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lunedì 19 dicembre 2016

Che "brutto" tempo che fa



Ho l’impressione che il principale obiettivo della televisione – almeno da un po’ di tempo a questa parte - sia quello di far regredire i telespettatori e renderli sempre più ottusi. Infatti, non capisco perché una trasmissione televisiva, che gode del favore del pubblico e della critica e, in qualche maniera, si discosta da quel format di puro intrattenimento sostenuto dalle televisioni commerciali, possa essere stravolta in peggio, così tanto per dare un segnale di cambiamento. Mi riferisco ad uno di quei programmi che – visto il grande successo che si porta dietro da oltre un decennio – va considerato il vero fiore all’occhiello della  Rai: Che tempo che fa. Fabio Fazio, il deus ex machina del programma, ha il grande merito di aver portato in televisione personalità del mondo della cultura, dello spettacolo e della società civile che vi apparivano solo raramente o, addirittura, si rifiutavano di darsi in pasto al grande pubblico televisivo. Penso a Guido Ceronetti, Gillo Dorfles, Ermanno Olmi, Paolo Poli, Carlo Fruttero, Roberto Saviano, Pietro Citati, tanto per fare qualche nome. Ma l’elenco sarebbe lunghissimo. Devo dire, inoltre, che Fazio è riuscito, con la sua istrionica abilità, ad avere nel suo studio grandi star internazionali che si negavano a tutti tranne che a lui: il “buonista” della televisione di stato - per alcuni - il “fazioso” per altri e il “furbetto”, per altri ancora. Ma diciamolo: il Fabio nazionale ha saputo, con intelligenza, catturare l’attenzione della gente grazie soprattutto all’importanza ed alla forza attraente dei suoi ospiti i quali avevano la capacità di oscurare, finalmente, le solite facce note del piccolo schermo, e sempre le stesse. Chi stava a casa davanti allo schermo aveva la possibilità di ascoltare voci autorevoli, in un contesto dove la leggerezza e la semplicità, mista al divertimento, la facevano da padrone.
Chi guarda, oggi, la trasmissione domenicale di Rai 3, Che tempo che fa, si accorge che non è più quella di una volta in quanto si è sdoppiata e, a prescindere dagli ascolti (forse sono rimasti invariati),  mi sembra che l’incantesimo che si creava tra chi parla in TV e chi ascolta da casa sia ormai finito e che la pochezza abbia preso il posto della qualità. Difatti, dopo un lungo e noiosissimo monologo della Littizzetto nella prima parte della trasmissione (mi domando perché una come lei, senza alcun merito e con quella vocina gracchiante e fastidiosa, con le sue consuete fissazioni sessuali sul walter…sulla jolanda, debba avere tutto quello spazio televisivo), vediamo, nella seconda parte, una eterogenea tavolata a ferro di cavallo, intorno alla quale siedono una decina di “commensali” ridanciani e vocianti (ex vip famosi e dimenticati, personaggi emergenti in attesa di una più alta affermazione, atleti in pensione, ecc), che si danno del tu come vecchi amici e si pavoneggiano soddisfatti. Tra gli ospiti fissi c’è Nino Frassica – per carità, un attore simpaticissimo che ormai è presente ovunque – che si esibisce come un fantomatico direttore di un giornale di gossip infilando, una dietro l’altro, le sue surreali e scontate battute tipiche del suo repertorio. Poi c’è Gigi Marzullo, il quale pone le sue domande improbabili agli ospiti presenti in studio, non per avere uno straccio di risposta – che pure si potrebbe osare, nonostante l’idiozia della domanda - ma per scatenare una scontata risata generale. E, dulcis in fundo, siede a quella tavola l’intellettuale del momento, lo scrittore di best seller più amato dalle nuove generazioni: Fabio Volo. Costui non fa che ridere per tutta la durata della trasmissione. Ride e si scompiscia alle battute di Frassica; ride a crepapelle alle domande insulse di Marzullo; ride anche quando gli si rivolge Fazio, il quale da buon padrone di casa, non nasconde il suo compiacimento per la spensierata compagnia. Insomma, ridono e si divertono tutti, ignari dei tanti telespettatori che li stanno a guardare e che - pagando il canone - vorrebbero ridere o quantomeno sorridere un po’ anche loro, ma non delle loro sghignazzate.

domenica 11 dicembre 2016

Il rosso e il nero di Stendhal



Quando mi trovo al cospetto di un grande romanzo dell’Ottocento, la cui storia si dipana in mille sfaccettature e pone in evidenza tutta la sua complessità narrativa - dalla passione amorosa a quella politica, dalla rappresentazione della società in cui sono calate le vicende alle ambizioni personali del protagonista, dai riferimenti storici, culturali e religiosi all’introspezione psicologica dei personaggi – lo confesso, mi sento decisamente in difficoltà nell’abbozzare due righe che possano dare forma ad una “recensione”. E’ come se improvvisamente mi mancassero le parole e avvertissi un senso di indefinibile inadeguatezza. In tali circostanze, sono spinto a chiedermi cosa potrei mai scrivere di tanto interessante, da catturare l’attenzione dei lettori, che non sia già stato scritto da qualcuno molto più autorevole e qualificato di me. I grandi classici della letteratura mondiale - quelli che non muoiono mai e che vengono continuamente ristampati – mi fanno sentire davvero piccolo e mi trasmettono una strana sensazione: di non essere all’altezza della loro grandezza. Se, poi, il libro non dovesse neppure piacermi ovvero mi trovassi nella condizione di leggerlo con estrema difficoltà - come a volte succede - non potrei mai avere la sfrontatezza di incolpare l’autore senza riconoscere la mia inettitudine.

Ho letto in questi giorni “Il rosso e il nero” di Stendhal, un libro pubblicato nel 1830 e devo dire che il mio stato d’animo di lettore si è scontrato con siffatti pensieri. Diciamo pure che è stato un procedere a singhiozzo nelle oltre 500 pagine del romanzo, tra alti e bassi, tra momenti di entusiasmo e altrettanti di smarrimento.

Julien Sorel, il personaggio principale del libro - intorno al quale ruota tutta la storia - è un giovane di umili origini, però molto scaltro e ambizioso il quale sogna di poter un giorno ricalcare la carriera militare di Napoleone Bonaparte, il suo indiscusso e irraggiungibile mito ( il “rosso” della divisa). Costui comprende che per essere qualcuno nella società del suo tempo (ci troviamo nella seconda decade del 1800), dovrà inizialmente vestire l’abito talare (da qui il “nero”) – vero trampolino di lancio verso il successo - o, quantomeno, avere conoscenze altolocate nell’ambiente clericale. Ma si accorge che tutto ciò non basta, perché al fine di poter migliorare la propria condizione socio-economica e scalare i gradini della casta sociale, il nostro eroe dovrà impegnarsi per essere introdotto negli ambienti politici più forti, avrà l’obbligo sociale di vestire alla moda e di conoscere famiglie aristocratiche. E, proprio in tali occasioni – sfruttando le sue belle maniere e la sua spiccata intelligenza – conquisterà le grazie delle nobildonne che lo ospitano nei loro ricchi palazzi come precettore dei figli. Assistiamo quindi alle gesta di un arrampicatore sociale che di volta in volta – con sentimenti falsi ed egoistici, pur detestando l’ipocrisia del potere – non disdegnerà di vestire i panni del seminarista, del prete, del dandy, dell’amante e dell’innamorato. Ma gli eventi che ne scaturiscono finiranno per travolgerlo.

