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lunedì 28 marzo 2016

Raccontare la malattia per conoscere l'animo umano



La sorella di Sàndor Màrai è un lungo e doloroso viaggio introspettivo nell’universo delle sofferenze umane. La prosa è sempre quella che contraddistingue lo scrittore ungherese: sontuosa, elegante, bella da leggere e da gustare. E nonostante la tematica possa in qualche misura allontanare piuttosto che avvicinare il lettore (la malattia terrorizza l’uomo più della morte), io credo che il libro si presti comunque ad una lettura molto coinvolgente. La malattia, quale condizione dell’umana esistenza, viene sempre vissuta come un trauma da chi la subisce, è vista come una specie di frattura che rompe un equilibrio consolidato generando ansia e angoscia. Quando ci si trova in un letto d’ospedale a combattere contro un male, quando si ha la sfortuna di avere questa sorta di incontro ravvicinato con la morte - perché la vita in certe situazioni è legata veramente ad un filo - allora, in quelle occasioni, quando tutto sembra irrimediabilmente perduto, la vita che abbiamo sempre conosciuto acquista un sapore strano e passa quasi in secondo ordine.

La prima parte del libro racconta l’incontro, in un alberghetto di montagna in mezzo ai monti della Transilvania, tra uno scrittore (che potrebbe essere l’alter ego dell’autore ungherese, voce narrante del romanzo) ed il celebre musicista chiamato Z., osannato dalle platee dei più importanti teatri del mondo, un uomo colto e raffinato, attratto da tutto ciò che avesse a che fare con l’arte e la bellezza. I due uomini si rivedono dopo tanti anni e sembra quasi che l’incontro riparatore e tardivo, suggellato dalla lunga attesa, sia un tema molto caro all’autore, tant’è che già nel suo primo e più importante romanzo “Le braci” i due protagonisti principali si rivedono dopo oltre 40 anni, per cercare di ricucire un’antica amicizia bruscamente interrotta.

Attraverso l’esperienza di vita comunitaria vissuta dagli ospiti di quella pensione di montagna, lontana dai clamori e dalla realtà, affiorano gli aspetti più nascosti della personalità umana. Succede che quando gli uomini si trovano a convivere in una situazione di isolamento, perfettamente estranei gli uni agli altri, oppressi dalla noia e dall’insofferenza, non possono fare a meno di mostrare i lati più deprecabili del loro carattere. Il libro presenta pagine di straordinaria bellezza stilistica,  ci consegna atmosfere e riflessioni sulla condizione dell’umana esistenza, soffermandosi su quella forza che muove il mondo degli uomini, che è la forza del sentimento dell’amore e della passione. “Non posso credere” – dice la voce narrante del libro “che delle persone sane di mente, dotate di autocontrollo, possano cedere alla tirannia della passione. Non posso rassegnarmi al fatto che esistano sentimenti capaci di travalicare la ragione”.

Nella seconda parte del romanzo irrompe nella narrazione la malattia. Ricoverato in un ospedale di Firenze, quella Firenze che al solo pronunciare il suo nome gli faceva battere il cuore, il grande musicista Z., privato ormai della sua arte, si ritrova a combattere la sua personale battaglia contro la sofferenza, amorevolmente assistito da quattro suore, “depositarie del segreto di mille e mille tormenti, umiliazioni, miserie umane”. E in questa condizione di estrema debolezza, completamente dipendente da quelle quattro creature femminili, “che non parlavano di nulla, ma sorridevano, tacevano e assistevano”, il protagonista, attraverso un disperato monologo interiore, s’interroga sulla sua esistenza. Era stato un uomo che aveva frequentato i migliori salotti e che nelle sale di concerto “aveva vinto il temibile mostro della musica”. Ora, disteso in quel letto d’ospedale, sapeva di assomigliare a quella figura soltanto in maniera approssimativa ed ambigua, perché non era mutato solo il suo corpo, divorato dal male, ma la sua stessa anima.

