Cerca nel blog

giovedì 25 febbraio 2016

Storia di una famiglia nella Trieste di fine Ottocento



Quando il libro di Fausta Cialente “Le quattro ragazze Wieselberger” venne pubblicato – correva l’anno 1976 – il sottoscritto si trovava per motivi di lavoro a Trieste, la città in cui è ambientato il romanzo. La scrittrice, sebbene fosse nata a Cagliari, considerò sempre il capoluogo giuliano come sua città elettiva in quanto la madre (Elsa Wieselberger) era appunto di origini triestine. Ricordo che in città, quell’anno, si fece un gran parlare della sua opera letteraria anche in considerazione del fatto che si aggiudicò il Premio Strega. Allora non mi lasciai irretire dal successo del libro: l’ho comprato (su una bancarella dell’usato) e l’ho letto solo in questi giorni, dopo 40 anni. E devo dire che – nonostante la Cialente faccia parte, purtroppo, di quel nutrito elenco di autori dimenticati, le cui opere si possono trovare solo al mercato dell’usato – il romanzo autobiografico conserva tutta la sua struggente e poetica bellezza. Peccato che gli editori si ostinino – lo ripeto spesso - a non prendere più in considerazione certe opere letterarie che, almeno nel loro genere, restano ineguagliabili.
Protagoniste della storia sono quattro sorelle (Alice, Alba, Adele ed Elsa, quest’ultima madre della scrittrice, come ho già detto), appartenenti ad una facoltosa famiglia irredentista della Trieste di fine Ottocento. Le vicende narrate, quelle private relative alla famiglia Wieselberger e quelle sociali,  si snodano parallelamente nell’arco di circa 50 anni, fino agli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, in un continuo incrociarsi e sovrapporsi. Al centro della narrazione,  vera protagonista del libro, è la ricca borghesia cittadina, “la piccola ignorante borghesia che noi eravamo” , con le sue contraddizioni e con le sue indifferenze, con i suoi pregi e con i suoi difetti, in continua fuga dalle sue responsabilità civili e sociali. Una borghesia che con somma alterigia sentiva la propria superiorità nei confronti del resto della società italiana. La voce narrante è quella di Fausta Cialente (prima bambina e poi donna adulta), la quale attraverso i suoi nitidi e circostanziati ricordi, spesso velati di leggera malinconia, ci parla delle gioie e delle avversità, dei successi e delle disgrazie della sua famiglia, la cui esistenza si divideva tra la bella casa in città adagiata su Ponterosso e la grande villa di campagna con giardino, orto e vigna; ma ci parla anche dei suoi continui spostamenti da una città all’altra dell’Italia che rompevano, di volta in volta, gli scarsi legami che riusciva a stabilire nelle località in cui si stabiliva (il padre abruzzese, era un ufficiale dell’esercito del Regno d’Italia “antimilitarista, antimonarchico, antimeridionale certamente e forse antitaliano; in tutti i modi antirredentista). Tutt’altra persona era invece la madre, la più giovane delle sorelle Wieselberger, una donna dedita alla cultura, alla musica, alle tradizioni familiari, che aveva ballato, una sera, con l’industriale e commerciante di vernici Ettore Schmitz, non ancora diventato Italo Svevo. E sullo sfondo delle vicende, la Trieste asburgica, con le sue architetture settecentesche di stampo mitteleuropeo e con i suoi eleganti caffè storici, crocevia di tantissime culture, avviata verso la sua lenta e inarrestabile decadenza che coinciderà con il declino della famiglia Wieselberger. E poi la guerra, presente nel libro con il suo orrore, con le sue devastazioni, con i suoi morti (parole struggenti sono quelle dedicate al cugino e all’amato fratello, morti appunto in guerra), quella guerra che “non si poteva del resto eliminare dai nostri pensieri, come un’ombra livida seduta al capezzale ci aspettava al risveglio e ci accompagnava dovunque, lo volessimo o no”.
Le pagine finali del libro, quando ormai della famiglia legata all’infanzia della scrittrice non rimaneva più nessuno, se non la massa frusciante dei suoi ricordi quale vana consolazione, sono di una rara, commovente bellezza. Pagine che da sole basterebbero a giustificare la lettura di questo libro.

