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domenica 27 settembre 2015

E' in arrivo l'apple watch: ridatemi il cipollone di mio nonno!



Si ha l’impressione, in questa folle corsa verso l’ultima invenzione tecnologica, che non ci sia mai fine; questo continuo rincorrere manufatti digitali  innovativi appare sempre di più un bisogno improcrastinabile e narcisistico da soddisfare, costi quel che costi. Di fronte all’ultimo gioiello tecnologico, non esiste crisi economica, non esiste disoccupazione:  si fa la fila per ore pur di accaparrarsi per primi l’oggetto agognato. Non si fa in tempo ad interiorizzare ed a capire il funzionamento di uno smart (smartwatch, smartcard, smartphone e chi più ne ha più ne metta), che immediatamente te ne inventano un altro, che pur facendo le stesse cose del precedente, viene lanciato sul mercato e venduto agli allocchi come il meglio dell’avanguardia e dell’innovazione.
E così sono venuto a sapere che è nata, di recente, una nuova e meravigliosa creatura, figlia come tutte le altre di Apple, l’azienda statunitense tra le più conosciute al mondo. Si chiama Apple Watch : parrebbe un orologio. Te lo metti al polso e per la modesta spesa di circa 400/500 euro (per i più esigenti il prezzo può arrivare fino a 16.400 euro), puoi continuare a fare quello che facevi con l’attuale smartphone: telefonare, inviare mail e messaggi, twittare, consultare il meteo, guardare la schedina, giocare a carte. E puoi guardare l’ora senza portare l’orologio. Insomma, se prima cazzeggiavi con quella tavoletta che ormai è diventata troppo ingombrante, ora lo puoi fare con un orologio da polso.

“Se lo metti, ti conquista” - dice la sua pubblicità – “e quello che indossi dice molto di te”. E allora l’Apple ha pensato bene di creare un’ampia varietà di modelli ognuno dei quali possa rispecchiare la personalità e il gusto di chi lo porta. Ma non solo. Puoi renderlo ancora più tuo cambiando, di volta in volta, il cinturino a seconda dell’umore e delle circostanze. Sei incazzato: scegli il rosso; vai a un funerale, lo indossi nero.
Ma la cosa più inquietante di questo “orologio” è che diventa una vera e propria parte del corpo, in attesa che un microchip prossimamente venga impiantato nel cervello (ormai in via di estinzione) dei richiedenti. Ebbene cosa fa di tanto inquietante questa invenzione? Ti comanda a bacchetta con i suoi sensori, ti controlla, ti consiglia, ti segue passo dopo passo e interviene nei casi di necessità. In pratica ti misura la pressione, ti dice di quante calorie hai bisogno, se a pranzo devi bere vino o birra o acqua minerale, vigila sulla velocità quando stai alla guida di una macchina. Ti ricorda che alla quattro del pomeriggio devi andare dal dottore e poi in palestra. Ti rammenta che, prima di andare a letto la sera, devi portare il cane a pisciare. Insomma tu non devi più pensare perché lui provvede a tutto. Sembrerebbe, vista la pubblicità e l’entusiasmo generale, che con l’apple watch al polso la vita diventerà finalmente emozionante ed entusiasmante.

Sapete che vi dico? In un cassetto conservo un vecchio orologio da taschino – non funzionante - chiamato in gergo cipollone: me lo regalò mio nonno prima di morire. E’ un roskopf dei primi anni del ‘900. Credo sia arrivato il suo momento. Ridatemi il cipollone!

martedì 15 settembre 2015

Prigionieri di troppi fantasmi: splendore e declino di una nobile famiglia del passato


Jean d’Ormesson è un famoso scrittore e giornalista francese di 90 anni (è nato a Parigi nel 1925). Figlio di un diplomatico, ex segretario generale dell’Unesco ed ex direttore de Le Figaro, Jean d’O, come viene soprannominato, fu eletto tra gli immortali della Académie francaise nel 1973 a soli 48 anni, il più giovane di sempre, record rimasto finora imbattuto. Ha vissuto la sua giovinezza nello splendido castello di Saint-Fargeau, nella Borgogna, che fa da sfondo al suo libro più noto “a Dio piacendo, la cui lettura mi ha fortemente coinvolto durante l’ estate appena trascorsa.