venerdì 18 marzo 2016

Quando i veri cani sono i padroni



L’altro giorno, camminando per strada, mi è capitato di pestare una cacca di cane, purtroppo abituale decoro dei nostri marciapiedi. Chi abita in città sa bene che certi luoghi sono diventati delle vere e proprie latrine a cielo aperto, dove è d’obbligo eseguire una sorta di slalom per evitare i tanti escrementi che simboleggiano il degrado della civiltà e dell’educazione dei nostri tempi. E questo grazie alla maleducazione di chi non raccoglie le deiezioni dei propri amici a quattro zampe, dimostrando così di non aver nessun rispetto né per il prossimo né tantomeno per il decoro e la pulizia del posto in cui vive. Basta un momento di distrazione e…ciac. Cosa fare in questi casi? Mi sono appoggiato al muro e ho tirato su il piede per guardare – tra l’altro quel giorno avevo calzato delle scarpe con suola a carrarmato – e da come era ridotta la mia povera scarpa ho pensato che da quelle parti, più che un alano al guinzaglio del suo padrone di m…a era passato un elefante. Sembrava fresca, anzi calda, appena sfornata. Lascio a voi immaginare i pensieri poco educati che mi sono venuti in mente in quel momento e che ho rivolto all’indirizzo di quell’incivile, per non avere raccolto il lascito del suo cane. Istintivamente ho cercato di rimuoverla, con disgusto e rabbia, strisciando la scarpa sul marciapiede; il risultato vomitevole è stato quello di spalmarla su tutto il selciato a mò di nutella su fetta biscottata e di farla pure schizzare, maldestramente, sull’orlo dei miei pantaloni. Mi sono accorto, sempre più infuriato, che una giovane ragazza che si trovava dietro di me - anche lei con cane al guinzaglio – mi guardava tra lo schifato e il divertito: chissà se lei era fornita di paletta e sacchetto per raccogliere le feci del suo cane!
Ma non è finita qui, perché mentre ritornavo a casa, con quella spiacevole lordura che mi portavo sotto la scarpa, ho assistito ad un furioso quanto paradossale alterco tra due persone, sempre per una questione di cani. Era accaduto che una signora aveva permesso al suo delizioso barboncino (coperto con un grazioso cappottino color fucsia), di fare la pipì sulla saracinesca di un negozio commerciale, proprio mentre l’ignaro proprietario si apprestava ad aprirla. Alle sue indignate e motivate rimostranze, intese ad impedire che lo spazio antistante il suo locale diventasse un orinatoio, la padrona del barboncino ha risposto, di rimando, che non poteva assolutamente allontanare la sua creatura dal posto in cui aveva deciso di liberarsi dei suoi bisognini liquidi, altrimenti le avrebbe causato un grave trauma, con conseguenze inimmaginabili sulla sua salute psicofisica. E poi, cosa potevano mai rappresentare quelle poche gocce di urina su una saracinesca così sporca! Avete capito? Questo per dire che se per caso, un bel giorno, un cane dovesse scambiare la vostra gamba per un palo della luce, lasciatelo stare, non disturbatelo, assecondatelo pure con una carezza: ne va di mezzo il suo benessere psicofisico. Tanto quello del padrone è già compromesso. Per finire, io direi che quel cartello che spesso si vede in giro e che recita “attenti al cane” è ormai superato e obsoleto  e va urgentemente sostituito con il più pertinente “attenti al padrone del cane”.

martedì 15 marzo 2016

Bartleby lo scrivano: il paladino della ribellione




 
 
Io credo che nessun altro libro si presti a così tante  interpretazioni come “Bartleby lo scrivano” di Herman Melville. E’ una figura davvero enigmatica quella che esce dalla penna dello scrittore statunitense, che rimanda al teatro dell’assurdo ed ai suoi strampalati personaggi. Penso a Vladimiro ed Estragone ed ai loro assurdi comportamenti descritti da Beckett nella sua opera più famosa “Aspettando Godot”. Penso a Meursault, l’assurdo personaggio di Camus nel romanzo “Lo straniero”  - anch’egli impiegato come Bartleby – che vive nella più completa apatia verso se stesso e il mondo, il quale dopo aver ucciso una persona senza motivo, viene condannato in un contesto inquietante ed irreale. E come non ricordare “Il processo” di Kafka il cui protagonista, impiegato pure lui - quasi a voler significare che la categoria degli impiegati sia quella più idonea a raffigurare l’assurdità degli atteggiamenti dell’animo umano - viene accusato, arrestato e processato per motivi misteriosi ed incomprensibili e finisce per accettare la condanna per una colpa non commessa e persino ignorata.
 