lunedì 15 febbraio 2016

Sommersi dalle cicche di sigarette



Non fumo. E con questo non voglio affermare che io sia un uomo virtuoso e chi, invece, si concede il piacere del tabacco sia un vizioso. Della propria vita ognuno fa quel che vuole. C’è chi si fuma tre pacchetti di sigarette al giorno; c’è chi mangia solo hamburger e patatine fritte al McDodald’s; c’è chi considera Verdini e la Boschi i nuovi padri della patria: insomma, ognuno ha le sue piccole o grandi perversioni. E delle perversioni degli altri non me ne frega niente: mi bastano le mie. Ma se quel fumatore di prima - mettiamo che si trovi alla fermata dell’autobus - butta per terra, tra i miei piedi, i resti della sua sigaretta fumata nervosamente (il fumatore è sempre nervoso), dopo averla spenta con vigore sotto la punta della scarpa, fregandosene di chi gli sta intorno, fregandosene della pulizia della strada, fregandosene della qualità dell’ambiente circostante, fregandosene dei tombini ormai intasati, ebbene quella sua “innocua” perversione diventa pura maleducazione ed il suo comportamento incivile diviene, per me, insopportabile.  Io dico: tu vuoi continuare a fumare, a dispetto di quella funerea scritta “il fumo uccide” riportata sul pacchetto di sigarette? Bene, sei padrone di farlo, però la cicca te la devi ficcare da qualche parte (preferisco non dirti dove…lascio a te la scelta), non puoi buttarla dove capita. Devi sapere – mio caro fumatore - che le centinaia di migliaia di cicche che “abbelliscono” i marciapiedi delle nostre città, che riempiono le aiuole, che si depositano tra le grate dei tombini, che “decorano” i binari delle stazioni, che concimano i vasi dei fiori antistanti i portoni d’ingresso, che abbondano in maniera impressionante davanti a qualsiasi locale pubblico (bar, cinema, ristoranti, negozi, centri commerciali…), oltre a costituire uno spettacolo indecente e schifoso per il decoro urbano, hanno conseguenze negative in termini di inquinamento ambientale. Basti pensare che un mozzicone di sigaretta, incautamente abbandonato nell’ambiente, si decompone dopo 3 / 4 anni (in determinate condizioni possono essere diverse decine), e contiene notevoli quantità di sostanze inquinanti come nicotina, arsenico, catrame, ammoniaca ecc. E secondo i dati di alcuni studi ogni giorno, su scala globale, ne vengono dispersi nell’ambiente più di dieci miliardi. Mi viene quasi da pensare che il fumo produca meno danni di quanti ne possano causare le cicche. Siamo talmente abituati a respirare monossido di carbonio nei nostri centri abitati che i veleni provenienti dal fumo di una sigaretta certamente non aumentano, più di tanto, le probabilità di malattie polmonari. E’ quel tappeto di mozziconi di sigarette che invade ogni luogo, il vero pericolo per l’uomo e per la natura.
I fumatori sulla spiaggia, poi, costituiscono un caso a parte, meritano un discorso più approfondito: andrebbero studiati dal punto di vista antropologico. Costoro, secondo me, si dividono in quattro diverse tipologie. Alla prima, appartengono  quei fumatori che nascondono le cicche sotto la sabbia: evidentemente ci tengono molto alla pulizia dello stabilimento balneare e non sopporterebbero l’idea di vederle in giro. E’ un po’ come nascondere la polvere sotto il tappeto. Subito dopo, troviamo coloro che preferiscono invece infilarle, a raggiera, sempre nella sabbia a mò di ciliegine sulla torta, con il filtro bene in vista, come per dire: guardate quante ne ho fumate oggi. Seguono, a ruota, quelli che le raccolgono in un bicchiere di plastica pieno d’acqua, come se fossero telline appena pescate: sono convinti di fare la raccolta differenziata, salvo poi lasciare lì sulla spiaggia il bicchiere con il suo prezioso contenuto. Ci sono, infine, quelli che i mozziconi di sigaretta li lanciano con grande divertimento direttamente a mare, usando come base di lancio una leggera frizione tra l’indice e il pollice; questi bravissimi lanciatori di cicche di solito stazionano nelle prime file degli ombrelloni: avrebbero serie difficoltà se si trovassero più indietro.
 