Mi sento di dire che è un romanzo di rara bellezza (di oltre 500 pagine), entrato prepotentemente tra i miei preferiti, tant’è che a fine lettura ero quasi tentato di ricominciare dall’inizio. Un libro di memorie e di confessioni, un saggio storico, un testamento spirituale, un diario intimo: l’opera è tutto questo, inserita in un periodo storico di circa 70 anni, a partire dagli inizi del ‘900. La voce narrante - probabilmente l’alter ego dello scrittore - è quella di uno degli ultimi discendenti di una delle più blasonate dinastie d’Europa, il quale sul filo dei ricordi ci parla dell’ascesa e del declino della sua famiglia, a cui lui appartiene e alla quale si sente profondamente legato.

La cosa che più mi ha colpito, leggendo questo libro, è il culto della famiglia che traspare in tutta la narrazione, le cui origini, al pari del suo patrimonio, provenivano dalla notte dei tempi: l’avventura era iniziata in Terrasanta, con il vecchio Eléazar “maresciallo della fede e dell’esercito di Dio”, e finiva circa 9 secoli più tardi, nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, con l’avvento della modernità. Una famiglia che si riconosceva nella superiorità un po’ orgogliosa dei greci e dei romani, in seguito imparentata con le teste coronate di mezza Europa, i cui membri avevano conosciuto e intrecciato rapporti con condottieri e ambasciatori, ministri e capi di stato, papi e cardinali, vescovi e santi. E altrettanti ne avevano forniti alla stessa chiesa. Una famiglia abituata e immersa nel “sacro”, un sentimento questo che dominava la vita di tutti i suoi componenti: in primis la fedeltà al re (almeno fino a quando ce n’era stato uno) ed al Santo Padre. Era inoltre sacro il matrimonio visto come unione tra passione e interesse, tra corpo e spirito; era sacra la famiglia, nata nel matrimonio e intesa come un gioco di squadra dove le imprese personali tornavano sempre e soltanto a vantaggio del gruppo, un gioco dove bisognava  vincere tutti insieme e ciascuno era l’anello di una lunga catena; e poi erano sacri i riti immutabili della vita di tutti i giorni quali la messa all’interno della cappella di famiglia, i pranzi e le discussioni intorno al grande tavolo di pietra ai piedi del castello, all’ombra dei vecchi tigli, le passeggiate nel parco, le soste lungo lo stagno, i balli nei saloni affrescati, le feste di compleanno. Ed erano sacre le idee, i libri, i morti per la fede e per la patria, e poi il pane e i poveri, quest’ultimi in un duplice senso: “bisognava che ci fossero e bisognava amarli”. Una famiglia che provava nei confronti di tutti una cortesia disarmante e trattava con identica deferenza e garbo sia un vescovo che un guardiano o un fattore delle loro terre. Una famiglia che non viaggiava mai, dal tempo delle crociate, perché “negli spostamenti c’era qualcosa di convulso e di impercettibilmente volgare”, che conduceva un’esistenza “squisitamente poetica” persuasa che il suo nome fosse al centro dell’universo, che disprezzava il denaro nonostante ne avesse tanto e che nessuno “avrebbe mai avuto la sfrontatezza di parlarne. Né naturalmente di guadagnarne”. Perché il denaro non proveniva né dall’industria, né dal commercio né dai giochi di borsa o da altre attività mercantili, ma derivava esclusivamente dalla terra e dalle case, dalle foreste e dalle pietre, per arrivare, poi, tra le mani dell’ amministratore, “di dove poi usciva sotto le specie dei cocchieri, dei domestici, dei cuochi, dei giardinieri”.

“Era così semplice essere ricchi” – afferma la voce narrante. E tutto ciò piaceva a Dio. Au plaisir de Dieu era il motto di famiglia. Esisteva una sorta di ordine naturale delle cose, di sistema voluto da Dio, non dagli uomini. E di questo sistema ne beneficiava “la famiglia”.

