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martedì 28 luglio 2015

Quelle braci che covano sotto la cenere



“Le braci” di Sàndor Màrai è uno dei libri più belli che io abbia letto in questi ultimi tempi: per la limpidezza e l’eleganza dello stile narrativo, per la profondità dei temi trattati, per la rara intensità con cui lo scrittore ungherese sa appassionare il lettore e sa scrutare, con una prosa a volte lirica, i sentimenti più reconditi che albergano nell’animo umano.

E’ un romanzo sull’amicizia e sulle passioni esistenziali degli uomini, sui dolori e sulle sconfitte, sulla fedeltà e sul tradimento, le cui suggestioni lasciano tracce profonde e indelebili nell’animo umano, tracce che non svaniscono mai, che vengono tenute sempre vive dalla forza della memoria e dai ricordi che scandiscono il tempo, così come le braci ardenti si alimentano sotto la cenere. E’ anche un libro che evoca le eleganti atmosfere  della Vienna di fine Ottocento sotto l’Impero Austro-Ungarico – nel cui contesto è ambientato il romanzo – quella Vienna ricca ed elegante, con i suoi caffè dove ufficiali dell'esercito e funzionari statali sedevano ai tavolini riservati, quella Vienna dove si aveva l’impressione che tutti fossero felici, dove nei ristoranti alla moda, nelle sale da ballo e nei salotti dei ricchi palazzi signorili, dame e cavalieri festeggiavano ballando al ritmo dei valzer di Strauss.

Ma, soprattutto, è il libro che celebra l’attesa, di cui si sono nutriti per un tempo lunghissimo i due personaggi del romanzo ormai vecchi i quali - ritrovandosi dopo 41 anni (si erano lasciati in maniera burrascosa in età giovanile, per l’amore di una donna) – tentano di ricucire lo strappo, di avere risposte ai loro dubbi, alle loro domande, provano a cercare quella verità che li riguardava, rimasta nascosta volutamente per tanti anni nei recessi della loro anima. Ed è stata propria l’attesa a dare loro la forza di vivere nei decenni trascorsi, a mantenerli in vita, convinti com’erano che quanto prima sarebbe giunto quel momento tanto desiderato.

La storia si dispiega attraverso un lungo monologo interiore, con cui Henrik – l’anziano generale che vive isolato nel suo castello ai piedi dei Carpazi, assistito da una donna molto più anziana di lui - ripercorre le tappe di un lungo ed intenso rapporto d’amicizia con l’altro protagonista del romanzo, Konrad. La loro amicizia, nata in un collegio militare all’età di 10 anni, si era dimostrata immediatamente molto profonda, tant’è che “condividevano ogni cosa, leggevano contemporaneamente gli stessi libri, scoprivano insieme Vienna e le foreste, l’equitazione e le virtù militari, i rapporti sociali e l’amore...”. Un’amicizia bella e disinteressata, che si consolida con il tempo, nonostante i due giovani provenissero da due famiglie completamente diverse dal punto di vista economico e fossero caratterialmente differenti nei confronti della vita: Henrik, il figlio del ricco e potente ufficiale della guardia imperiale, amava fare tardi la sera, non disdegnava i piaceri mondani; Konrad, invece, che dimostrava un’indole piuttosto solitaria, preferiva trascorrere il tempo seduto in casa “ a spremersi il cervello sul significato degli esseri umani”; Henrik leggeva solo libri sui cavalli e racconti di viaggio, l’amico Konrad invece leggeva di preferenza libri inglesi sulla storia della convivenza degli uomini e l’evoluzione sociale; il primo ascoltava solo musica che stordiva, quella musica che faceva apparire la vita più gradevole “e faceva brillare gli occhi delle donne e lusingava la vanità degli uomini”, l’altro invece preferiva la musica “che toccava le passioni e i rimorsi degli uomini . Due grandi amici, diversi eppure uniti, che si completavano a vicenda, legati da una sorta di alleanza, d’intesa, di fraterna intimità, “pari soltanto a quella in cui vivono i gemelli, strani esseri che per un capriccio della natura sono legati l’uno all’altro per la vita e per la morte” .

