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martedì 30 giugno 2015

Breviario del caos



Albert Caraco è un delirante pensatore francese, un tagliente provocatore, uno spietato osservatore della fragilità dell’esistenza. Riesce a scrivere con lucida follia, come in trance,  tutto ciò che probabilmente altri intellettuali, pur approvando, non sarebbero in grado di fare: per paura, per non essere additati come oscuri nichilisti, per non essere considerati catastrofisti. Si definisce anarchico e nichilista “...e il futuro dirà che saranno gli unici chiaroveggenti”.

Con questo suo breve scritto filosofico che si intitola “Breviario del caos” - raggruppato in una serie di aforismi dal ritmo martellante - celebra una sorta di canto funebre su ciò che sta morendo: la civiltà occidentale così come si presenta oggi ai nostri occhi, con tutte le sue contraddizioni, le sue ingiustizie, le sue aberrazioni, i suoi falsi idoli. Si definisce un solitario e misconosciuto profeta della sua generazione (è morto suicida negli anni settanta) “murato vivo nel silenzio anziché essere arso sul rogo”. Attraverso la sua prosa trasparente, Caraco appare un degno rappresentante di quel pessimismo estremo e distruttivo imperniato sulla tragicità della vita, quella vita vissuta dall’uomo moderno in un mondo sempre più caotico e delirante “...in un mondo che diventerà sempre più duro, più freddo, più cupo e più ingiusto”, in città sempre più disordinate e invivibili diventate “il ricettacolo del frastuono e del tanfo...caos di edifici dove ci ammassiamo a milioni, smarrendo le nostre ragioni di vita...”, il nostro incubo quotidiano, assurde e violente, degne rappresentanti della negazione del bello, così come veniva inteso nel passato “tutto ciò che si edifica è di una bruttezza mostruosa e noi non sappiamo più costruire templi, palazzi o tombe, piazze trionfanti o anfiteatri. A ogni passo la vista è offesa, l’orecchio assordato e l’olfatto messo a dura prova”. E per cambiarle, queste città, il filosofo francese dice che non abbiamo altra scelta che distruggerle, insieme agli uomini che le abitano “...e verrà il giorno in cui plaudiremo a quest’olocausto”.

Per Caraco la morte è sempre presente nella vita degli uomini, è il principio che sovraintende le nostre azioni e le nostre idee “è per la morte che noi viviamo, è per la morte che amiamo ed è per lei che procreiamo e sgobbiamo”.

L’autore di questo libro si scaglia violentemente contro quella massa tracotante e meschina di uomini che lui chiama “sonnambuli”; costoro si credono liberi ma sono invece legati, più di quanto non desiderino e più di quanto non avvertano, manovrati e tiranneggiati quotidianamente dal potere dominante - i nostri padroni - “che sono sempre stati nostri nemici”, a cui non conviene mai che questa massa di uomini esca dal sonno letargico in cui è immersa, altrimenti diventerebbe ingovernabile ed incontrollabile “...e per impedirci di riflettere ci propinano spettacoli insulsi, che ottundono la nostra sensibilità e finiranno per guastarci il cervello...stiamo tornando al circo di Bisanzio e così ci dimentichiamo dei nostri problemi, senza però che questi problemi si dimentichino di noi, domani li ritroveremo, e sappiamo già che quando saranno insolubili andremo alla guerra”.

Pronuncia parole di fuoco contro il sovraffollamento della terra, contro quella “massa di perdizione” che sta distruggendo il pianeta, dando la colpa e la responsabilità alle religioni, a cui occorrono sempre più “fedeli” e agli industriali ai quali servono sempre più “consumatori”. E questa massa di consumatori sta diventando sempre più stupida “tra i nostri mezzi sempre più intelligenti”. E, affinché sia possibile una restaurazione dell’uomo, un nuovo umanesimo e quindi un nuovo mondo, è necessario che la folla, “tomba dell’umano” si estingua, e che il mondo sia abitato da poche eletti, che daranno vita ad un nuovo ordine planetario, perché “la salvezza non ha più senso quando si è in molti miliardi a pretenderla”.

lunedì 22 giugno 2015

Il senso della notte



Quando entro in una qualsiasi libreria mi lascio piacevolmente irretire, prima ancora che dalla bella copertina di un libro, dal suo titolo. Se non conosco l’autore, devo assolutamente aggrapparmi a qualcosa di concreto per poter prendere tra le mani proprio quel testo e sfogliarlo. E il titolo è la cosa che più mi colpisce. Così è stato per questo piccolo libro edito da Sellerio che si intitola “Il senso della notte”. Un titolo che racchiude un mondo, quello appunto legato alle tenebre, che evoca immagini e sensazioni; una espressione che sembra custodire il mistero stesso dell’esistenza e alludere alla paura della morte. Ma non è detto che un bel titolo – che è pur sempre una valutazione soggettiva - significhi necessariamente un bel libro.