Un mondo, quello che ci viene descritto dal narratore, che teneva gli occhi fissi sul passato, per paura che di colpo si cancellasse, si dissolvesse; prigionieri dei propri fantasmi, i discendenti di questa antica dinastia vivevano in un universo chiuso, circondato da barriere insormontabili e inamovibili e protetti da alcune certezze: la monarchia (finché è durata) e la chiesa, la famiglia e il matrimonio, la terra e il castello di Plessis-lez-Vaudreuil. Quest’ultimo, con le sue 365 stanze, con il suo parco di alberi secolari e la sua enorme biblioteca, con i suoi mobili pregiati e i suoi quadri che celebravano gli antenati dei secoli passati, era il centro della loro vita, del loro potere, testimone della loro grandezza e del loro splendido passato. Con i suoi mattoni rosa e il suo tetto nero d’ardesia, era un’isola circondata dal tempo che inesorabilmente avanzava e corrodeva tutto al suo passaggio. E frantumava un poco alla volta tutta l’impalcatura su cui si reggeva.

 

E una tale famiglia, con le sue belle maniere, con la sua educazione, con la sua simpatia per gli artigiani, per i vasai, per gli impagliatori di sedie, con il suo disprezzo per il denaro e per il lavoro, con il suo amore per la terra e per il passato, in un mondo lanciato a tutta velocità verso un avvenire in cui gli alberi e i cavalli e la terra e la pazienza e la lentezza e il rispetto venivano espulsi in partenza, era condannata inesorabilmente a soccombere, a estinguersi. Per secoli si era opposta alla borghesia perché si sentiva più vicina ai soldati, agli artigiani e soprattutto ai contadini. Il rispetto della natura, il timore per qualsiasi cambiamento, la sottomissione alla Chiesa, la diffidenza per le macchine e l’ostilità per il denaro e le merci aveva reso i suoi membri diversi dai borghesi. Ma il tempo e gli eventi stavano logorando lentamente le basi di quel mondo. Dopo secoli di grandezza e di orgoglio familiare, i discendenti di coloro che disprezzavano i borghesi finivano per sprofondare nella vanità e diventare essi stessi borghesi. E tutto ciò che questa famiglia aveva realizzato “alla corte di Vienna e di Versailles, nei salotti di Londra e di Roma, negli accampamenti militari e sui campi di battaglia, nei conventi e nelle cattedrali, sulla maggior parte dei mari del mondo, si allontanava a grandi passi…”

Tantissimi sono i personaggi, uomini e donne, che vediamo sfilare lungo le pagine di questo libro. Tra tutti spicca la figura del nonno, solenne e intransigente patriarca che detestava la modernità e il progresso e credeva solo nel passato, il quale era stato non soltanto il capo, ma il centro di questa grande famiglia, morto alle soglie dei cent’anni.

Un libro semplice e complesso, nello stesso tempo, e nessuna recensione ma solo la sua lettura può rendere giustizia al fascino di un racconto velato di dolce e struggente malinconia, fonte di riflessioni su alcuni grandi temi come il tempo, la storia, la felicità, il denaro, la morte, la modernità. E la famiglia, naturalmente. Per finire, mi piace riportare di seguito qualche stralcio finale del libro:
 