E come due gemelli, finiscono per innamorarsi della stessa persona. Ma se è lecito avere in comune alcune passioni, non è immaginabile che si possa condividere anche l’amore per la stessa donna, diventata nel frattempo la moglie del proprio migliore amico. Un’amicizia interrotta  per quarant’anni. “Ma se ci guardiamo indietro alla fine della vita”, dice malinconicamente il vecchio generale al suo amico momentaneamente ritrovato “che importanza hanno la verità e la menzogna, gli inganni e i tradimenti, i tentativi di omicidio e anche l’omicidio in sé? (…) cosa abbiamo guadagnato con il nostro orgoglio e la nostra presunzione? (…) non credi anche tu che il significato della vita sia semplicemente la passione che un giorno invade il nostro cuore, la nostra anima e il nostro corpo e che, qualunque cosa accada, continua a bruciare in eterno, fino alla morte?”.

martedì 14 luglio 2015

C'era una volta il viaggiatore...



Le vacanze sono ormai alle porte e, crisi o non crisi, nessuno vuole rinunciarvi. Siamo ai nastri di partenza con le valige già pronte, per invadere come cavallette città d’arte e siti archeologici, spiagge e montagne. Diceva un grande filosofo del passato che quando scopriamo un bel posto, dobbiamo evitare di farlo conoscere agli altri, perché frequentando in massa lo stesso luogo si finisce per distruggerlo in poco tempo. E ho l’impressione che stia succedendo proprio questo.

Nel passato solo una piccola minoranza di persone viaggiava, appartenente per lo più a categorie sociali bel definite: in primis ricordiamo i mercanti (carovanieri e navigatori) che affrontavano deserti e oceani per trasportare le loro mercanzie, ma nel contempo avevano anche la possibilità di conoscere e diffondere usi e costumi di paesi a loro estranei; poi venivano i pellegrini che si incamminavano verso Roma per ottenere l’indulgenza, ma anche verso Santiago de Compostela o Gerusalemme, attraverso percorsi che hanno disegnato le mappe geografiche dell’Europa medioevale;  ed infine gli artisti (scrittori, pittori, musicisti…) che a ragion veduta erano i veri viaggiatori – figure romantiche ormai scomparse - che cercavano ispirazioni artistiche e culturali nei paesi in cui si recavano. Un viaggio in Italia (Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Pompei, tanto per citare le località più ambite), costituiva una tappa fondamentale nell’educazione dei giovani delle famiglie benestanti che si apprestavano a fare il loro ingresso nella società ricca e borghese del tempo. Il loro viaggio durava mesi, a volte anni, grazie soprattutto alle disponibilità finanziarie degli interessati, ma anche alla lentezza dei mezzi di trasporto: non dimentichiamo che ci si spostava in carrozza o a piedi.

Ai giorni nostri il desiderio di viaggiare - costi quel che costi - appartiene un po’ a tutti, come è giusto che sia, costituisce un segno di distinzione sociale, ed allora ci si sposta in massa: un turismo selvaggio e indifferenziato verso luoghi sempre più standardizzati e sovraffollati. E il “viaggiatore”, che nel passato percorreva la sua strada quasi sempre in solitudine, in un’epoca caotica e massificata come la nostra si è trasformato in “turista” che aspira a riunirsi in gruppo, ad essere guidato e portato in giro, a condividere senza sforzo le medesime esperienze ed emozioni. Esperienze ed emozioni che, vissute da pochi, risultavano uniche ed irripetibili (mi viene in mente il “viaggio in Italia” di Goethe o quello di John Ruskin descritto in “mattinate fiorentine”), cessano automaticamente di essere tali quando vengono provate da tutti alla stessa maniera. Quel rilassato e riflessivo viaggiare riservato un tempo alle classi più colte si è sbriciolato al ritmo forsennato del turismo di massa, sommerso da una miriade di consigli sul dove andare e dalla quantità delle cose da visitare, a scapito della qualità e della lentezza.