Secondo Leonardo Sciascia, Julien è un personaggio che Stendhal si porta dentro da sempre. Questa affermazione - ritrovata nella prefazione del libro - mi ha spinto a leggere alcune note biografiche dell’autore da cui si evince che lo scrittore francese era uno spirito libero e anticonformista, che disprezzava le convenzioni sociali e la società del suo tempo, che amava viaggiare ed era un profondo conoscitore dell’arte, che non aveva un buon rapporto con la città natale e, soprattutto, ho appreso che era un inguaribile seduttore ed un tenace sostenitore di Napoleone. Caratteristiche, queste, che si ritrovano – tutte – nel personaggio che esce dalla sua penna. E allora appare chiaro che Stendhal, attraverso Julien, voglia rappresentare se stesso, la sua storia e i suoi sentimenti. Correggendo, in qualche maniera, i suoi vizi e celebrando senza sotterfugi le sue virtù.

martedì 29 novembre 2016

Hopper: il pittore che dipingeva il silenzio



Il complesso del Vittoriano a Roma ospita, fino al 12 febbraio 2017, una bella mostra dedicata a Edward Hopper, uno dei più importanti e celebri pittori americani del Novecento. Non potevo, quindi, lasciarmela sfuggire, considerata la stima che nutro da anni nei confronti di questo straordinario artista. L’esposizione pittorica - che percorre tutte le tecniche della sua vasta produzione, dalle tele ad olio agli acquerelli ed ai disegni con matita e carboncino, si snoda attraverso una sessantina di dipinti – tra paesaggi e scorci cittadini - alcuni dei quali sono ormai entrati a far parte dell’immaginario collettivo, vere e proprie icone universali. Per l’occasione, mi piace riproporre un mio post sul pittore americano, rivisto e aggiornato, scritto qualche tempo fa.
Io penso che nessun artista, prima di Edward Hopper, abbia avuto la spregiudicatezza di innalzare a dignità artistica la realtà urbana delle grandi città americane e dei suoi sobborghi. L’ha fatto per la prima volta questo pittore, nato in una piccola cittadina sul fiume Hudson nel 1882, appartenente ad una ricca e colta famiglia borghese dell’America di fine Ottocento. Attraverso la pittura, Hopper si spinse ad osservare, direi quasi a “spiare, l’interno di un appartamento o di un ufficio o di uno scompartimento ferroviario, cogliendo gli ignari occupanti immersi nelle proprie faccende private o pubbliche. La scelta di utilizzare in pittura soggetti artistici non in linea con gli ideali imposti dall’arte moderna e, soprattutto, dalle richieste del mercato dell’arte, provocò, almeno inizialmente, una reazione molto dura nei suoi confronti, sia da parte della critica americana che dell’opinione pubblica. Questa sua vocazione al realismo metropolitano, questa sua totale fermezza nel perseguire una propria linea pittorica lontana dalle mode, lo condannarono in principio all’indifferenza generale, tanto è vero che Hopper presentò a New York la sua prima mostra personale solo all’età di 38 anni, esponendo una quindicina di quadri ad olio, senza venderne nessuno. L’apprezzamento, di critica e di pubblico, sarebbe arrivato in seguito.

Hopper era attratto dalle periferie urbane e dalle stanze dei motel, dalle stazioni ferroviarie e dalle case solitarie in mezzo al bosco, dalle strade quasi sempre deserte e dai distributori di benzina isolati. E poi erano i fari, lungo le coste atlantiche, a scatenare la sua immaginazione: ne dipinse davvero tanti. Amava rappresentare la solitudine della condizione umana e gli spazi vuoti e assolati. I rari protagonisti nei suoi quadri appaiono sempre soli e, se dipinti in coppia o in gruppo, sembrano estranei gli uni agli altri e non comunicano mai tra di loro. Nemmeno Hopper sapeva spiegare il perché di questa sua strana ossessione, tant’è che scriveva: “Se potessi dirlo a parole, non ci sarebbe alcun motivo per dipingere…Perché io, poi, scelga determinati oggetti piuttosto che altri, non lo so neanche io con precisione, ma credo che sia perché rappresentano il miglior modo per arrivare a una sintesi della mia esperienza interiore”. E la sintesi della sua esperienza interiore era essenzialmente la solitudine. Hopper era un uomo riservato e timido, incapace di sentirsi a proprio agio tra la gente: amava nascondersi piuttosto che apparire. Se fosse vissuto ai giorni nostri - considerata la sua indole solitaria - credo che si sarebbe negato a qualsiasi intervista e non sarebbe stato mai ospite di programmi televisivi, così appetibili dai vip di nostra conoscenza. Probabilmente queste sue peculiarità caratteriali influenzarono anche la sua pittura che ci parla, appunto, dell’isolamento urbano e della solitudine celata dietro le cortine delle finestre o lungo una strada assolata di periferia. I suoi dipinti ci svelano quelle estreme condizioni di alienazione e di difficoltà di comunicazione vissute dagli individui che vivono nelle grandi città. Sembra quasi che Hopper, nei suoi quadri, voglia rappresentare il tempo, o meglio la sospensione del tempo, attraverso luci e ombre che si stagliano sulle cose, in assenza di persone e di sentimenti. Una volta disse: “io non voglio dipingere la gente che gesticola e che esprime emozioni. Quello che voglio fare è dipingere la luce su di un lato di una casa”.

 
Molti sono i critici che vedono nella pittura di Hopper la riproduzione dello squallore e della desolazione di una certa America. Ma io credo che il pittore americano fosse innanzitutto un attento osservatore della realtà da cui era circondato  e, attraverso la visibile solitudine che traspare dai suoi dipinti, egli intendesse rappresentare la universale fragilità della condizione esistenziale. Il suo messaggio, umano e artistico, è quello di farci riflettere sulla vera essenza delle cose e sugli aspetti più banali della quotidianità. Con le sue opere, l’artista americano ci rivela che la “poesia” si può trovare anche in una sperduta stazione di servizio, lungo una strada che attraversa un bosco e che la felicità si può percepire anche in un motel o in una sala d’attesa semivuota di una stazione ferroviaria di periferia. Perché a volte sono proprio quei luoghi, che apparentemente appaiono i più tristi e malinconici, frequentati da avventori smarriti e in rotta di collisione con la società e con la vita, a consolarci della nostra tristezza. Le hall degli alberghi, i vagoni dei treni poco frequentati, le caffetterie aperte fino a tarda notte ai lati della strada – dipinti da Hopper – diventano, così, un rifugio accogliente per quanti si sentono abbandonati e traditi dalla vita, luoghi ideali dove poter tranquillamente stemperare la propria solitudine e la propria sofferenza.
 Riesco, inoltre, a scorgere nella pittura di Hopper due aspetti che per me sono fin troppo evidenti e che traspaiono in tutte le sue raffigurazioni: da un lato, il silenzio, e credo che nessuno meglio di Hopper abbia saputo raffigurare questa astratta dimensione, irrimediabilmente perduta nell’epoca in cui viviamo, contrassegnata da rumori che non lasciano spazio alla riflessione a all’ascolto. E dall’altro lato, l’attesa, come se quei personaggi, il più delle volte dipinti da soli, aspettassero qualcuno o qualcosa, o come se in quelle case isolate, rappresentate ai margini del bosco, stesse per accadere un evento a noi sconosciuto.

 

mercoledì 23 novembre 2016

Le terre del Sacramento: quell'eterno conflitto tra signori e cafoni nel Mezzogiorno d'Italia



Sebbene non sia considerato dalla critica un capolavoro letterario da incorniciare, “Le terre del Sacramento” - Einaudi Editore - di Francesco Jovine  (il massimo scrittore molisano) rappresenta - a mio modesto parere – un libro molto interessante, una testimonianza significativa del verismo meridionale, le cui vicende sono incastonate negli anni precedenti all’avvento del fascismo ed alla vigilia della marcia su Roma. Il testo, peraltro, pur non avendo la potenza evocatrice dei grandi romanzi storici, va annoverato comunque nel filone della cultura storiografica del Novecento, quale documento di denuncia della situazione di miseria e di abbandono dei contadini meridionali all’indomani della prima guerra mondiale. Dal romanzo fu tratto anche un fortunato sceneggiato televisivo negli anni settanta, il cui cast comprendeva, tra gli altri, la bravissima Paola Pitagora e il grande Renato De Carmine.

Al centro della vicenda ci sono le terre del Sacramento – che danno appunto il titolo al romanzo - un immenso feudo molisano abbandonato da tempo, di proprietà dell’avvocato Enrico Cannavale, su cui gravano – da una parte - un groviglio di debiti, di ipoteche e di controversie legali e – dall’altra – una serie di credenze e superstizioni popolari secondo cui quelle terre, che un tempo appartenevano alla Chiesa, risulterebbero maledette; e poiché nessuno osa lavorarle, per via di quella maledizione – tranne alcune superfici date in affitto - vengono utilizzate essenzialmente come pascolo abusivo e legnatico dai contadini poverissimi del posto.