“ Non eravamo dei santi. Non eravamo dei geni. Non sono nemmeno sicuro che, noi che avevamo quasi tutto, abbiamo vissuto bene quanto avremmo potuto e dovuto. Avremmo potuto essere liberi, più divertenti, più felici. Avremmo dovuto avere più generosità, più cuore e intelligenza, più fantasia, più talento. Eravamo, spero di averlo fatto capire, prigionieri di troppi fantasmi. Altri, in questo secolo e nel secolo precedente, avranno mostrato il futuro. Noi mostravamo soltanto il passato. Altri avranno brillato per il mondo. Noi brillavamo soltanto per noi stessi. (…) Quel che mi sono proposto di fare è, per la verità, abbastanza semplice: ho cercato di dipingere la lotta di ciò che si ostina a restare stabile contro le fluttuazioni della moda, del progresso e del tempo, e il trionfo del tempo sulla nostra eternità. (…) Credete che non sappia che ho vissuto nei privilegi e che il mondo che evoco non stava dalla parte dell’ombra, ma del sole? Credete che non sappia che molti altri sono fuggiti dal passato come da un incubo detestato? (…) Nel passato non vedo un modello per l’avvenire. La moglie di Lot fu trasformata in statua di sale proprio perché guardava indietro. Ma nel passato non vedo nemmeno quella abominazione delle abominazioni che bisogna distruggere e dimenticare per costruire in sua vece le cittadelle della felicità. Abbiamo visto di peggio di Sodoma e Gomorra. Immagino che molti cercheranno anche, ma invano, di evadere dall’avvenire. Vedremo, quando anche questo futuro sarà diventato passato, se avrà un aspetto più bello dei nostri giorni scomparsi. (…) Per molto tempo la nostra follia è consistita nel non vedere che il passato non aveva altro senso che quello di servire il futuro (…) I figli naturalmente, sono la morte dei genitori. Ma discendono da essi. Li uccidono, ma li continuano. A mio nipote auguro molte cose, ma forse soprattutto questa: di saper conciliare dentro di sé passato e futuro. Passato e futuro non hanno mai mostrato tanta ostilità reciproca come oggi. Io ho evocato un passato che si dissolve giorno per giorno. Il futuro non ha bisogno di me: saprà fare da solo, con l’aiuto di altri. Ma il domani, proprio perché c’è una storia, è legato all’ieri. Passato e futuro non s’ignorino! Si ricordino che anche il futuro un giorno diventerà passato. Non lascino che il tempo distrugga l’eternità. (…)

martedì 8 settembre 2015

Quei ragazzi del muretto



Non so se vi ricordate del  “muretto”, di quel muto e romantico testimone di intere generazioni di adolescenti, luogo di incontro, di conversazioni e di relazioni sociali. Ce n’era sempre qualcuno che si ergeva adiacente al bar o alla piazza del paese, intorno al quale - in mancanza di punti di riferimento più adeguati - i ragazzi avevano l’abitudine di riunirsi per socializzare, per discutere dei loro problemi, per ridere, scherzare, divertirsi.
Nell’immaginario collettivo quel muretto era una sorta di luogo dell’anima dove ci si dava appuntamento, dopo la scuola, per sentirsi uniti, per polemizzare, amoreggiare, festeggiare, confrontarsi e per organizzare, magari, una serata diversa quando quel luogo non bastava più. Ebbene, quel “monumento” di pietra o di cemento che celebrava gli appuntamenti giovanili è ancora in attesa da qualche parte. Esiste tuttora, in una grande città come in un piccolo paese, soprattutto laddove non sono presenti strutture di incontro differenti rispetto ad uno spoglio muro di contenimento. E’ ancora frequentato da gruppi di ragazzi in cerca di compagnia  e di amicizia, costituisce un punto di riferimento, da dove partire per le quotidiane scorribande in motorino.

Ho l’impressione, però, che oggi quello spazio di aggregazione venga vissuto in maniera diversa rispetto al passato: uno spazio che divide anziché unire i suoi frequentatori. L’ho potuto constatare l’altro giorno mentre osservavo alcuni adolescenti (erano in sei/sette) tutti seduti su un muretto di un quartiere periferico di Roma, luogo abituale di incontro e di svago. La cosa che più mi ha colpito è stata la loro assenza dal contesto in cui si trovavano. La totale estraneità al gruppo ed agli amici che avevano intorno era fin troppo evidente. Tutti brandivano un telefonino ultimo modello (il termine è ormai riduttivo…), forse l’amico più affidabile e sicuro: alcuni facevano scorrere velocemente con un dito su e giù il display, alla ricerca di qualcosa che destasse la loro attenzione; altri parlavano con qualche amico lontano; una ragazza, da come smanettava furiosamente sui tasti, sembrava stesse scrivendo un messaggio importante. Apparivano annoiati, distanti gli uni dagli altri e nessuno, in quel momento, sentiva il bisogno, l’urgenza, di parlare o di stare con il proprio vicino, di confidarsi con lui, di partecipare alla compagnia.
Presenti, ma simultaneamente assenti gli uni agli altri. Per appartenere al mondo e sentirsi vivi quei ragazzi (i nostri figli…i nostri nipoti) mostravano un solo imprescindibile interesse: collegarsi con un “altrove” per comunicare al “mondo” il proprio disagio o la propria gioia o anche per ascoltare una voce lontana, anziché quella dell’amico/a seduto sullo stesso muretto; avvertivano l’esigenza di allontanarsi dal presente e dal reale per rincorrere un tempo e un mondo virtuale e improbabile. E, dimenticando il compagno di giochi e di conversazione che avevano accanto, si consegnavano ad uno strumento-feticcio dalle funzioni illimitate, da cui finivano per essere fagocitati e posseduti.