Riguardo, poi, ai luoghi turistici, ho l’impressione che oggi si somiglino tutti, da nord a sud, specialmente quelli di mare: le stesse strutture alberghiere, gli stessi villaggi, la stessa confusione di macchine e di persone, addirittura la medesima cucina, che un tempo rappresentava il segno distintivo del posto. Se si escludono determinate caratteristiche climatiche che a volte fanno la differenza - e stiamo facendo di tutto per sconvolgere anche quelle – le località di villeggiatura sono diventate sostanzialmente indistinguibili grazie all’ incessante livellamento dettato dal mercato globale e dal turismo di massa, che tendono a cancellarne le diversità in favore di un pensiero unico che vuole ogni luogo identico all’altro. E allora mi chiedo se abbia ancora un senso andare al mare all’isola d’Ischia, piuttosto che a Rimini, trascorrere le vacanze nel Cilento piuttosto che nel Salento.

Io credo che sia definitivamente saltato quell’equilibrio che esisteva tra la natura incontaminata e la presenza virtuosa dell’uomo; un bilanciamento che si reggeva essenzialmente sul rispetto e sulla salvaguardia del territorio che non veniva invaso da orde di turisti, la cui presenza è diventata, nel corso degli anni, sempre più schiacciante e invasiva, simile ad un esercito di occupazione che ha finito per deturpare, sporcare e offendere qualsiasi posto. Anche il più bello. Con questo non voglio dire che solo le persone ricche e colte debbano viaggiare, anche se sono sempre di più coloro che, per ragioni economiche, non possono lasciare la città o il paese in cui abitano e quindi il turismo non è un’opportunità concessa a tutti. Tuttavia, chiunque voglia osservare il fenomeno odierno con un po’ di spirito critico – senza essere tacciati di snobismo - non può non considerare la bassa qualità di questo “diritto alle vacanze” esteso a tutti e venduto in maniera ingannevole come esclusivo, ma sostanzialmente svilito nella sua essenza. Mi chiedo se oggi sia ancora possibile una maniera diversa di fare le ferie, rispetto al pacchetto tutto incluso a tappe forzate (Roma in 48 ore…Parigi in un solo giorno) offerto sottocosto da fameliche agenzie di viaggi alla massa dei vacanzieri nostrani, che si illudono di visitare quelle località alla moda, altrimenti non sei nessuno. E allora succede che il nostro turista, che non ha mai messo piede in un museo italiano, al ritorno da Parigi potrà raccontare agli amici del bar che è stato al Louvre dove ha potuto ammirare – dopo due ore di fila - la famosa “Gioconda” di Leonardo; e che – udite, udite - “s’è fatta” tutta Roma in soli 2 giorni visitando “tutto quello che c’era da visitare”, scattando migliaia di fotografie che, probabilmente, nessuno mai vedrà. E già, le foto!; meriterebbero una riflessione a parte perché con l’avvento dei telefonini il turista appare sempre di più affetto da bulimia fotografica acuta, che lo costringe a riprendere qualsiasi cosa (che si muova o stia ferma), senza guardare niente (tanto guarderà dopo, a casa). Le foto ricordo, che in qualche maniera sostituiscono la memoria e soprattutto lo sguardo, testimoniano non tanto la curiosità e l’interesse culturale del visitatore, quanto la sua rituale presenza in quel determinato luogo. Presenza attestata, appunto, da una foto ricordo. Per lui non è importante soffermarsi più di tanto davanti alla bellezza e alla maestosità del tempio di Nettuno a Paestum, ma conta, invece, potersi mostrare ai piedi delle sue colonne doriche attraverso una foto. O meglio, un selfie che va tanto di moda.