E il povero bagnante che si appresta a trascorrere una giornata al mare, se non vuole stendersi su un tappeto di “bionde”, di tutte le misure e di tutte le marche (le più caratteristiche sono quelle orlate di rossetto, gentile e sensuale impronta delle labbra di chi l’ha fumate), è costretto a bonificare il terreno e a dissotterrare non solo il lascito dei fumatori, ma tutte le altre porcherie che vengono nascoste sotto la sabbia da quei cafoni che seguitiamo a chiamare cittadini.

venerdì 12 febbraio 2016

Fontamara: l'antica via crucis dei contadini meridionali



Fontamara è un immaginario paesino dell’Abruzzo, metafora di quel Sud povero e abbandonato da Dio e dallo Stato; ricorda profondamente i luoghi in cui visse lo scrittore abruzzese Ignazio Silone, il quale, attraverso la sua immaginazione e con l’aiuto dei suoi ricordi giovanili, diventa l’io narrante di questo suo romanzo: Fontamara. Sono i contadini, quelli che comunemente venivano chiamati cafoni, i protagonisti autentici della storia, che assurgono - forse per la prima volta - a paladini della giustizia e della rivolta. Quegli umili braccianti che non cantavano mai, neanche quando erano allegri, ma che volentieri bestemmiavano; e imprecavano non solo quando la sorte era loro avversa, ma anche quando dovevano esprimere una emozione, una gioia, o manifestare la propria devozione.

E’ un romanzo corale dove troviamo, da una parte, i “cafoni/contadini”, con le loro storie intrise di miseria, superstizione e ignoranza e, dall’altra, i “cittadini”, che sono poi le persone altolocate che più contano nel paese: il podestà, l’avvocato, il medico, il farmacista, il prete, il proprietario terriero. Queste due categorie di persone convivono nello stesso paese, ma non si incontrano mai, perché un cittadino e un cafone difficilmente possono capirsi, perché sono due cose differenti. Troppe cose li dividono. Una in particolare: la cultura. Silone fa dire ad un suo personaggio che “non serve avere ragione se manca l’istruzione per farla valere”. Infatti i cittadini trovano sempre il modo per imbrogliare i cafoni, per raggirali, per ridurli al silenzio attraverso semplici parole di difficile comprensione. Un po’ come il latinorum di manzoniana memoria, in bocca a Don Abbondio. Ma i cafoni di Fontamara, poveri e ignoranti, che avevano sopportato sempre qualsiasi vessazione come una sorta di destino divino,  possedevano mille buone ragioni per ribellarsi ai potenti del paese. Ed infatti insorsero il giorno in cui venne deciso, a loro insaputa, di deviare l’acqua di un ruscello - che da sempre aveva irrigato i pochi campi che possedevano, l’unica magra ricchezza del villaggio – per avviarla verso le terre che non appartenevano ai Fontamaresi, ma ad un ricco proprietario del paese, Don Carlo Magna.

Lo stile narrativo di Silone, fatto di un linguaggio semplice, immediato, per certi versi poco letterario, ma di disincantata umanità, rimanda a quella cultura contadina e popolaresca- da cui lo stesso autore proveniva – a favore della quale si era eletto da sempre indiscusso paladino. Egli sosteneva che la cultura e l’istruzione fossero fondamentali per il riscatto morale e sociale di un popolo. Senza cultura le battaglie sociali erano perse in partenza. Nelle intenzioni dello scrittore, il romanzo doveva rappresentare una denuncia sociale, un manifesto attraverso cui far conoscere le condizioni di estrema indigenza in cui vivevano i contadini del Meridione, da sempre oppressi da ingiustizie e malversazioni. Ma era anche l’occasione per dimostrare che anche i contadini avevano una loro dignità da difendere, che non potevano sempre essere carne da macello. Attraverso la lotta e l’impegno per la difesa di un diritto e per la salvaguardia delle loro terre, unica fonte di sostentamento, i cafoni di Silone diventano finalmente artefici del proprio destino e, per la prima volta, tentano con fatica di contrastare un potere e un destino a loro sempre avversi.