mercoledì 2 settembre 2015

Malati di denaro


Oltre ad essere un autorevole psichiatra, la cui competenza è riconosciuta a livello internazionale, Vittorino Andreoli è anche un grande scrittore e saggista. Si definisce un “pessimista attivo” che si sforza di illuminare i lettori attraverso la forza delle parole e non ha difficoltà nel dire che non ama molto questa nostra società, fondata sui soldi e sulle cose inutili, sulla falsità e sull’ipocrisia, sulla violenza e sulla volgarità: una società senza cultura che lui considera una delle peggiori in cui ha vissuto.

"Io amo l’uomo rotto” afferma in un suo libro “Il denaro in testa” dove affronta un tema che riveste una straordinaria importanza, che è quello dei soldi, “a quest’uomo mi sono sempre  dedicato e ora so che esiste anche il malato di denaro, l’uomo di denari”.
 
Egli ritiene che in questa società il denaro non sempre viene usato per acquistare  delle cose utili e necessarie alla vita di tutti i giorni, ma spesso viene utilizzato  per esibire il proprio potere, la propria forza, come espressione esibizionistica delle proprie possibilità, come misura di tutte le cose. E’ diventato strumento di corruzione e di prostituzione: per il denaro si vendono le proprie idee, la propria dignità, la propria morale.

L’autore afferma che il denaro, nei suoi confronti, ha sempre esercitato un duplice sentimento di paura; da una parte la paura di non averne abbastanza - con tutte le conseguenze che tale rischio comporterebbe - e dall’altra la paura dell’eccesso, della ricchezza. Vive pertanto il denaro come un vero pericolo, mettendo sempre un freno alle sue possibilità di guadagno.

Per Andreoli, la ricchezza è una vera e propria malattia sociale in quanto suggerisce una visione distorta del mondo e della società. Ci si sente intoccabili grazie al denaro, favoriti dalla ricchezza e dai suoi simboli esteriori, capaci di ottenere qualsiasi cosa. “La ricchezza copre tutto: la volgarità, la stupidità, l’ignoranza” fa notare l’autore del libro “è frutto non di doti speciali, ma di abilità che a volte accomunano il ricco e il criminale”. Quindi il denaro come mezzo per corrompere, per comprare favori, per acquisire potere, per evitare il carcere attraverso leggi ad personam. La cronaca di questi ultimi anni è ricca di casi simili.

Pesanti accuse sono rivolte anche agli intellettuali del nostro paese, che contribuiscono con i loro comportamenti allo scempio della cultura, anch’essi attratti dal denaro “che si arricchiscono servendo un potente che giustificano per tutto ciò che fa senza pudore, mercanteggiando ogni morale...senza preoccuparsi delle idee dalle quali dovrebbero dipendere”.

L’autore fa notare come oggi la combinazione ricco-ignorante sia sempre più diffusa, mentre nel passato tale binomio era raro se non impossibile: risulta, pertanto, sempre più evidente poter diventare ricchi senza cultura, senza avere mai letto un libro, evadendo il fisco, imbrogliando il prossimo, non rispettando le leggi e le regole per una civile convivenza.

Il denaro, quindi, condiziona in negativo i comportamenti dell’uomo e della sua esistenza e per evitare la catastrofe e migliorare questa nostra società, Andreoli ritiene che bisogna partire dall’uomo e dai suoi veri bisogni, perché una economia disinteressata all’uomo porta a conflitti che, fra l’altro, hanno costi spaventosi.