Il proprietario di questi possedimenti è un uomo abulico, rinunciatario, decadente, con idee socialiste, che vive arroccato nel suo palazzo avito circondato da servitori e serve, tra cui una sua cugina educata in un convento (Clelia) di cui ne è l’amante; dedito al bere, alle letture dei libri della sua biblioteca, alle chiacchiere con il suo amico professore di greco, appare poco incline alla cura e alla gestione dei suoi affari, ai quali provvede un suo contadino furbo e astuto che, un po’ alla volta, si impadronisce del patrimonio della sua famiglia, con imbrogli e prestiti usurari.

Inizialmente tutto appare immobile, piatto, inamovibile: da un lato i notabili del posto, con a capo il riverito Don Enrico Cannavale, il quale è sempre in vena di inutili discussioni al circolo delle professioni e delle arti e, dall’altro lato, i cafoni meridionali, la gente più umile e povera del Molise, che appare senza prospettive di lavoro, senza terra, senza un futuro degno di essere vissuto. A smuovere questa inerzia che sembra trascinarsi da secoli, provvede una giovane donna molto ambiziosa (Laura) figlia di un ex Presidente di Corte d’Appello, cugina del Cannavale - di cui ne diventa la moglie - la quale cerca di ridare ordine alle faccende economiche dell’inerte marito, attraverso lo sfruttamento delle terre del Sacramento. Per realizzare questo suo progetto, Laura si fa aiutare da un giovane studente di Giurisprudenza (Luca Marano) il quale, avendo un grande ascendente sui suoi compaesani contadini, dovrà persuaderli a dissodare le terre, in cambio di un diritto di enfiteusi sulle stesse.

Ma non tutto procede secondo le regole stabilite: assistiamo quindi ad una rivolta da parte dei contadini, capeggiati dal Marano, per la salvaguardia dei loro diritti calpestati; ma, come spesso succede, a rimetterci sono sempre loro, i più deboli, le classi sociali meno protette. Una storia amara per un romanzo storico che si addentra, ancora una volta, nella intricata e difficile “questione meridionale”.

domenica 13 novembre 2016

Quel "tuffo" che ci terrorizza

Tomba del tuffatore (Paestum)

“Nascendo moriamo e la fine comincia dall’inizio” (Michel de Montaigne)

Non possiamo nascondercelo, ma noi oggi viviamo in una società che si rifiuta, con evidente ostinazione, di affrontare il tema della morte e che addirittura ha strutturato la propria organizzazione immaginando che non esista o che non abbia alcun legame con la vita. Forse mai come adesso, il pensiero della morte ci terrorizza e facciamo di tutto per allontanarlo dalle nostre fantasie mentali. Gli animali e le piante dell’universo crescono e muoiono senza rendersene conto, noi che invece abbiamo la consapevolezza di esistere, da sempre ci interroghiamo sulla vita, ma abbiamo paura di interrogarci sul nostro trapasso.
Ma se da un lato c’è il maldestro tentativo di rimuovere il pensiero della morte dalle nostre esistenze e dai nostri discorsi, dall’altro la morte irrompe quotidianamente sugli  schermi televisivi, entra nelle nostre case come un vero e proprio spettacolo e viene mostrata nelle sue varie ed innumerevoli  rappresentazioni. E’ la spettacolarizzazione della morte degli altri. Una morte causata – il più delle volte - da tragedie familiari o naturali, il cui drammatico evento, pur generando sofferenza, ci sfiora ma non ci tocca, lo viviamo con dolore ma ne usciamo affrancati perché la morte appartiene, appunto, agli altri. E basta questo a tranquillizzarci.

Un antico filosofo greco, Crizia (discepolo di Socrate) diceva che “niente è certo per colui che è nato e vive, se non il morire perché è nato, e il soffrire finché vive”. Sembrerebbe, quindi, che la morte sia l’unica certezza che abbiamo. E allora, per alleviare le nostre antiche paure, per rendere più sopportabile la vita, cerchiamo sempre di esorcizzare la morte: con il disinteresse o con la serenità, con la fede o con la superstizione. E – da un po’ di tempo a questa parte - anche con l’applauso al morto. Con lo spettacolo televisivo della morte.
Tentiamo, inoltre, di tenerla a bada attraverso gabbie difensive sempre più sofisticate: interventi di chirurgia estetica, attività sportive, diete salutari e dimagranti, farmaci appropriati, atteggiamenti  giovanili. Nel cercare di rallentare l’invecchiamento con questi rimedi fittizi, ci illudiamo di poter sconfiggere anche la morte. Una immorale fantasia di onnipotenza su cui dovremmo stendere un velo pietoso, perché la morte altro non è che l’inevitabile conclusione della vita.

martedì 1 novembre 2016

"Un bellissimo novembre" di E. Patti: i turbamenti amorosi di un adolescente

 


Il sentimento dell’amore nella fase adolescenziale, con le sue prime pulsioni sessuali, è un tema molto sentito sia dalla letteratura che dal cinema. Da sempre, gli scrittori hanno provato a raccontare quel difficile passaggio che prelude alla maggiore età, in cui subentrano nuove passioni, mai sperimentate prima, contornate da forti scompigli emotivi e psicologici. E quando, poi, la narrazione tocca quegli aspetti un po’ scabrosi, il confine tra il lecito e il pruriginoso appare davvero molto labile. Tutto dipende, allora, dalla bravura e dalla capacità dello scrittore che si cimenta in tale racconto, affinché il risultato finale sia letterario piuttosto che pornografico. Tra i libri letti al riguardo, ricordo con grande piacere “Agostino”, di Alberto Moravia, il cui tredicenne protagonista, durante una vacanza al mare con la madre, si desta per la prima volta alla vita dei sensi. Mi viene ancora in mente il delicato libro di Alberto Vigevani “Estate al lago”, dove lo scrittore dipinge con gradevolezza la storia sentimentale di un quindicenne, il suo amore muto e platonico nei confronti della madre di un suo compagno, costellato di silenzi e contemplazione. E poi non posso dimenticare quel capolavoro che risulta essere “Il diavolo in corpo” dello scrittore francese Raymond Radiguet (morto all’età di 20 anni), che ci parla del rapporto d’amore tra un adolescente e una giovane donna già sposata.
Questa lunga premessa, per introdurre il libro di cui vorrei parlare che - nel suo genere - rappresenta un testo di rara bellezza: si tratta di “Un bellissimo novembre”, dello scrittore siciliano Ercole Patti. L’ho scovato tra i banchetti di un mercatino dell’usato, con le sue pagine meravigliosamente ingiallite (nella prima edizione Garzanti del 1971), visto che il romanzo è ormai fuori produzione. Io credo che Ercole Patti sia uno dei grandi maestri del Novecento che andrebbe riscoperto e ripubblicato; ma si sa che gli editori, da un po’ di tempo a questa parte, preferiscono rincorrere altre facce, altri autori, forse più redditizi ma sicuramente meno bravi di quelli a torto dimenticati.
Il racconto di Patti ci riporta nella Sicilia della seconda decade del ‘900, dove una famiglia benestante di Catania (tra sorelle, cognate, cugini, nipoti e amici) si appresta – come tutti gli anni nel periodo della vendemmia – a trascorrere qualche settimana di vacanza in una vecchia e grande casa circondata da una grossa vigna, arrampicata sui fianchi dell’Etna. Lo scrittore concentra immediatamente l’attenzione su due personaggi: Nino, un ragazzo di 16 anni, e la provocante ed ambigua zia Cettina di 28 anni, maritata e sorella della madre. Dapprima, il ragazzo è unito alla zia da un sottile gioco di sguardi furtivi e di contatti quasi involontari, che però bastano a risvegliare per la prima volta i suoi sensi di adolescente ed a provocargli un forte turbamento mai avvertito prima. In seguito, il rapporto di seduzione - ambiguamente portato avanti dalla zia Cettina - diventa sempre più chiaro e provocante, tant’è che Nino finisce per perdere completamente la testa per lei. La vicenda si dipana in un contesto bucolico, durante una calda estate di San Martino, tra la vendemmia e la raccolta delle castagne, la caccia alle calandre e le passeggiate nel bosco in mezzo agli ulivi e alle querce. In un susseguirsi di fugaci piaceri e dolci emozioni, di improvvisi scatti di gelosia e di penose sofferenze, per Nino la zia diventa una vera ossessione, il suo pensiero fisso che lo fiacca nell’animo: la osserva di nascosto, la segue in ogni suo movimento cercando sempre un contatto fisico con lei, un suo sguardo, una sua carezza. E quando la intravede appartata in un casolare con un suo amante, comprende che tutto è finito e che Cettina non è più sua. Si fa allora prendere dalla paura e, attanagliato dalla disperazione, fugge via in lacrime da quel luogo.
La fine tragica e commovente  della breve storia è quella che nessuno si aspetta. Con questo romanzo – che si legge tutto d’un fiato - la vena narrativa di Patti tocca vette altissime, grazie alla poetica semplicità della sua scrittura e grazie soprattutto alla sua sensibilità letteraria, capace di assorbire, con vero garbo, ogni sorta di scabrosità insita nella vicenda.