Il vero viaggio, quello che cambiava interiormente l’antico viaggiatore procurandogli intense emozioni per le sorprese, i rischi e le avventure che incontrava lungo il percorso, non appartiene più al turista contemporaneo. Quest’ultimo resta attaccato alle proprie abitudini e anche lontano da casa non è capace di rinunciare al comfort, alla cucina ed ai riti cui è legato; vuole ritrovare tutto ciò che ha momentaneamente lasciato e, pertanto, farà le proprie rimostranze se nella camera dell’albergo in cui alloggia non è presente un televisore di almeno 28 pollici; vuole trovare un contesto simile a quello in cui vive abitualmente nella sua città e sentirsi a casa pur avendo scelto di fare un safari in Tanzania. E allora, come non ricordare le parole di Socrate il quale, ad un tale che si lamentava di non aver avuto alcun giovamento dai suoi viaggi, disse: “è naturale che sia così; tu viaggiavi in compagnia di te stesso”. Come i nostri turisti che non si allontanano mai dal proprio mondo, anche quando si trovano a migliaia di chilometri di distanza.

mercoledì 8 luglio 2015

La città storica è una macchina per pensare



Scriveva Albert Caraco, il cui pensiero ho cercato di sintetizzare nel mio post precedente attraverso l’analisi del suo libro più importante “Breviario del caos”, che le città sono diventate sempre più disordinate e invivibili e “tutto ciò che si edifica è di una bruttezza mostruosa e noi non sappiamo più costruire templi, palazzi o tombe, piazze trionfanti o anfiteatri “. E come dargli torto! Ma per fortuna esiste un’altra idea di città, che ci è stata tramandata dai nostri antenati e che noi faticosamente cerchiamo di conservare, il cui corpo vive in un rapporto di proporzioni e di misura con il corpo del cittadino: è la città storica. In proposito, mi piace qui riportare le parole di un grande archeologo e storico dell’arte italiano, Salvatore Settis, tratte da un suo recente libro molto interessante che si intitola “Se Venezia muore”:
“…Nella città storica italiana l’incombere di un campanile, di una cattedrale, di un palazzo del Comune o del Signore, l’addensarsi di un convento o di una università, le facciate delle case più ricche, s’intrecciano con le botteghe artigiane, i quartieri poveri, i vicoli dei mercati e le strade verso i cimiteri e la campagna, le porte e le mura, le piazze e le strade: accolgono i cittadini, non li inghiottono. Talora li sovrastano, ma non li umiliano mai: proclamano gerarchie sociali, ma anche spazi di uguaglianza (la piazza, il mercato delle erbe); suggeriscono stabilità, ma contemplano mobilità. Il corpo del cittadino e il corpo della città non sono l’un l’altro nemici, si integrano e si compenetrano. Perciò la città è “opera d’arte” e non solo prodotto materiale. Risulta dalla produzione di mura, chiese, case, ma anche di cultura e rapporti sociali. Respira e cresce con i cittadini che la creano e la cambiano nel tempo, si alimenta con le sue ritualità, immemoriali non perché sempre uguali a se stesse ma perché soggette a continuo cambiamento. (…)
La città storica è un orizzonte entro il quale lo scambio di esperienze, di culture e di emozioni avviene grazie al luogo e non grazie al prezzo. (…) Creazione collettiva di tutte le classi sociali, la città è per sua natura fondata sul lavoro: sul lavoro delle generazioni passate, sulla capacità di creare lavoro per le generazioni future. Microcosmo e fucina del pensiero, la città vive della propria diversità; le sue disomogeneità interne ne accrescono lo spessore antropologico, agganciano l’attenzione e stimolano l’esperienza di cittadini e forestieri. Anche gli edifici divenuti “inutili” nel tempo (come il Colosseo) non lo sono affatto; suggeriscono profondi mutamenti storici, impongono di pensare il diverso, allenano alla curiosità per altre diversità culturali (per altre civiltà). Al contrario della monocultura della piatta città “globale” che sta invadendo il pianeta, la città storica è una macchina per pensare. Per pensare l’altro da sé, e dunque se stessi…”