martedì 2 febbraio 2016

Dalle statue coperte alle modelle di Balthus



Sono un ammiratore di Balthasar Klossowski de Rola, in arte Balthus, nato a Parigi da padre polacco e madre russa. E’ uno dei maestri più misteriosi ed insoliti del XX secolo. Un artista molto amato e molto odiato: e solo i grandi sanno suscitare tali contrastanti sentimenti; un pittore di difficile collocazione, che detestava sia l’astrattismo che l’espressionismo ed era legato ad una sorta di realismo magico, dalla tecnica pittorica raffinata e aristocratica. Un pittore tanto antico quanto moderno.
Qualche giorno fa, mentre mi aggiravo  tra le sale delle Scuderie del Quirinale a Roma - dove è stata allestita la mostra sul grande pittore francese - mi chiedevo quali provvedimenti censori avrebbero potuto prendere gli organizzatori della manifestazione, qualora il presidente iraniano Hassan Rouhani fosse stato ricevuto in tale sede, anziché nei Musei Capitolini. E già, perché se si è arrivati ad “inscatolare” le nudità delle copie romane delle statue greche presenti in Campidoglio, per non offendere la sensibilità dell’illustre ospite (almeno così dicono, nonostante Rouhani non abbia mai presentato richieste in tal senso), non oso immaginare la reazione di siffatti organizzatori governativi al cospetto delle più “ardite” immagini dipinte da Balthus.
 
Ma lasciamo perdere questa ennesima figuraccia internazionale (in queste performance siamo maestri insuperabili) e ritorniamo a Balthus, celebrato in mostra nel settecentesco palazzo delle scuderie papali - a quindici anni dalla sua morte - con circa duecento opere, tra dipinti e disegni provenienti dai più importanti musei del mondo, oltre che da rilevanti  collezioni private. Trovandomi davanti ad un tale artista, mi viene da pensare: ma io cosa potrei mai scrivere di tanto interessante che non sia già stato scritto da persone più autorevoli e competenti di me? Nulla, evidentemente! Osservando i suoi quadri, tre sono gli aspetti che mi hanno maggiormente incuriosito e colpito: in primis, la fissa ieraticità di alcune composizioni (l’influenza dei maestri del Rinascimento è molto forte, in particolare quella di Piero della Francesca, che da giovane copiava per esercizio), poi  il colore utilizzato nelle tele, che sembra riprodurre le qualità opache dell’affresco (il pittore adoperava un particolare preparato a base di caseina), ed infine la tanto discussa dimensione erotico-sensuale, riscontrabile in quei nudi di ragazzine adolescenti, raffigurate in pose  a volte inverosimili tali da apparire sconvenienti. Tale rappresentazione si presta inevitabilmente ad una duplice lettura, si manifesta quasi sempre in bilico tra un innocente ed innocuo abbandono da parte del soggetto dipinto, tipico dell’età adolescenziale (da una parte), ed una posa maliziosa e astuta, dall’altra. Sembra quasi che le modelle-bambine che si affacciano dalle tele vogliano provocare la persona che hanno di fronte attraverso il proprio corpo ancora acerbo e facciano di tutto per assumere posizioni poco naturali.
 
Io penso che quando noi guardiamo un dipinto lo giudichiamo, innanzitutto, sulla base delle nostre percezioni sensoriali e poi in riferimento alle nostre conoscenze culturali. Quindi, il piacere o l’avversione o il turbamento che proviamo davanti ad un’opera d’arte nascono, essenzialmente, dal nostro modo di pensare, dalla nostra sensibilità, dai nostri principi morali. Insomma da quello che siamo. Ma sono reazioni che scaturiscono soprattutto da ciò che vogliamo effettivamente vedere in quel soggetto artistico, indipendentemente dal significato intrinseco dell’opera stessa. Ed allora può succedere che in un quadro di Balthus qualcuno possa intravede altro da ciò che l’autore ha voluto rappresentare, possa rimanere turbato nel lato più oscuro dell’animo, dimenticando che la bellezza non ha nulla da spartire con la fantasia pruriginosa e morbosa di chi guarda. E quando ciò accade, ecco allora che subentra la censura, il velo, la condanna, la riprovazione. Ecco allora che vengono coperte le nudità delle statue dei Musei Capitolini, non tanto per salvaguardare la presunta sensibilità religiosa di chi guarda, quanto per assecondare l’ignoranza di chi è preposto alla custodia dell’arte.

Mi piace infine ricordare che nei quadri di Balthus appare molto spesso un gatto, una presenza quasi costante e diabolica della sua pittura: “ho sempre vissuto circondato dai gatti – amava dire l’artista – e come me a volte sono crudeli, ma mai volgari”. Che poi, a pensarci bene, è la caratteristica della sua arte: provocatoria, che può graffiare come gli artigli di un gatto, a volte crudele, ma mai volgare. Tanto per smentire quel giudizio di amoralità che spesso gira intorno a quelle fredde figure di adolescenti ritratte da Balthus in pose ambigue.