Il senso della notte è la prima opera narrativa di Giovanni Ferrara, lo zio del più famoso giornalista Giuliano: quest’ultimo già comunista, già conduttore televisivo, già direttore del Foglio. Quando fu pubblicato, nel 1995, l’autore aveva 67 anni ed era un professore di Storia antica all’Università di Firenze. Si spense a Pavia nel 2007. Non credo che questo suo breve romanzo sia da annoverare tra i capolavori della nostra letteratura, tant’è che difficilmente lo riprenderò per rileggerlo, come spesso mi capita di fare con i grandi libri.

Il protagonista del romanzo – che a mio avviso potrebbe essere lo stesso scrittore, attraverso la voce narrante di una terza persona – ripercorre la sua vita e lo fa solo attraverso il racconto di tre fondamentali eventi, che costituiscono altrettanti capitoli del libro.
In primis, gli anni della sua giovinezza, durante i quali si alzava prestissimo la mattina e si coricava tardissimo la sera, per studiare perché “aveva capito che per diventare un dotto bisogna vivere come pazzi ed è praticamente indispensabile cominciare a suicidarsi a diciassette o diciotto anni se non addirittura prima, ciò che del resto è verissimo ma le persone così dette colte non lo sanno”. Questa abitudine lui la definiva solitudine studiosa e gli pareva infatti, a quel tempo, il massimo concepibile di felicità che gli fosse concesso di raggiungere.
Nel secondo capitolo ricorda la lunga e irripetibile notte, situata nella storia, legata al passaggio sotto la finestra di casa sua dei soldati tedeschi in ritirata dopo la battaglia di Roma nel giugno del 1944. Una notte carica di un’attesa gioiosa “per la sicurezza che l’odiato tedesco se ne andava e arrivavano gli amati Alleati”.
Ed infine l’autore ripercorre con la memoria una passeggiata in montagna, nell’agosto del 1975, sui luoghi della Grande Guerra il cui ricordo “entrò a far parte delle occasioni che si definiscono indimenticabili”, tale da produrre nell’animo del protagonista una profonda commozione nel visitare quelle rocce che conservavano la traccia inconfondibile di una lunga guerra, patita nella feroce immobilità delle trincee e dei rifugi.

Aleggia su tutto il libro la banale realtà dello scorrere irreversibile del tempo, con le sue giornate luminose ma soprattutto con le notti, che per il protagonista sono sempre legate ad un senso di imprevedibilità e minaccia. Devo dire, inoltre, che con la sua scrittura contorta e monotona, più simile ad un verbale di un commissariato di polizia che non a un testo letterario e con i lunghi periodi, i cui concetti spesso vengono ripetuti, la lettura del libro appare poco appetibile. Ma sono solo 93 pagine.

mercoledì 17 giugno 2015

Ma come parla?!



Solo la lettura di buoni libri ha la straordinaria capacità di rinforzare il nostro vocabolario, che oggi appare sempre più povero. E la colpa è anche dei mezzi di informazione di massa, compresi quelli tecnologici, che spingono con forza verso un linguaggio piatto e omologato. Ricordo una famosa scena di un film di Nanni Moretti “Palombella rossa” (era il 1989), in cui un pallanuotista (Nanni Moretti) urla alla giornalista che lo sta intervistando: “Ma come parlaaa? Ma come parlaaa? Le parole sono importanti! Lei parla in modo superficiale, chissà come scrive”. E poi, preso dalla rabbia e non riuscendo a trattenersi, la schiaffeggia sonoramente. Ma qual era il torto di cui si era macchiata la malcapitata giornalista? Aveva usato un linguaggio banale, frasi fatte come matrimonio a pezzi … alle prime armi, aveva adoperato termini generici o facili anglicismi alla moda come trend negativo … kitsch, al posto delle più appropriate e belle espressioni italiane. La condanna dei luoghi comuni non è racchiusa solo in quel film, ma costituisce quasi una costante delle opere cinematografiche di Nanni Moretti. Chi non ricorda la satira sul linguaggio dei giovani degli anni settanta nel film Ecce bombo? Ancora sorrido se ripenso a quel celebre dialogo tra Cristina e Michele – due dei tanti personaggi del film – quando, alla domanda di Michele: “come campi?”, Cristina risponde: “Mah…: giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose”. 
Va detto che il regista romano non ha preso di mira solo il linguaggio dei giovani, ma anche quello della politica che sempre più spesso è astruso, incomprensibile, vuoto di significati, ripetitivo. Famosa la sua frase rivolta ad un politico in difficoltà durante un comizio: «D’Alema, dì una cosa di sinistra… reagisci!».