lunedì 17 ottobre 2016

Monotonia e felicità



Mi piace girovagare per le stradine dei piccoli paesi del Cilento. Sia in macchina che a piedi. Lo faccio soprattutto durante l’estate e comunque ogni qualvolta mi capita di ritornare là dove vivono le mie origini meridionali, impaziente come sono di immergermi in una realtà ancora a misura d’uomo. La cosa che sempre mi incuriosisce, passando per quei borghi avvolti nel silenzio, è osservare come alcune persone - perlopiù anziani contadini – trascorrano quasi tutta la giornata seduti davanti alla porta di casa, in piacevole solitudine. Quando ne incontro qualcuno, lo osservo e mi accorgo, dalla sua faccia incredibilmente serena, che per “vivere” non ha bisogno – come noi moderni cittadini - di leggere libri, o di viaggiare o di conoscere gente o di cazzeggiare con un telefonino o di vestire alla moda o di avere mille impegni. Niente di tutto questo. Lui se ne sta seduto in compagnia di se stesso, senza annoiarsi, senza stress e senza affanni, mentre il tempo scorre uniforme sulla sua esistenza, seguendo le stesse abitudini tutti i giorni, ignaro di un mondo diverso che sta altrove ed a cui non appartiene. E ogni piccolo imprevisto, ogni minima distrazione, come un passante che si avventura dalle sue parti e gli rivolge la parola, possiede ai suoi occhi la straordinaria capacità di destarlo da quella stagnante monotonia che lo avvolge e di cui non sembra esserne consapevole. Lo saluto, scambio qualche parola augurandogli lunga vita e mi risponde con il suo volto sorridente ed ironico: “qua non succede mai niente”. Eppure, quel “niente” che gli offre il paese in cui vive, naturale bagaglio della sua condizione umana ed esistenziale, lo rende ugualmente felice. E appare molto più felice di me che invece vivo attorniato dal “troppo”. Me lo rivela quel suo sguardo incredibilmente sereno e soddisfatto, abituato al lento e monotono scorrere delle stagioni. Mi viene da pensare che il “niente” o il “vuoto” che tanto terrore genera in chi è abituato al “pieno” (di telefonate…di oggetti…di immagini…di informazioni…di tecnologie) sia una condizione che non crea alcuna angoscia alle anime semplici.
Fernando Pessoa, nella sua celebre opera letteraria “Il libro dell’inquietudine” scriveva: “Il saggio è colui che riesce a rendere monotona l’esistenza, poiché allora ogni piccolo incidente possiede il privilegio di stupirlo”.

Per chiarire questo suo pensiero fondato sulla monotonia delle “vite comuni”, il grande scrittore portoghese prendeva ad esempio due figure: il cuoco e il cameriere in servizio presso un dozzinale ristorante dove lui pranzava tutti i giorni. E osservandoli, si chiedeva smarrito: “che vita è la vita di questi uomini?” . Notava che il primo, trascorreva quasi tutta la sua giornata in una cucina, gli erano consentite solo brevi pause, non andava mai al teatro e da quarant’anni non si era mai allontanato da Lisbona; il secondo, tutte le mattine alla stessa ora, gli posava davanti quello che poteva essere “il milionesimo caffè” servito alla clientela. E nel provare “spavento e pena e sdegno” per quelle persone che conducevano la stessa vita apparentemente piatta e incolore, ripetendo sempre gli stessi gesti con esasperante monotonia, Pessoa si accorgeva che non provavano “spavento né pena né sdegno proprio coloro che ne avrebbero tutto il diritto”. Le loro facce, anzi, esprimevano tutte le mattine una soddisfatta felicità. Per sospendere quella ripetitività, quel tran tran quotidiano, a quel cuoco bastava un piccolo incidente stradale, una rissa nella strada, insomma una qualsivoglia distrazione, anche la più irrilevante, per procurargli l’illusione di essere catapultato in una situazione magica ed interessante. Episodi, questi, che lo richiamavano con curiosità sulla porta del suo ristorante e lo intrattenevano più di quanto la contemplazione di un’opera d’arte o la lettura di un bellissimo libro potessero intrattenere lo scrittore portoghese. Insomma, cambiando il contesto, è ciò che accade al contadino cilentano seduto dinanzi alla sua porta di casa. Ma se la vita è fatta di monotonia, ovunque si manifesti – in un ristorante di Lisbona o in un paesino del Cilento - quel cuoco “continua a sfuggire alla monotonia più facilmente di me – diceva Pessoa. E secondo me anche quel contadino. E poi aggiungeva “La verità non è sua e non è mia perché la verità non è di nessuno; ma la felicità è sicuramente sua (…) Un uomo se possiede la vera sapienza, può godere l’intero spettacolo del mondo seduto su una sedia, senza saper leggere, senza parlare con nessuno, soltanto con l’uso dei sensi e il fatto che l’anima non sappia essere triste”. Tre secoli prima lo stesso concetto fu espresso da Pascal, quando scrisse che “tutta l’infelicità degli uomini proviene da una sola cosa, non sapersene stare in pace in una stanza” .

lunedì 3 ottobre 2016

"I vecchi e i giovani" di Pirandello: la secolare resistenza al cambiamento



“...Nessuno aveva fiducia nelle Istituzioni, né mai l’aveva avuta. La corruzione era sopportata come un male cronico, irrimediabile; e considerato ingenuo o matto, impostore o ambizioso chiunque si levasse a gridarle contro ”. Sembra essere l’estrema e lucida analisi delle vicende politiche dei nostri tempi; invece è ciò che si legge nel bel romanzo di Luigi Pirandello I vecchi e i giovani” (Newton Compton Editore), scritto all’inizio del secolo scorso. Nulla dunque sembra cambiato, o meglio, tutto cambia affinché nulla si modifichi, secondo il famoso detto gattopardesco.

Il romanzo, ambientato nella Sicilia post-unitaria del 1890, racconta le vicende di una ricca e nobile famiglia agrigentina composta da tre fratelli, da anni in rotta tra di loro, il cui capostipite - il sessantacinquenne principe Don Ippolito Laurentano - viveva come un esiliato - fin dal 1860 - nel suo feudo, protetto da una guardia di venticinque uomini con la divisa borbonica, proprio per attestare la sua fiera fedeltà al passato governo del Regno delle Due Sicilie. Il fratello Don Cosmo, poco più giovane di Don Ippolito, era invece un uomo votato agli studi di filosofia e, almeno apparentemente, non si era mai schierato né con i Borbone né con il nuovo Governo. Poco interessato agli affari ed ai commerci del suo feudo, può essere visto come l’alter ego dello scrittore. Costui viveva lontano dagli affanni e dalle miserie dell’esistenza umana perché avvertiva  “la vanità di tutto e il tedio angoscioso della vita”,  trascorreva le sue giornate solitarie con distacco e disincanto, perché “la vita comune non riusciva a penetrargli nella coscienza con tutti quegli infingimenti e quelle arti e quelle persuasioni che spontaneamente la trasfigurano agli altri”. A chiudere il quadro familiare era la sorella Donna Caterina, vedova di un eroe garibaldino morto nella battaglia di Milazzo, la quale, rifiutando sdegnosamente gli aiuti economici del fratelli, trascorreva la sua modesta vita con la figlia (anch’essa vedova) in una vecchia e triste casa a Girgenti.