Di Bartleby sappiamo solo che è un copista (ci troviamo nella seconda metà dell’Ottocento) e che lavora alle dipendenze di un avvocato commercialista, incettatore di titoli azionari a Wall Street, la cui figura – come viene descritta dal suo datore di lavoro - è “scialba nella sua dignità, pietosa nella sua rispettabilità, incurabilmente perduta”. A prima vista appare come un lavoratore instancabile, che non si concede mai una pausa, copiando sia con la luce del sole che al lume di candela, sempre chino sui suoi documenti in assoluto silenzio, che ha fatto dell’ufficio in cui lavora la sua casa e la sua permanente dimora, nutrendosi solo di biscotti allo zenzero. Ma guai a chiedergli qualcosa, perché lui risponde sempre con la solita frase: “avrei preferenza di no”. Non esce altro dalla sua bocca, si rifiuta di fare qualsiasi cosa gli venga richiesta, che non sia il suo abituale lavoro. L’avvocato – che nel libro è la voce narrante - riavutosi dall’iniziale sbigottimento, lo accetta così com’è, pur provando nei suoi confronti sorpresa e sconcerto, sino a rendersi docile complice delle sue stranezze. E’ veramente disarmante, quel rifiuto, quella passiva resistenza agli ordini, quel chiudersi nel suo riserbo subito dopo aver manifestato la sua volontà di astenersi da ogni impegno, attraverso quell’unica frase usata come un ritornello, pronunciata sempre al condizionale con garbo e con gentilezza, quasi a scusarsi per quel suo desiderio di rinuncia.
Bartleby incarna, a mio modo di vedere, il paladino della ribellione, colui che combatte il potere coercitivo dominante. Il suo modo di fare e di comportarsi rompe un equilibrio consolidato dalle regole e dalle abitudini. La sua è una sfida muta contro il mondo che lo circonda, la sua arma micidiale è rappresentata dal suo diniego : “avrei preferenza di no” che senza scomporsi, con grande tranquillità, afferma ogni qualvolta il suo capo intende far prevalere la sua volontà, i suoi ordini. E’ una frase, quella pronunciata da Bartleby - nell’impassibilità del suo contegno - che sconvolge e disarma nello stesso tempo l’interlocutore, il quale finisce per adattarsi a quel misterioso potere che esercita lo strano copista da cui non riesce del tutto a sottrarsi, fino a diventare la sua ossessione, il suo incubo.
In un’America sempre più affaristica, il comportamento di Bartleby appare molto vicino alle tesi sostenute da David Thoreau, il ribelle per antonomasia, il precursore della disubbidienza civile, che descriveva un’America diversa, distaccata e serena, non incalzata dal consumo e dalla produzione industriale; un paese in cui non tutto poteva essere tradotto in denaro, che condannava l’iperattivismo del mondo del lavoro, pienamente convinto che la volontà di dominio  sugli uomini non rappresentava l’unico scopo della vita.
Con il suo bizzarro personaggio, Melville sembra voglia anche proiettarci  in un mondo quasi surreale, dove si è liberi di fare o non fare, di avere un determinato comportamento piuttosto che un altro, senza vincoli di sorta, tanto il mondo va avanti lo stesso, dove le parole non servono, perché basta una sola frase, come quella pronunciata da Bartleby, per stabilire le distanze e risolvere i problemi senza affrontarli, un mondo dove è inutile affannarsi per capire l’animo umano, tanto l’animo umano è insondabile.
 
 

 

 

sabato 12 marzo 2016

Aspettando i barbari



Che aspettiamo, raccolti nella piazza?

Oggi arrivano i barbari.
Perché mai tanta inerzia nel Senato?
E perché i senatori siedono e non fan leggi?
Oggi arrivano i barbari.
Che leggi devon fare i senatori?
Quando verranno le faranno i barbari.

Perché l'imperatore s' è levato
così per tempo e sta, solenne, in trono,
alla porta maggiore, incoronato?
Oggi arrivano i barbari
L'imperatore aspetta di ricevere
il loro capo. E anzi ha già disposto
l’offerta d'una pergamena. E là
gli ha scritto molti titoli ed epiteti.
Perché i nostri due consoli e i pretori
sono usciti stamani in toga rossa?
Perché i bracciali con tante ametiste,
gli anelli con gli splendidi smeraldi luccicanti?
Perché brandire le preziose mazze
coi bei caselli tutti doro e argento?

Oggi arrivano i barbari,
e questa roba fa impressione ai barbari.

Perché i valenti oratori non vengono
a snocciolare i loro discorsi, come sempre?

Oggi arrivano i barbari:
sdegnano la retorica e le arringhe.

