Cerca nel blog

lunedì 22 giugno 2015

Il senso della notte



Quando entro in una qualsiasi libreria mi lascio piacevolmente irretire, prima ancora che dalla bella copertina di un libro, dal suo titolo. Se non conosco l’autore, devo assolutamente aggrapparmi a qualcosa di concreto per poter prendere tra le mani proprio quel testo e sfogliarlo. E il titolo è la cosa che più mi colpisce. Così è stato per questo piccolo libro edito da Sellerio che si intitola “Il senso della notte”. Un titolo che racchiude un mondo, quello appunto legato alle tenebre, che evoca immagini e sensazioni; una espressione che sembra custodire il mistero stesso dell’esistenza e alludere alla paura della morte. Ma non è detto che un bel titolo – che è pur sempre una valutazione soggettiva - significhi necessariamente un bel libro.

Il senso della notte è la prima opera narrativa di Giovanni Ferrara, lo zio del più famoso giornalista Giuliano: quest’ultimo già comunista, già conduttore televisivo, già direttore del Foglio. Quando fu pubblicato, nel 1995, l’autore aveva 67 anni ed era un professore di Storia antica all’Università di Firenze. Si spense a Pavia nel 2007. Non credo che questo suo breve romanzo sia da annoverare tra i capolavori della nostra letteratura, tant’è che difficilmente lo riprenderò per rileggerlo, come spesso mi capita di fare con i grandi libri.

Il protagonista del romanzo – che a mio avviso potrebbe essere lo stesso scrittore, attraverso la voce narrante di una terza persona – ripercorre la sua vita e lo fa solo attraverso il racconto di tre fondamentali eventi, che costituiscono altrettanti capitoli del libro.
In primis, gli anni della sua giovinezza, durante i quali si alzava prestissimo la mattina e si coricava tardissimo la sera, per studiare perché “aveva capito che per diventare un dotto bisogna vivere come pazzi ed è praticamente indispensabile cominciare a suicidarsi a diciassette o diciotto anni se non addirittura prima, ciò che del resto è verissimo ma le persone così dette colte non lo sanno”. Questa abitudine lui la definiva solitudine studiosa e gli pareva infatti, a quel tempo, il massimo concepibile di felicità che gli fosse concesso di raggiungere.
Nel secondo capitolo ricorda la lunga e irripetibile notte, situata nella storia, legata al passaggio sotto la finestra di casa sua dei soldati tedeschi in ritirata dopo la battaglia di Roma nel giugno del 1944. Una notte carica di un’attesa gioiosa “per la sicurezza che l’odiato tedesco se ne andava e arrivavano gli amati Alleati”.
Ed infine l’autore ripercorre con la memoria una passeggiata in montagna, nell’agosto del 1975, sui luoghi della Grande Guerra il cui ricordo “entrò a far parte delle occasioni che si definiscono indimenticabili”, tale da produrre nell’animo del protagonista una profonda commozione nel visitare quelle rocce che conservavano la traccia inconfondibile di una lunga guerra, patita nella feroce immobilità delle trincee e dei rifugi.

Aleggia su tutto il libro la banale realtà dello scorrere irreversibile del tempo, con le sue giornate luminose ma soprattutto con le notti, che per il protagonista sono sempre legate ad un senso di imprevedibilità e minaccia. Devo dire, inoltre, che con la sua scrittura contorta e monotona, più simile ad un verbale di un commissariato di polizia che non a un testo letterario e con i lunghi periodi, i cui concetti spesso vengono ripetuti, la lettura del libro appare poco appetibile. Ma sono solo 93 pagine.

10 commenti:

  1. Un altro "sconosciuto" che mi sai raccontare...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Evidentemente sono attratto dagli "sconosciuti"...:-)

      Elimina
  2. l'emozione dell'approccio in libreria, quegl'istanti magici in cui un colore di copertina, un titolo, una frase sbirciata tra le pagine, la fiducia che si concede a uno sconosciuto, la speranza che sia bella lettura, non sempre hanno un esito felice, ma sono comunque irrinunciabili.
    ml

    RispondiElimina
  3. Dubito che leggerò il libro recensito, ma ti ringrazio per lo spunto scorto nel terzo dei tre eventi narrati... giusto una settimana fa, in visita alla còrsa rocca di Bonifacio, immensa e imponente opera che respinse per anni attacchi e saccheggi.. mi sono ritrovato a pensare della condizione di quella gioventù - veramente bruciata - dell'epoca.. noi in infradito a goderci sole e spiagge, loro tra feritoie e dannazioni a consumare in un lampo di dolore e morte i migliori anni.. come può essere così folle l'uomo? ..e come fortunati noi, nonostante mille problemi, a poterci godere la natura, l'età, la bellezza, anche solo il sole a scaldare? Questo pensavo varcando erte mura sorte dall'odio...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Condivido: grazie, Franco, per questo tuo contributo

      Elimina
  4. sei un ottimo recensore, complimenti sinceri, hai competenza.

    la notte è, secondo me, un ritorno alle origini, non nelle grandi città ovviamente, quando vado in montagna, se la temperatura me lo consente, passo pezzi di notte nel giardino. Il silenzio degli umani, l'assenza degli umani, è una resa nei confronti della natura, una presa di coscienza del piccolo nei confronti di qualcosa di grande e maestoso.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie, Tads, per le tue belle parole. Dici bene: la notte è un ritorno alle origini...

      Elimina
  5. Quando entro in qualsiasi libreria o biblioteca ho sempre la malinconica sensazione di dare addio a qualcosa. Allora mi aggiro tra gli scaffali con particolare apprensione (qualche volta mi fermeranno per chiedermi di aprire la borsa tanto sembro furtiva*) osservo, sfoglio e penso sempre a quanto non sarò in grado per il poco tempo a disposizione di leggere e fare mio..

    RispondiElimina
    Risposte
    1. E' una sensazione che provo anch'io: al cospetto di migliaia e migliaia di libri, che mai potrò leggere, avverto forte il senso della mia limitatezza.

      Elimina