Le vicende si sviluppano intorno a due importanti avvenimenti che caratterizzarono la vita politica e sociale di quegli anni, ossia – da una parte - lo scandalo politico-finanziario della Banca Romana (uno dei sei istituti che all’epoca erano abilitati ad emettere moneta in Italia), in cui furono coinvolti anche alcuni membri del Governo, colpevoli di aver abusato del loro ruolo istituzionale per affari illeciti, e – dall’altra - la crisi che investì le miniere di zolfo in Sicilia, che portò a scontri durissimi tra i lavoratori riuniti in Fasci e le forze dell’ordine. Intorno alla famiglia Laurentano ruotano una moltitudine di altri interessanti personaggi, rappresentativi della variegata e complessa società della Sicilia post unitaria: c’è il facoltoso e scaltro uomo d’affari; c’è il proprietario di terre e di miniere di zolfo; c’è il principe che si serve del suo amico deputato per poter sbrigare meglio i suoi affari e arricchirsi a scapito dei  più deboli; c’è l’esponente della borghesia capitalista; c’è l’operaio sfruttato…

Il libro - che va inquadrato nel filone dei grandi romanzi storici del Risorgimento italiano, come “I Vicerè” di Federico de Roberto, “l’Alfiere” di Carlo Alianello e “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa – può essere letto come un documento, se non proprio di accusa, comunque di critica al Risorgimento italiano, i cui protagonisti (i vecchi) non avevano saputo portare avanti quegli ideali di progresso e di unità per i quali avevano combattuto, sopraffatti dagli scandali finanziari e dagli interessi privati. D'altra parte non avevano saputo fare di meglio i loro figli (i giovani), anch’essi contagiati dal malaffare e dalla disonestà a scapito delle classi più povere e dei lavoratori delle miniere, i quali, seppure riuniti in “Fasci” per rivendicare i loro diritti, finirono per essere annientati e ridotti alla miseria. Insomma, un confronto/scontro tra due generazioni. Mentre la Sicilia tutta veniva sconfitta e calpestata dagli eventi e dal nuovo Governo, quella terra che “sola, senza patti, con impeto generoso s’era data all’Italia e in premio non aveva avuto altro che la miseria e l’abbandono”.

domenica 18 settembre 2016

Uomini e personaggi: realtà e letteratura



Io credo che la letteratura sia l’unico strumento espressivo che consente di avere – attraverso l’uso delle parole - un incontro ravvicinato ed esclusivo con qualsiasi tipo di personaggio, fosse anche il più spregevole moralmente. E questo, senza alcun turbamento e senza alcuna “incazzatura” a carico di chi legge. E’ noto che le persone con cui si ha a che fare tutti i giorni hanno pregi e difetti: ci si va d’accordo e ci si litiga, ci si annoia e ci si sente in perfetta armonia. Sono persone che, nella maggior parte dei casi, abbiamo scelto noi perché più vicine alla nostra cultura, al nostro modo di pensare, ai nostri interessi. Eppure, in una società così complessa come questa in cui viviamo, nonostante la tecnologia ci permetta di comunicare con i mezzi più diversi, appare sempre più difficile e faticoso confrontarsi con chi ci sta vicino. Insomma, interloquire con gli altri, ascoltare le loro ragioni o far valere le nostre, non sempre genera piacere e divertimento.
Viene allora voglia di rifugiarsi nella lettura, a volte più appagante e conciliante del confronto/scontro con i nostri simili.  E nella lettura, i personaggi che si possono incrociare sono davvero i più difformi; sono talmente stravaganti e poco affidabili che di sicuro - se li dovessimo veramente conoscere nella realtà di tutti i giorni – difficilmente desidereremmo averli come amici e credo che mai permetteremmo loro di invadere la nostra sfera privata. Questi soggetti, affascinanti o pericolosi, narcisi o inetti, buoni o crudeli, si lasciano osservare e giudicare tra le righe con distacco e disincanto, perché non entrano mai in rapporto diretto con i nostri sentimenti e non mettono in dubbio le nostre certezze e la nostra morale. Insomma, difficilmente urtano la suscettibilità o la pazienza che ci ritroviamo, come invece accade quando discutiamo con un qualsiasi conoscente.
Dai personaggi dei libri – lo possiamo ben dire – accettiamo ogni comportamento, fosse anche la peggiore delle azioni, ma non transigeremmo se una tale condotta sconveniente appartenesse ad un amico o ad un familiare. Il poeta russo Iosif Brodskij, nel ricevere il premio nobel per la letteratura nel 1987 ebbe a dire: “Mi pare che un libro, come interlocutore, sia più fidato di un amico o dell’innamorata. Un romanzo o una poesia non è un monologo, bensì una conversazione tra uno scrittore e un lettore; una conversazione, ripeto, del tutto privata che esclude tutti gli altri – un atto, se si vuole, di reciproca misantropia.  Un’opera d’arte, in special modo un’opera letteraria e una poesia in particolare, si rivolge all’uomo tête-àtête, stabilendo con lui rapporti diretti, senza intermediari di sorta”. Sia ben chiaro: esiste ancora un discreto piacere nell’intrattenersi, magari senza incorrere in eccessivi tormenti, con le persone vere. E si spera, naturalmente, che siano sempre di nostro gradimento, simpatiche e gentili e soprattutto dotate di un minimo di intelletto. Provate a discutere con un cretino in una qualsiasi circostanza: “prima ti trascina al suo livello – diceva Oscar Wilde – e poi ti batte con l’esperienza”. E provate poi a parlare con chi vuole insegnarvi a vivere o inculcarvi la sua morale o avere sempre ragione e che si crede superiore a voi. Quanta fatica e quanta pazienza occorre avere quando si incrociano siffatti individui! Eppure sono tutte persone che consideriamo normali: non escono dai libri.
Con un libro tra le mani, invece, comodamente seduti in poltrona - senza innervosirci e senza soffrire – possiamo addirittura seguire un individuo pluriomicida come Raskol'nikov, protagonista del romanzo “Delitto e Castigo” di Fedor Dostoevskij. Ma chi vorrebbe mai averlo come amico o come fratello un tale soggetto? Possiamo affezionarci, però, alla figura di Hanta, che esce dalla penna dello scrittore ceco Bohumil Hrabal, protagonista del libro “Una solitudine troppo rumorosa” . Costui è un uomo solitario che da 35 anni lavora in uno scantinato di un vecchio palazzo di Praga, pressando libri mandati al macero e bevendo ettolitri di birra, forse per dimenticare la sua condizione di solitudine. I libri più importanti, quelli che meritano di essere salvati perché contengono idee e pensieri eterni, Hanta li salva dalla distruzione ed ogni sera, quando ritorna a casa, riempie la sua borsa di quel prezioso carico. Se poi vogliamo divertirci, possiamo farlo con i due fratelli cavernicoli Edwards e Vania, protagonisti del libro “Il più grande uomo scimmia del Pleistocene” dello scrittore inglese Roy Lewis, i quali pur vivendo nell’Africa di quasi 3 milioni di anni fa, si esprimono con un anacronistico e divertente linguaggio moderno. Con un libro come “Aspettando Godot” di Samuel Beckett possiamo fare conoscenza con i due più bizzarri e insensati personaggi della letteratura: Vladimiro ed Estragone, che si incontrano per caso una sera in aperta campagna, per  aspettare un certo Godot, di cui non sanno nulla, non l’hanno mai visto e non sono sicuri se verrà a quell’appuntamento così assurdo. Possiamo poi imbatterci in Harry Haller, un intellettuale cinquantenne che non esercita alcuna professione (nessun’idea gli era più odiosa e ripugnante che quella di avere un impiego, osservare un orario, obbedire agli altri), il quale si sente metà uomo e metà lupo, dilaniato e reso infelice da questa duplice coscienza di spirito e di istinto, sempre sull’orlo del suicidio! Chi lo volesse conoscere può aprire il libro di Hermann Hesse “Il lupo della steppa”. Certo, risulta essere un amico sopportabile tra le pagine di un libro, ma chi mai potrebbe accompagnarsi a lui nella vita reale? E la stessa cosa si può dire di Cicikov, che incontriamo nel romanzo “Le anime morte” di Gogol. Questo personaggio è un affarista spregiudicato e senza scrupoli, un abile truffatore, un millantatore alla continua ricerca di potere e di ricchezze, che viaggia in lungo e in largo nella Russia zarista. E poi c’è lui: Pinocchio, di Collodi il quale ci rappresenta e ci somiglia, con i suoi vizi e le sue virtù, con i suoi momenti di tristezza e con i suoi slanci di gioia e di affetto, con la sua furbizia, ma anche con la sua ingenuità. Mi fermo qui, ma potrei continuare perché la letteratura è un pozzo senza fondo di personaggi. Però se abbiamo “voglia” di persone “normali ed equilibrate”, dobbiamo cercarle fuori dai libri. Ma attenzione: spesso sono noiose…opportuniste… invadenti…sciocche…inconcludenti. E ci fanno arrabbiare.

martedì 6 settembre 2016

Martin Eden: il sogno del riscatto sociale nell'America di fine Ottocento



Visse una vita breve ma intensa,  minata soprattutto dagli eccessi alcolici, lo scrittore americano Jack London, l’autore de “il richiamo della foresta” e “Zanna bianca”, tanto per ricordare i suoi libri più famosi. Morì suicida a soli 40 anni, scrivendo intensamente, viaggiando per il mondo e facendo mille mestieri, tra cui il marinaio. E da questa sua personale esperienza di vita nacque, probabilmente, la figura di Martin Eden, il giovane marinaio protagonista dell’omonimo romanzo (Garzanti editore), scritto qualche anno prima di morire.