Perché d'un tratto questo smarrimento
ansioso? (I volti come si son fatti seri)
Perché rapidamente le strade e piazze
si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi?

S' è fatta notte, e i barbari non sono più venuti.
Taluni sono giunti dai confini,
han detto che di barbari non ce ne sono più.

E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente.

(Costantino Kavafis)

Ma cosa vorrà mai dirci questa poesia di Costantino Kavafis, con la sua straordinaria potenza metaforica?
Che fuggiamo sempre dai nostri obblighi sociali, grandi o piccoli che siano? Che non c’è mai un responsabile, qualsiasi cosa accada? Che non sappiamo prenderci le nostre responsabilità e aspettiamo sempre un salvatore che possa risolvere i nostri problemi?

“I barbari non sono più venuti”: vuoi vedere che hanno paura di noi !

martedì 8 marzo 2016

L'uomo sentimentale



“Com’è faticoso anche ciò che ancora deve essere”

E’ la prima volta che leggo Javier Marìas: pare che sia il più famoso e importante scrittore di lingua spagnola. L’uomo sentimentale, pubblicato nel 1986, è una singolare e impalpabile storia d’amore in cui l’amore non si vede, non si vive né si consuma materialmente, però in qualche maniera si manifesta e si ricorda, tra il sogno e la realtà. Come scrive nell’epilogo l’autore, l’amore è un sentimento che “richiede le maggiori dosi di immaginazione” e sotto certi aspetti “richiede sempre qualcosa di fittizio oltre a ciò che gli procura la realtà”. In altre parole, sembrerebbe che la passione amorosa, per quanto possa essere corporea o reale in un determinato momento, abbia continuamente bisogno di una rappresentazione irreale, fantastica. E’ sempre sul punto di compiersi, ma anche sull’orlo del suo disfacimento “è il regno di quel che può essere. O anche di ciò che avrebbe potuto essere”. Lo ammetto: sono la persona meno adatta per parlare di amore. E forse per questo non mi piacciono molto le storie d’amore. Se poi il sentimento amoroso diventa così articolato e così cervellotico – come quello che ci viene raccontato nel libro - ebbene devo dire che per me le cose si complicano. Ed io mi perdo. Comunque sia, in questo contesto si muovono i quattro personaggi del libro (un quadrilatero al posto del classico triangolo).
Il protagonista – voce narrante del romanzo – è un famoso cantante d’opera catalano che vive a Madrid, separato dalla moglie, la cui professione lo costringe a condurre una vita molto solitaria in giro per le grandi capitali del mondo. E durante uno di questi viaggi, mentre si trova in treno tra Parigi e Madrid, ha l’opportunità di incontrare una misteriosa e malinconica donna (Natalia Manur), di cui si innamora – almeno così mi è sembrato di capire – la quale diventa la sua abituale accompagnatrice, anche se tra di loro non succede mai nulla; poi c’è il marito di questa donna, un banchiere belga (Hieronimo Manur) che sembra stare al gioco e non mi sembra che ami molto sua moglie. L’ultimo personaggio è un imperturbabile e taciturno segretario, a sua volta innocuo e fedele accompagnatore di Natalia Manur, sempre testimone nelle lunghe conversazioni tra i due strani e inconcludenti amanti.  

Con una scrittura ironica e piacevole, molto più accattivante della trama che appare davvero scarna e poco avvincente, lo scrittore spagnolo allestisce una sorta di gioco crudele tra le parti in cui ognuno dei protagonisti cerca di annientare psicologicamente l’altro, un gioco in cui la dimensione immaginaria e quella onirica spesso si sovrappongono e si sostituiscono alla realtà. Un libro che non mi ha soddisfatto del tutto.

