sua penna, ci rappresenta e ci somiglia, con i suoi vizi e le sue virtù, con i suoi momenti di tristezza e con i suoi slanci di gioia e di affetto, con la sua furbizia, ma anche con la sua ingenuità.

Tra le donne scrittrici mi piace ricordarne due in particolare, Sibilla Aleramo con la sua opera più significativa “Una donna” ed Elsa Morante: indimenticabile il suo romanzo “L’isola di Arturo”. E poi ci sono due grandi intellettuali scomparsi da poco: Umberto Eco e Antonio Tabucchi i quali mi hanno insegnato cos’è la vera letteratura.
Sono entrati a far parte della mia libreria e delle mie letture scrittori che ho conosciuto in questi ultimi anni, come Guglielmo Petroni, Michele Prisco, Giovanni Arpino, Piero Chiara, Ercole Patti, Francesco Jovine, Paolo Volponi, Anna Maria Ortese, Giuseppe Dessì, Carlo Alianello, Luciano Bianciardi. Molti di questi, attraverso i loro romanzi, ma anche attraverso le loro vicende personali, hanno raccontato l’Italia e la sua storia. Tengo a precisare che non seguo molto gli autori contemporanei, sia italiani che stranieri, e non corro dietro ai best seller del momento: per me un libro deve prima invecchiare, come un buon vino. Comunque mi piace qui ricordare, in particolare, Erri De Luca, Maurizio Maggiani, Antonio Scurati, Roberto Saviano, Claudio Magris.

Naturalmente non mi limito ai soli autori italiani: sarebbe davvero riduttivo. E infatti i miei interessi sono indirizzati anche verso i grandi scrittori stranieri e spaziano dai mostri sacri della letteratura tedesca (Hermann Hesse, W. Gothe e Thomas Mann…) ai grandi romanzieri francesi (Balzac, Camus, Flaubert, Hugo, Sartre, Stendhal, Proust); dai corposi narratori russi dell’Ottocento, come Dostoevskij (“Delitto e Castigo”), Nabokov (l’indimenticabile “Lolita”), agli americani Bradbury (“Fahrenheit 451”), Fante (“Chiedi alla polvere”) Kerouac, London… Non mancano gli autori svizzeri, quali il candido Robert Walser, l’arguto e brillante Alan De Botton, quindi gli austriaci Schnitzler, Lorenz, Musil. Naturalmente l’elenco non è esaustivo.
Sono infine legato ad alcuni grandi libri  che non finiscono mai di sorprendermi ed ogni volta che li sfoglio, hanno sempre la capacità di stupirmi come la prima volta. Sono quelli destinati a durare nel tempo, rispetto ad altri che invece consumo velocemente e, qualche volta, dimentico. Libri che meritano di essere letti e riletti, a distanza di tempo, per coglierne la vera essenza, per trovare in essi ciò che la prima volta non ho saputo afferrare o mi è sfuggito. Libri che porterei con me, qualora decidessi di scappare su un’isola deserta :

Walden, la vita nei boschi di Henry Thoreau - per abbracciare la natura e vivere l’esperienza della solitudine gioiosa; La storia dell’arte di Ernst Gombrich - per conoscere la bellezza; Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes - per viaggiare in un mondo fantastico e visionario; I Saggi di Michel de Montaigne - per esplorare i recessi più reconditi dell’animo umano; Le braci  di Sandor Marai - per tenere accesa una passione; Elogio della follia  di E. da Rotterdam - per conoscere le virtù della pazzia, a volte condizione essenziale per essere felici; Il Diario di Anna Frank  - per piangere; Viaggio in Italia  di W. Goethe - per viaggiare senza partire; Oblomov di Ivan Gonkarov – per non avere fretta e alimentare l’ozio; Lettere dal carcere di Antonio Gramsci - per onorare la scrittura come forma di sopravvivenza e libertà; Quel che resta del giorno  di Kazuo Ishiguro -  per non avere rimpianti; Se questo è un uomo  di Primo Levi -  per non dimenticare la cattiveria insita nell’animo umano; Il libro dell’inquietudine  di Fernando Pessoa - per cercare l’equilibrio perduto; Il giovane Holden  di J. D. Salinger - per cavalcare le ribellioni adolescenziali; Bartleby lo scrivano di Melville - per dire no all’iperattivismo del mondo del lavoro; Lettere a Lucilio  di Seneca - per allontanarmi dalle miserie umane; Sostiene Pereira  di Antonio Tabucchi - per rafforzare la libertà di pensiero.

mercoledì 4 maggio 2016

Un Amore a Roma



La Sicilia è di sicuro la patria di alcuni grandi scrittori della nostra letteratura. Tra questi vorrei ricordarne uno che – sebbene oggi risulti ingiustamente dimenticato dagli editori e dalla critica – io considero tra i più interessanti del ‘900, un autore che meriterebbe una più attenta considerazione, anche da parte dei lettori più giovani. Mi riferisco a Ercole Patti, il cui percorso umano e letterario si svolse tra Catania (dove nacque nel 1903) e Roma, che lo accolse giovanissimo e dove si spense nel 1976. Si narra che la sua più grande aspirazione fosse quella di andare a vivere proprio a Roma e quando finalmente realizzò questo suo intimo desiderio, lo scrittore siciliano così ebbe a scrivere: "andavo vagando per le strade giornate intere, non mi stancavo di respirare l’aria di Roma a tutte le ore. I sedili del Pincio erano le mie soste preferite nella tarda mattinata e nelle prime ore del pomeriggio. Con un giornale in mano mi sedevo accanto a qualche busto di marmo e il mio cervello partiva in quarta sognando libri da scrivere, novelle da pubblicare sui giornali romani dove non conoscevo nessuno”.