Ho l’impressione che al giorno d'oggi le parole abbiano perso il loro significato: basta accendere la televisione e soffermarsi per qualche minuto a guardare uno dei tanti talk show (chiedo scusa a Nanni Moretti, ma mi è scappato…), per rendersi conto che certi personaggi – e sempre gli stessi – infilano una dietro l’altra una serie di frasi fatte  che, al confronto, la giornalista di Palombella rossa appare una persona erudita. E allora può capitare di ascoltare perle di saggezza come: “la violenza va sempre condannata, senza se e senza ma” e se poi, durante un corteo, un manifestante se la prende con una vetrina, c’è sempre qualcuno in studio che pontifica: “sfasciare una vetrina è di una violenza inaudita! ”, senza dimenticare che “i violenti vanno sempre isolati”. Se poi il dibattito verte sui problemi della giustizia, ebbene l’intelligente di turno non ha dubbi: “le sentenze vanno sempre rispettate”; mentre l’indagato presente in trasmissione (quello non manca mai) è sereno perché ha “piena fiducia nella giustizia che farà il suo corso”. Potremmo continuare all’infinito, ma mi fermo qui.
Secondo Erri De Luca, oggi assistiamo ad una “perdita di responsabilità della parola e cioè la parola è diventata prevalentemente pubblicitaria”. Questo vuol dire che nel momento stesso in cui viene pronunciata - dal politico o dal giornalista di turno – deve servire unicamente a magnificare il proprio ragionamento, a convincere in maniera subdola il telespettatore o il lettore cui è rivolta, così come avviene per un qualsiasi prodotto commerciale reclamizzato. E anche se quella parola afferma il falso (come da prove documentali), le viene riservata la stessa dignità di una verità sacrosanta. Con l’aggravante che chi l’ha pronunciata non pagherà alcuna conseguenza.

Allora, dobbiamo appropriarci della nostra lingua, delle nostre belle parole; e le migliori le troviamo soltanto nei libri: sono le uniche che possono combattere quelle ingannatrici degli imbonitori televisivi. Le parole televisive sempre più spesso sono urlate, come se strillare possa rafforzare la verità o la ragione di chi, in maniera violenta, si scaglia contro l’interlocutore che ha di fronte. Ma quando si alza la voce per sovrastare quella degli altri, significa che siamo ad un passo dagli insulti, sostitutivi del dialogo e delle parole.

Secondo me la televisione – ad eccezione di alcuni rari programmi – promuove tutto tranne la parola, intesa quale strumento nobile che sappia raccontare e coinvolgere, comunicare e istruire. La televisione è popolata da tantissime persone che si autoincensano dalla mattina alla sera, mettendo in risalto il loro narcisismo; per loro l’aspetto fisico, il modo come si presentano, l’apparenza sono molto più importanti di quello che dicono. Ed ecco allora che le parole perdono di significato, non sono giudicate importanti, non costituiscono - per chi le pronuncia - un segno distintivo di diversità capace di arricchire culturalmente chi guarda ed ascolta. Sono parole morte che irretiscono, ma nello stesso tempo offuscano la mente. Sono parole prive di responsabilità.

lunedì 8 giugno 2015

L'ombra delle colline



Giovanni Arpino era un versatile scrittore e giornalista torinese, morto nel 1987 a soli 60 anni; con “L’ombra delle colline” si aggiudicò, nel 1964, il Premio Strega. E’ la storia di un viaggio in macchina, da Roma al Piemonte, di una irrequieta coppia borghese, Stefano e Lu. I due, dopo aver vissuto un lungo periodo confusi l’uno nell’altro, dopo “aver  consumato tutta la carica che un amore può dare”, si ritrovano quasi intimiditi e svuotati, “impegnati in silenzio a reggere la spoglia di ciò che fu comune”. Essi conoscono molto bene le loro reciproche abitudini e sono attenti a proteggerle e rispettarle vicendevolmente, in una sorta di tacita tolleranza e solidarietà. Sono, però, soltanto rapporti di amicizia e di umana confidenza: nient’altro. Stefano, per quanto si sforzi, non riesce più a decifrare la sua esistenza che “prosegue rotolando come una frana di pietre”. Ed ecco allora l’idea del viaggio verso il luogo della sua infanzia e della sua giovinezza, il ritorno al paese che gli ha dato i natali, dove manca da tantissimi anni; un viaggio nato dal rigurgito di nostalgie mai sopite, che come una sorta di “fantasma benevolo” albergava nel suo animo ed a cui intendeva affidarsi. Un percorso a ritroso nei ricordi che dovrebbe aiutarlo a far ordine nella sua vita, a sbrogliare la matassa delle sue difficoltà, a ritrovare quelle antiche energie vitali in cui aveva sempre riposto fiducia. Anche se non appare del tutto convinto che rovistare nella sua memoria, dove “si agitano lembi di un’esistenza che ancora attendono di essere legati insieme”, possa costituire un valido aiuto alla sua crisi esistenziale e di coppia, possa ridare serenità al suo vivere quotidiano. Allora cerca di darsi forza, di riuscire a sciogliere quei nodi di pentimento e di inimicizia verso se stesso, tenuti sepolti nel suo animo e che dal profondo insediano ogni suo umore, facendolo sbandare e invalidando ogni suo buon proposito.