La storia si dipana sullo sfondo della grande America di fine Ottocento e dei primi anni del Novecento, nel pieno della sua espansione sociale ed economica, quell’America che rappresentava il sogno di tutti gli uomini ansiosi di riscatto sociale e di miglioramenti economici, crocevia di avventure grandiose e di sofferenze, di miseria e di benessere, dove le differenze di etnia, di classe sociale e di censo erano, nonostante tutto, molto marcate. Il marinaio Martin Eden altri non è che un cittadino ventenne di quella Nazione (alter ego dello scrittore), degno rappresentante di quella società povera e sfruttata che si affacciava alla dura realtà della vita, che rincorreva il suo sogno di riabilitazione sociale, desideroso di affrancarsi da quella condizione di miseria e di sofferenze fisiche e morali in cui la sorte sembrava volerlo definitivamente destinare. Il protagonista del libro inizia a capire che lo studio, i libri, la musica e l’arte in generale sono strumenti molto potenti, capaci di restituire agli uomini dignità e libertà di pensiero, fondamentali per poter intraprendere anche un cammino di miglioramento socio/economico. E l’occasione gli si presenta il giorno in cui, invitato a pranzo a casa di un suo giovane conoscente ricco e borghese - a cui aveva salvato la vita durante una rissa tra ubriachi - resta folgorato dalla bellezza fisica e spirituale di sua sorella Ruth, prima ancora che dalla magnificenza della dimora in cui entrambi vivevano “voglio respirare l’aria che si respira in una casa come questa” - dice Martin – “un’aria piena di libri e quadri e belle cose, in cui la gente parla a voce bassa ed è pulita, ed ha pensieri puliti”.

Ruth diventa il sogno d’amore di Martin, la donna per cui valeva la pena di vivere e lottare, idealizzata come una figura sublime e divina, nonostante fosse il prototipo della ragazza conservatrice per natura e per educazione, “cristallizzata in quel cantuccio della vita in cui era nata e si era formata”, attenta alle convenzioni sociali, amante della ricchezza, espressione della facoltosa borghesia americana dei primi del ‘900. Infatti, consapevole del fascino che esercitava su quel rude marinaio, lei avverte il segreto impulso di “plasmare quell’uomo sul modello della vita degli uomini che vivevano nel suo particolare cantuccio d’esistenza” immaginando di poter condurre un giorno, insieme al suo amato, una felice esistenza senza scosse e frizioni, simile a quella che avevano vissuto i suoi genitori, che per lei costituivano l’ideale insuperabile dell’affinità amorosa.

Martin appare spaesato e impaurito, si aggira come un animale ferito in un territorio sconosciuto, così diverso dal suo; egli è alla disperata ricerca di essere accettato da quel mondo che custodiva, non solo la ricchezza, ma anche quegli strumenti culturali a cui aspirava ardentemente. Avendo sempre vissuto in un mondo meschino, ora vuole “ purgarsi da tale miseria che aveva segnato ogni giorno della sua vita, voleva innalzarsi verso il regno ideale in cui erano le classi superiori....le ricchezze che doveva riuscire ad assicurarsi a tutti i costi erano la bellezza, l’intelligenza e l’amore”.

Il raffronto tra la sua condizione sociale, intrisa di miseria e di ignoranza, e la civile società ricca e borghese a cui appartiene Ruth, rappresenta la molla che lo proietterà verso il rilancio sociale e culturale attraverso un percorso formativo di studio e di letture frenetiche, che lo porteranno verso grandi traguardi letterari, verso la ricchezza e la notorietà. Ma proprio nel momento del grande successo Martin Eden, il marinaio anarchico e indipendente, si accorge della sua inadeguatezza per quel mondo, un mondo che si rivelava un’illusione, falso e ipocrita, abitato da persone che nonostante leggessero gli stessi libri che leggeva lui, non avevano tratto da essi alcun insegnamento morale. Ma era troppo tardi per tornare indietro, nel suo mondo: anche quello, ormai, lo disgustava perché  “...troppe migliaia di libri aperti avevano creato un abisso....si era esiliato con le proprie mani, viaggiando nel vasto reame dell’intelletto sino al punto in cui non era più possibile far ritorno”.
     
Attraverso questo romanzo, bello e crudele, Jack London intende rivolgere una feroce critica a quella società borghese e perbenista dell’America del suo tempo, che rincorreva falsi miti e valori sbagliati, attenta solo agli agi e agli interessi di persone sciocche, infantili e superficiali.

venerdì 2 settembre 2016

Una poesia al giorno...


Dicevano gli antichi che una mela al giorno leva il medico di torno. E se ci mettessimo pure una poesia?
 
CHI SONO

Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell'anima mia:
"follia".
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell'anima mia:
"malinconia".
Un musico, allora?
Nemmeno.
Non c'è che una nota
nella tastiera dell'anima mia:
"nostalgìa".
Son dunque... che cosa?
Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell'anima mia.


(Aldo Palazzeschi)

 

venerdì 12 agosto 2016

I luoghi dello spirito: la Certosa di Padula



Lo confesso: i monasteri hanno sempre esercitato su di me un fascino misterioso, direi quasi una straordinaria e indefinibile attrazione. Li percepisco come i veri luoghi dello spirito, del silenzio e della meditazione. Sarà perché il rumore, la confusione, il degrado e la massificazione dei comportamenti che regnano nei posti in cui vivo abitualmente hanno ormai raggiunto livelli insopportabili, fatto sta che a volte avverto uno strano desiderio: rifugiarmi, come una sorta di monaco laico, tra le mura di uno dei tanti monasteri presenti sul nostro territorio. E se proprio dovessi sceglierne uno, da buon cilentano, non avrei alcun dubbio: la certosa di Padula, detta anche di San Lorenzo, in provincia di Salerno. “Qui c’è la pace sicura, di qui l’ingresso al cielo, rimani qui tranquillo, ti attende la vera pace”. E’ la scritta che domina il portale di accesso al chiostro di questo imponente e sontuoso complesso monumentale, credo il più grande d’Italia con oltre 50.000 metri quadri fra ambienti coperti, cortili, chiostri e giardini. Fu eretto nel 1306 - quale centro politico e religioso del Meridione - dal principe Tommaso II Sanseverino, appartenente ad una delle più blasonate famiglie del Regno di Napoli. E’ un autentico capolavoro urbanistico i cui spazi sono regolati da criteri estetici e funzionali davvero straordinari, nel rispetto rigoroso degli equilibri gerarchici propri di una abbazia e dei simboli cui fanno riferimento.