“Un amore a Roma” è uno dei suoi romanzi, certamente non quello più importante, che ho appena finito di leggere. E’ un testo fuori produzione: l’ho scovato sui banchi di un mercatino delle occasioni, nella sua prima e bellissima edizione del 1956 (editore Bompiani – Lire settecento). I protagonisti del romanzo sono due giovani caratterialmente molto diversi (Marcello e Anna) che, pur vivendo il loro rapporto amoroso in maniera alquanto burrascosa (tra sospetti, tradimenti e continue separazioni), non riescono tuttavia a rompere in maniera definitiva un legame che li fa apparire inadatti a stare insieme. Lui – giornalista con velleità artistiche e letterarie - ha 35 anni e appartiene ad una aristocratica famiglia romana. Amante delle donne, è incapace di legarsi in una vera e propria relazione e si accontenta sempre di piccole avventure passeggere “dopo poco tempo che conosceva una donna scopriva in lei delle cose che non andavano. Le donne erano sempre o troppo noiose, o attaccaticce o troppo civette, o amavano delle cose che lui detestava. Talvolta erano troppo intellettuali e dicevano cose irritanti, oppure troppo stupide e volgari”. Lei, invece, è una ragazza veneta semplice e spregiudicata di 22 anni, ha vinto un concorso cinematografico e si è quindi trasferita a Roma dove fa l’attrice, anche se ha avuto solo delle parti secondarie in alcuni film. Vive in una modesta pensione nel quartiere Prati, è attratta da qualsiasi novità e spesso si comporta con leggerezza. Soprattutto con gli uomini. Intorno ai due protagonisti del romanzo, alle prese con la loro tormentata vicenda sentimentale, gravitano altri emblematici personaggi i quali, seppure complementari rispetto alla storia, sono rappresentativi di quella borghesia romana degli anni cinquanta, corrotta e disinvolta, attaccata egoisticamente al denaro, interessata soprattutto a salvaguardare se stessa. Spicca la figura del padre – il Conte Cenni - con il suo “profilo navigato che esprimeva nobiltà e servilismo al tempo stesso”, guardia nobile del Papa. Costui suole circondarsi di amici influenti che si erano dati molto da fare durante il fascismo occupandosi sempre di politica, quali ex deputati, assessori, liberali di estrema destra e monarchici, proprietari terrieri, avvocati e notai, a loro volta amici di prelati e cardinali con vaste conoscenze negli ambienti vaticani. “Quegli uomini che avevano vissuto troppo – scrive l’autore - per non essere stati immischiati nel passato in qualche pasticcio talvolta soltanto di rimbalzo: scandali lontani sparsi negli anni”. A questa vacua società borghese, avida e corrotta si contrappone – da una parte - il mondo intellettuale a cui appartiene Marcello, fatto di scrittori e letterati “dalla prosa aulica e imbalsamata”, interessati non tanto a scrivere un proprio libro quanto a stroncare quello scritto da altri e “in quelle esecuzioni in massa, fatte senza discriminazione, essi trovavano qualche conforto ai loro sogni letterari rientrati”. E dall’altra parte ritroviamo il mondo artificioso del cinema e del varietà in cui si identifica Anna, un mondo legato alle sue finzioni, alle luci del palcoscenico, alle sue fatue apparenze. E sullo sfondo domina la Roma degli anni ‘50, quasi a proteggere amori e misfatti che si consumano entro le sue mura, la città eterna non ancora stritolata dal traffico e non ancora sommersa dai rumori e dalla sporcizia, ma già attaccata dalla corruzione; la Roma con i suoi severi e malinconici “casoni” senza negozi del quartiere Prati e con i bei palazzi storici del centro, con le botteghe di artigiani, con l’allegria e l’accento dei suoi abitanti, con le sue sempre tiepide stagioni e con i suoi sapori. Quella Roma che Ercole Patti tanto amava e che conosceva in tutte le sue ore e in tutte le sue strade.

Il romanzo si legge tutto d’un fiato perché la narrazione si presenta gradevole, fluida, con spruzzi di delicata e sottile sensualità. Ma non potrete mai leggerlo perché il libro è fuori catalogo: gli editori, oggi, preferiscono rincorrere altre storie, forse meno belle e scritte pure male, ma senz’altro più redditizie.

domenica 1 maggio 2016

Candele



Ad ogni mio compleanno, mi ritorna in mente questa bella e struggente poesia di Costantino Kavafis….

 
Candele


Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese –
dorate, calde e vivide.

Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine danno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.

Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto,
la memoria m’accora del loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.

Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido,
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.

 

Costantino Kavafis