E da quella "catasta di ricordi", di cui è un po’ spaventato, affiorano di volta in volta persone ed eventi che più hanno influenzato la sua vita. Tra tutti, spicca la figura del vecchio padre – il colonnello Giacomo Illuminati – un dispotico, solitario, burbero militare che vive arroccato nella vecchia casa piemontese, ormai assediata da una campagna incolta, ingabbiato nelle sue rigide abitudini quotidiane di stampo militare che nel corso degli anni si sono sempre di più dilatate: la colazione mattutina, il barbiere, la lettura del giornale, il sonnellino pomeridiano, l’ascolto di canzonette napoletane alla radio, la lettura di qualche vecchio trattato d’arte militare, le abluzioni serali…Assecondato dalla fedele Caterina che subisce in silenzio, con antica pazienza, i suoi sbalzi d’umore. Non mancano nei suoi ricordi i vecchi amici di gioventù con i quali aveva diviso le sue esperienze di vita irripetibili e decisive durante l’ultima guerra: l’uccisione di un soldato tedesco, poi sotterrato nel giardino di casa; la fuga per arruolarsi tra i marò della Decima Mas, le lotte partigiane.

Un romanzo, quello che ho appena finito di leggere, da cui emerge l’eterno tema letterario del ritorno alle origini, attraverso un intreccio di vicende sicuramente autobiografiche, che lambiscono i dubbi, le attese, i desideri di una generazione alla vigilia del boom economico.

mercoledì 3 giugno 2015

La nevrosi si può vincere



Chi ha un po’ di dimestichezza con i libri non può non conoscere Hermann Hesse, lo scrittore tedesco naturalizzato svizzero, insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1946. E’ certamente uno dei “mostri sacri” della letteratura mondiale al cui confronto ci si sente davvero piccoli. Ho letto diversi libri della sua vastissima produzione; mi piace portare all’attenzione di chi mi legge queste interessanti riflessioni raggruppate sotto il titolo “La nevrosi si può vincere” e – considerati i tempi che viviamo - penso che la tematica trattata sia di stretta attualità.

Scrive Hesse nel suo primo capitolo: “la fretta, vista come ragione fondamentale della nostra vita, è indubbiamente il nemico più pericoloso della gioia......la frenesia della vita moderna si è ormai impossessata anche dei nostri momenti di tempo libero; godiamo delle cose in maniera nervosa e logorante come durante la nostra attività lavorativa”. Sembrerebbe, quindi, che non sappiamo più vivere in maniera pacata e serena neanche i momenti in cui non siamo impegnanti nel lavoro; portiamo il nostro stress, la nostra nevrosi sempre con noi, anche in vacanza, nei luoghi del divertimento.

Lo scrittore ci invita, pertanto, a fermarci, a coltivare l’arte dell’ozio...”bisognerebbe vivere di più sotto il cielo e sotto gli alberi, da soli, più vicini ai segreti della bellezza e della grandezza....non vi è nulla di più bello, in tempi difficili, che abbandonarsi alla natura, non per goderne in modo passivo, bensì creativo”.

Parlando degli artisti, lui dice che il loro compito primario è quello di descrivere le sofferenze dell’uomo d’oggi; e lo possono fare non per sentito dire ma solo soffrendo a loro volta. La sofferenza deve essere tradotta in parole affinché si possa superare. Può darsi che il poeta - che con i suoi versi incantatori esalta l’orrore della vita - sia un uomo triste e solitario; può darsi che il musicista con la sua musica canta la sua sofferenza, la sua tristezza. Tuttavia le opere di questi maestri di vita contribuiscono ad aumentare la nostra serenità, la nostra gioia di vivere. Ciò che ci regalano non è più la loro oscurità, le loro angosce, bensì gocce di luce pura, di eterna serenità. Lo scrittore tedesco, con questo suo libro,  ci invita anche a diffidare della eccessiva tecnologia, dell’idea di progresso così come ci viene oggi presentata, della magnificenza e grandezza della nostra epoca. Dietro la facciata della civilizzazione, la terra è piena di montagne di scorie e di mucchi di rifiuti. Non è possibile alcuna civilizzazione senza violenza contro la natura.