Semplicità e splendore, magnificenza e rigore convivono sapientemente in questo monastero-città, costruito per ospitare raffinati certosini provenienti dal fior fiore delle famiglie nobili del tempo, la cui suprema aspirazione era quella di dedicarsi all’ozio ed alla contemplazione, alla preghiera ed al lavoro della terra. Senza dimenticare che i certosini volevano anche stupire gli ospiti illustri che non disdegnavano un soggiorno in questo centro religioso. E allora pensarono ad una superba struttura architettonica in cui all’umiltà della vita monastica si contrapponesse la ricchezza degli ambienti architettonici. Cosicché al decoro spartano delle 34 celle presenti nel monastero, ognuna delle quali ha il suo giardino e la sua vasca piena d’acqua, dove i monaci in pieno isolamento trascorrevano la loro vita fatta di preghiera, meditazione e lavoro, si rispondeva con lo sfarzo del salone delle feste (il refettorio) con il pavimento di marmi policromi intarsiati, dove i monaci mangiavano in occasione di alcune particolari ricorrenze. E poi la magnificenza della chiesa a navata unica ricca di decorazioni tipiche del barocco napoletano, di stucchi dorati, di pavimenti maiolicati e altari e cappelle marmoree e con la monumentale porta d’ingresso trecentesca in cedro del Libano. Suggestivi sono i tre chiostri, dove “chiuso e aperto” convivono in splendida armonia, in particolare il Chiostro Grande che non ha eguali al mondo per le sue misure (104 x 150 m.), su cui affacciano le celle dei monaci, al centro del quale si erge una maestosa fontana barocca del 1640.
 
Caratteristica la cucina, con la sua grande cappa posta al centro, costellata di maioliche di Vietri sul Mare, gialle e verdi. Secondo la leggenda qui fu preparata la famosa frittata con mille uova in onore del re Carlo V d’Asburgo. Splendido appare l’ appartamento del Priore formato da dieci sale (ospita il museo provinciale della Lucania) che si apre su un bellissimo chiostro rettangolare del XVIII secolo. Non poteva mancare la biblioteca contenente alcuni testi rari, raggiungibile al primo piano del Chiostro Grande attraverso un grandioso scalone ellittico di 38 scalini, vero e proprio miracolo ingegneristico, chiuso all’esterno da una torre ottagonale. E per finire i meravigliosi giardini che si estendono intorno al complesso monumentale con le loro essenze profumate. Si eleva su tutti il Desertum, giardino all’italiana del Settecento, un tempo coltivato ad ulivi, usato dai monaci di clausura durante le loro uscite esterne.
Un visitatore del passato ebbe a dire: “una prigione d’oro per reclusi snob”.

martedì 2 agosto 2016

Sartre e Abbagnano: nausea e saggezza





Penso che nessuno meglio del filosofo Jean-Paul Sartre, che aveva vissuto la nausea, avrebbe potuto tradurre tale condizione psicologica in un’opera letteraria. Ho letto la prima volta “La nausea” (Einaudi Editore) negli anni ormai lontani del liceo, quando ancora la mia formazione culturale non solo non  era ben definita ma non era stata ancora influenzata ed arricchita da altre opere che sarebbero arrivate copiose in seguito. La molla che mi ha spinto a riprenderlo una seconda volta è stata, probabilmente, la lettura de “La saggezza della vita” di Nicola Abbagnano (Rusconi Editore), un libro completamente diverso che avevo appena terminato di leggere, un libro che ispira fiducia, che trasmette utili insegnamenti per vivere una vita serena o quantomeno accettabile, in antitesi al messaggio poco ottimistico che si può trovare, invece, in Sartre.
 

Devo dire che l’interesse che mi spinge  a rileggere un libro, o anche a comprarne uno nuovo, nasce spesso da qualche “riferimento” legato al testo precedente. E i due libri sopra menzionati, seppure diversi nella trattazione e nell’intendimento letterario degli autori, secondo me sono comunque legati dalla stessa tematica: la condizione esistenziale dell’uomo moderno. “La saggezza della vita”, intravede nell’esistenza degli uomini momenti di serenità e felicità, invece “La nausea” non vi trova che delusione, scoramento e frustrazione. I due grandi filosofi, Abbagnano e Sartre, sono i degni rappresentanti dell’esistenzialismo filosofico, ma mentre il primo denota un approccio positivo e ottimista nei confronti della vita, il secondo esprime un pensiero alquanto pessimista sui diversi momenti dell’esistenza umana.

“La Nausea” di Sartre non è un romanzo nell’accezione autentica del termine, in quanto non presenta un chiaro evento narrativo, non rispecchia i canoni tradizionali della narrazione collegati ad una storia con un’origine ed una fine; appare, piuttosto, come una sorta di diario filosofico del protagonista il quale, esaminando le ragioni della propria esistenza e rispecchiandosi nel mondo che lo circonda, si sente avvolgere inesorabilmente dalla nausea. E’ un tipo introverso, il protagonista del libro, che vive appartato nella stanza di un albergo, esce per fare solitarie passeggiate, spesso di notte, frequenta qualche bar senza legare mai con nessuno e ogni tanto si porta a letto la figlia della padrona del ristorante dove consuma i suoi pasti. Scopre, giorno dopo giorno, che la vita è vuota, assurda, priva di senso e senza alcuna speranza: egli esiste come una cosa, come tutte le cose che lo circondano. E tutto ciò gli provoca nausea, così come prova nausea nell’osservare gli abitanti della città in cui vive alle prese con i riti quotidiani del vivere: il lavoro, il ritorno a casa, gli affetti familiari, la passeggiata domenicale, quella normalità che li fa sentire vivi e normali, ma che a lui provoca solo disgusto.

Ma per Nicola Abbagnano la vita dell’uomo non può reggersi e continuare senza un minimo di saggezza. E solo la saggezza può “trattenere l’uomo dal distruggersi con le sue stesse mani, dall’abbassarsi al livello bestiale, dal disperdersi nella noia e nella disperazione”.
Due libri, due visioni del mondo, due modi diversi di affrontare la vita: esistenzialismo positivo contro esistenzialismo negativo, saggezza contro nausea. Con la speranza, per quanto mi riguarda, che la prima condizione possa prevalere sulla seconda.
 

venerdì 22 luglio 2016

A Milano non fa freddo


Chi non ricorda quella scena memorabile del film “Totò, Peppino e la malafemmina” in cui i due grandi attori napoletani, nei panni di due fratelli,  arrivano nella stazione di Milano - in piena estate – entrambi intabarrati in un cappotto con il collo di pelliccia, colbacco e stivali da neve, convinti che nel capoluogo lombardo faccia sempre freddo, a prescindere dalla stagione. “Ma si può sapere che c’hanno da ridere ?”, dice Peppino osservando gli altri viaggiatori che sghignazzavano al loro passaggio. E Totò di rimando: “Ti sei mai visto in uno specchio? Tu vestito da milanese sei ridicolo”

 
 
Nel leggere il libro di Giuseppe Marotta “A Milano non fa freddo” (edizione Bompiani), non potevo non ricordarmi di quelle celebri immagini cinematografiche, capaci di ironizzare su una vecchia credenza popolare. Per gli emigranti che partivano soprattutto dal sud dell’Italia in cerca di fortuna e di lavoro, Milano era per antonomasia la città del freddo e della nebbia, dello spaesamento e dell’estraneità. Il freddo, per chi proveniva dai paesi caldi e luminosi del Mezzogiorno d'Italia, era quasi sinonimo di ostilità. E ostili dovevano apparire i suoi abitanti che parlavano una lingua a volte incomprensibile per chi conosceva solo il dialetto del paese di provenienza. Il libro di Marotta “A Milano non fa freddo” sembra sfatare  tale leggenda. E non solo nel titolo.
E’ una raccolta di brevi racconti in chiave autobiografica, velati a volte di soffusa e struggente malinconia, dedicati alla città che accolse lo scrittore partenopeo, nato a Napoli nel 1902. Egli infatti si trasferì a Milano nel 1925, all’età di 23 anni, per intraprendere la carriera di giornalista e scrittore. Aveva saputo che proprio a Milano “esisteva un professionismo giornalistico e letterario”. E questi brevi scritti, ognuno dei quali porta un titolo, non sono altro che brandelli di vita, paesaggi dell’anima; sono ricordi di avvenimenti accaduti o evocati che sembrano distendersi sulle ali della nostalgia; sono descrizioni amare e poetiche di una Milano che non esiste più.  “Gli uomini della mia specie – scrive Marotta nel suo libro – periscono in qualsiasi impresa che non sia quella di allineare parole sulla carta: tutto ciò che avrei potuto e dovuto fare nella vita io l’ho scritto o lo scriverò un giorno o l’altro; dubiterei della mia esistenza se, bene o male, non la vedessi stampata sui giornali e nei libri; nessuno sa che vorrei scrivere meglio al solo scopo di vivere meglio”. E chi poteva offrirgli la possibilità di scrivere meglio per vivere meglio se non Milano? Ecco allora che il capoluogo meneghino, nonostante le sue difficoltà e le sue contraddizioni, diventa il paese dove non fa freddo, ospitale e disponibile perché sa accogliere chi vi arriva e chi vi soggiorna.