martedì 1 marzo 2016

Il mestiere dello scrittore



Mi vado spesso chiedendo – da appassionato lettore quale sono – se esiste ancora in questa nostra società dello spettacolo la figura dell’intellettuale in grado di imporre gusti, orientamenti, visioni del mondo e capace, altresì, di sferzare il presente, così come facevano qualche anno fa Pasolini, Moravia, Calvino…; e mi vado ancora domandando quale ruolo abbiano i cosiddetti “scrittori di successo”, quelli che sfornano un libro all’anno incoraggiando le aspirazioni di profitto dell’industria editoriale. Io penso che oggi lo scrittore conti davvero poco nel dibattito pubblico e culturale del nostro Paese, e che abbia perso prestigio, credibilità artistica. Non ha più voce in capitolo, si è lasciato fagocitare dal sistema per un suo tornaconto personale, ha perso quella autorevolezza culturale che faceva di lui la coscienza critica del cittadino. Secondo Massimo Fini “non esiste più nella nostra struttura sociale un’elite, intellettuale, culturale e morale, quella che Giorgio Bocca, quando credeva ancora in questo Paese, chiamava ‘la società degli eccellenti’ in grado di far da filtro almeno alle sguaiataggini più sfacciate. Oggi al posto degli eccellenti – scrive ancora Fini - dominano gli impudenti”. Oggi lo scrittore – nella maggior parte dei casi il personaggio dello spettacolo prestato alla letteratura – non ha difficoltà a trovare un editore disposto a pubblicare qualsiasi inezia egli scriva, che poi venderà in centinaia di migliaia di copie a consumatori (non lettori), ben felici di comprare non il valore dell’opera (che non esiste) ma la notorietà dell’autore. E’ pertanto impensabile che si possa conferire valenza letteraria ad un libro sulla base del solo successo commerciale. E’ come dire che l’ultimo romanzo di Ken Follet (non so quale sia…) o la trilogia delle cinquanta sfumature di grigio… di nero… di rosso della scrittrice inglese E.L. James, siccome vendono più copie de Il Gattopardo, sono più importanti del capolavoro di Tomasi di Lampedusa. Sarebbe veramente triste e sconfortante pensare una cosa del genere. La verità è che i romanzi dello scrittore americano, che si vendono un tanto al chilo (o degli altri autori alla moda che imperversano nel panorama letterario dei nostri tempi), fra qualche anno saranno completamente dimenticati, appartengono ad una letteratura che, come direbbe lo storico Alberto Asor Rosa “non pensa”, mentre Il Gattopardo non finirà mai di dire le cose che ha da dire.
Comunque sia, io sono legato alla produzione letteraria del passato, non riesco a leggere il tanto reclamizzato “successo del momento”, il “bestseller” con i suoi serial killer, i suoi detective, i suoi commissari, i suoi chef. Quei libri con le copertine tutte uguali, dove appare quasi sempre una donna, con quelle storie mielose di amori infranti e di omicidi, storie legate al quotidiano, che rassicurano e che ammiccano – da una parte – e inquietano dall’altra, storie già ampiamente enfatizzate dalla televisione. La letteratura è altro, è quella che non deve misurarsi con i mezzi di comunicazione di massa, ma deve suggerire domande, agire come coscienza critica, suscitare riflessioni. Deve essere  luogo di metafore, di dubbi e di illusioni e deve proporsi come testimonianza e memoria.

Capisco che il confronto con gli anni precedenti può apparire nostalgico, ci sarà pure qualche suggerimento importante che si manifesta nel presente, meritevole di approfondimento  letterario, ma lo scrittore potrà coglierlo solo a distanza di anni, non oggi. Le storie dell’oggi, forse, potranno essere raccontate fra qualche decennio, a riflettori spenti e in assenza di clamore mediatico. E allora continuerò a tuffarmi nel nobile pensiero del passato, pur sapendo che prima di essere tale è stato il “presente” della sua epoca. E in ogni epoca gli scrittori hanno dovuto confrontarsi con il passato, anche se tale comparazione poteva risultare ingenerosa. Prendiamo per esempio i nostri attuali scrittori che vanno per la maggiore - penso a Baricco, Carofiglio, Veronesi, De Carlo, Volo….(l’elenco potrebbe essere lunghissimo): ebbene costoro appaiono veramente dei nani se li accostiamo a monumenti come Svevo, Pavese, Moravia, i quali diventavano molto piccoli di fronte a Proust…Mann…Hesse, pur dovendo ammettere che quest’ultimi, a loro volta, fuggivano da quei mostri sacri che si chiamavano Dostoevskij e Tolstoj.
Per finire, in attesa di poter leggere finalmente i libri di Fabio Volo o di Massimo Gramellini o di Federico Moccia o di Bruno Vespa, stimati non in base alle vendite (che sono straordinarie) ma in virtù della forza e della bellezza delle parole (di cui sono carenti), continuerò a cercare gli autori del passato le cui opere, pur non essendo mai state sponsorizzate in televisione, a distanza di anni continuano a trasmettere emozioni ed inquietudini.