martedì 12 luglio 2016

Il quartiere: luogo dell'anima



Avevo sentito parlare tante volte di Vasco Pratolini, ma non avevo ancora avuto l'occasione per leggere questo bravissimo autore, nato a Firenze nel 1913 e morto a Roma nel 1991. Ho colmato questa mia lacuna – diciamo così - attraverso la lettura de “Il Quartiere” che, pur non essendo il suo libro più importante, riveste tuttavia una sua rilevanza letteraria in quanto abbraccia quella tematica tanto cara allo scrittore fiorentino: i giovani e la loro difficile condizione sociale ed economica, appartenenti alle classi sociali più umili, colti nel passaggio cruciale dall’adolescenza alla giovinezza ed alle prese con i loro sentimenti ancora acerbi. E sono sentimenti semplici ed eterni come l’acqua che sgorga dalla fontana dissetandoli, senza che possano percepirne il sapore, o come il pane di cui si nutrono senza conoscerne la composizione.
La storia non è lineare e non è facile poterne riassumere la trama perché tanti sono gli episodi, gli amori, le amicizie che si intrecciano e si disfano in quel luogo corale di affetti e di esperienze comuni che è il quartiere. Eugenio Montale, all’uscita dell’opera, lo definì “un romanzo di ragazzi, e non per ragazzi”. La voce narrante del romanzo è quella di Valerio – che si definisce uno scrittore – che ama Luciana (o meglio, lui lo crede e lo spera), però gli piace anche Marisa, la quale aveva già avuto diversi fidanzati, a cui fa la corte Carlo, il più cattivo del gruppo, tant’è che irride la timidezza di Valerio. Maria, la sorella di Arrigo, che era stata per diverso tempo il pensiero peccaminoso di Valerio, si sposerà con Giorgio, il più grande del gruppo, mentre Arrigo convolerà a giuste nozze con Luciana. Poi incontriamo Gino…Olga…Berto…e tanti altri. Una comunità di ragazzi che viveva nel quartiere di Santa Croce a Firenze, negli anni in cui il Fascismo non lasciava molto spazio alla libertà e alle iniziative di nessuno. Erano figli di operai, falegnami, calzolai, maniscalchi, meccanici che abitavano in case buie, umide e fredde d’inverno, ma pulite ed in ordine. La loro vita si svolgeva nelle strade e nelle piazze del quartiere. Divisi in gruppi, secondo le amicizie, le affinità, le occasioni, sognavano una esistenza migliore, resistendo nella propria casa e nel proprio quartiere, contenti di essere amici. “Eravamo creature comuni – dice uno dei personaggi del libro - ci bastava un gesto per sollevarci collera o amore. La nostra vita scorreva su quelle strade e piazze come nell’alveo di un fiume (…) Avevamo imparato a fare un viluppo dei nostri affetti, intrecciati l’uno all’altro da privati rancori, da private dedizioni”.

Un romanzo che si legge velocemente, scritto con una prosa fluida e vivace, a volte velato di leggera malinconia. E’ l’affresco di un microcosmo che non esiste più, rappresentativo di una generazione molto diversa da quella attuale i cui componenti, tra dubbi, certezze e contraddizioni,  pur vivendo in un’epoca in cui le ristrettezze economiche, la guerra e le difficoltà costituivano pane quotidiano, tuttavia non disperavano. E visti i tempi particolarmente complicati che oggi  si ritrovano a vivere i nostri giovani – tempi forse meno bui di quelli che furono – direi che “Il quartiere” può essere letto come un inno alla speranza.

martedì 5 luglio 2016

La solitudine della città



Esiste un vecchio pregiudizio duro a morire, secondo cui  chi oggi sceglie di vivere in maniera poco “visibile”, in una condizione di solitudine – direi quasi da eremita - chi non si fa vedere in giro e sceglie il silenzio al rumore, i ritmi più lenti alla vita frenetica, sia da considerare un misantropo, uno poco portato ai rapporti interpersonali ed alle amicizie. E’ un’idea davvero bislacca pensare che una persona che si ritiri in campagna - e quindi al di fuori di un contesto urbano – abbia necessariamente un carattere introverso e poco incline alla socialità, al divertimento, al confronto con gli altri. Come se la sola presenza di una moltitudine di persone in un determinato posto possa, come per incanto, garantire felicità e conoscenze. Secondo Leopardi il vero misantropo non è colui che si isola dal mondo, ma chi invece vive tra gli uomini. Infatti così scriveva: “Chi pratica poco cogli uomini, difficilmente è misantropo. I veri misantropi non si trovano nella solitudine, si trovano nel mondo. Lodan quella, si bene; ma vivono in questo. E se un che sia tale si ritira dal mondo, perde la misantropia nella solitudine”.

Sapeste quante volte mi sono trovato a passeggiare in una qualsiasi strada superaffollata del centro di Roma e sentirmi completamente isolato ed abbandonato, attanagliato da una sorta di solitudine angosciante! E sapeste, invece, quante altre volte mi è capitato di trovarmi da solo nella mia campagna, nel Cilento, o di passeggiare lungo una stradina appartata di paese, e non sentirmi mai solo, non avvertire quello strano isolamento che percepisco girando tra la folla anonima di una città durante un pomeriggio di una qualsiasi domenica. E che dire, poi, di quei vecchietti di città che trascorrono le loro lunghe giornate seduti su una panchina all’interno di qualche prato spelacchiato di periferia, tormentati dalle macchine, dallo smog, nascosti dagli enormi cartelloni pubblicitari che tolgono loro anche la poca aria che respirano. Che pena mi fanno, quanta tristezza mi procura una simile visione! Eppure, la stessa immagine di vecchiaia, le stesse persone anziane sedute a chiacchierare sul sagrato della chiesetta del loro paese, mi trasmettono altri sentimenti, altre sensazioni. E sono sensazioni di serenità e di tranquillità.

Direi che è fondamentale il contesto in cui avvengono e maturano i rapporti umani, in cui si manifestano le relazioni sociali, gli incontri ed il confronto con gli altri. Salutare uno sconosciuto che incroci mentre percorri in bicicletta un viottolo di paese, non è come incontrare il tuo simile su un autobus affollato nell’ora di punta: nel primo caso avverti sentimenti di amicizia e di solidarietà nei suoi confronti, nel secondo, invece, scopri amaramente di detestarlo perché è attaccato a te come una sardina in scatola, non ti fa viaggiare comodo e ti dà fastidio. A volte ho l’impressione che la città mi allontani dagli uomini e che la campagna, al contrario, mi avvicini ad essi.

domenica 26 giugno 2016

Le virtù della classe dirigente


Proprio oggi “Il Fatto Quotidiano” ha chiesto ad alcuni opinionisti cosa pensassero dei 5 Stelle e cosa servisse loro per poter amministrare bene il Paese. Tra i tanti interpellati, mi piace qui riportare quello che ha detto il sociologo Domenico De Masi il quale, dall’alto della sua straordinaria lungimiranza – tra il serio e il faceto - fa riflettere amaramente sulle peculiarità della classe dirigente italiana.

“Diciamolo subito: - dice De Masi - i 5 Stelle non sono pronti a governare. Per essere classe dirigente prima di tutto ci vuole la faccia giusta: quella rapace di La Russa, quella greve di Salvini, quella stitica di Monti, quella paracula di Mastella. A paragone, quelle di Appendino o della Raggi sembrano facce di cresimande. E, comunque, la faccia non basta. Per essere classe dirigente ci vuole anche la parola alata di Vendola, quella sibillina di Moro, quella cafona di De Luca. E, dietro le parole, ci vogliono le idee: quelle sgangherate di Alfano, quelle perfide di Ichino, quelle variopinte di Gasparri. Insomma, per diventare classe dirigente occorre l’ingenuo candore di Andreotti e l’adolescenziale stupore di Scajola, la santità di Previti e la trasparenza di Gianni Letta, il giovanile coraggio di Napolitano, la pluridecennale esperienza governativa della Boschi e la specchiata onestà di Ciancimino. I 5 Stelle non hanno nessuna di queste virtù. Con quale faccia tosta possono pretendere il governo di un Paese come l’Italia?”

Domenico De Masi (Il Fatto Quotidiano)