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giovedì 26 febbraio 2015

Un uomo che voleva essere uno zero assoluto



Ci sono certi personaggi letterari - nati dalla penna di alcuni grandi scrittori - che godono della mia appassionata simpatia e meritano tutto il mio affetto: sono gli “ultimi”, quelli che chiamano inetti e che hanno difficoltà a vivere una vita cosiddetta normale. Devo pertanto ammettere che non amo in modo particolare le persone che vincono sempre, che hanno successo e che conducono una esistenza brillante e soddisfacente. Costoro mi annoiano, non li sopporto, non hanno nulla da insegnarmi. Preferisco piuttosto gli incerti, quelli che hanno sbagliato strada, che sono sempre alla ricerca di qualcosa, ma non sanno mai quale. Perché forse cercano se stessi attraverso gli altri e questo loro cammino esistenziale spesso diventa anche il mio.
Insomma, ad un arrampicatore sociale come Geoges Duroy, il protagonista del romanzo “Bel-ami” di Maupassant preferisco, per esempio, uno sconfitto dalla vita come Alfonso Nitti, il personaggio descritto da Italo Svevo nel suo libro “Una vita”. Oppure uno come Jakob von Gunten - dell’omonimo romanzo di Robert Walser che ho appena finito di leggere - il quale voleva addirittura essere uno zero assoluto “un magnifico zero rotondo come una palla”.
 
 E per raggiungere questo estremo e poco qualificante obiettivo, il nostro eroe frequenta uno strano ed insolito istituto (il Benjamenta), dove i professori non gli danno mai compiti; l’unico insegnamento che gli viene impartito consiste sostanzialmente nell’inculcare nel suo animo due essenziali qualità: pazienza e ubbidienza. E’ un istituto che invece di formare la personalità dei suoi allievi con lo studio, cerca di demolirla attraverso la negazione del pensiero, la disciplina e le rinunce. “A che servono a un uomo i pensieri e le idee – dice Jacob – se ha la sensazione di non saper cosa farsene?”. E allora è meglio non pensare, perché “chi pensa s’impenna”. La fedeltà, lo zelo, l’altruismo discreto e servizievole sono le sue principali virtù. Non sa figurarsi niente di più bello dell’ubbidienza, della disciplina e dell’attenzione verso gli altri.
Per capire la psicologia di Jakob von Gunten non si può prescindere dalla vita del suo autore, questo candido e raffinato scrittore svizzero (era il preferito di Musil e Kafka) che visse quasi sempre tra Zurigo e Berlino e proprio in quest’ultima città frequentò una scuola per domestici che gli suggerì l’arte ossequiosa del servire, che traspare con forza prorompente nelle sue storie. Si può senz’altro affermare che tutti i suoi libri sono autobiografici: è sempre lui - il mite e riservato scrittore Robert Walser - che si cela dietro i suoi personaggi i quali fanno dell’assenza la propria ragione di vita, in antitesi all’atteggiamento presenzialista della società in cui noi oggi viviamo, dove l’apparire è più importante dell’essere, dove la visibilità ha più valore della discrezione.

Il talento letterario di Walser fu riconosciuto solo dopo la sua morte, che avvenne il giorno di Natale del 1956: si accasciò sulla neve, durante la sua solita passeggiata che soleva fare tutti i giorni da quando – all’età di 50 anni – era stato trasferito (o forse aveva volontariamente deciso di rinchiudersi) in una clinica psichiatrica. Egli stesso aveva previsto e descritto la sua morte, ventotto anni prima, in un suo celebre libro “I fratelli Tanner” quando racconta che il protagonista del romanzo, Sebastian, “doveva essersi accasciato lì per una grande stanchezza che non riusciva più a sopportare (…) e si aveva la sensazione che non fosse in grado di affrontare la vita e le sue fredde esigenze”.
Se fosse vissuto ai giorni nostri avremmo potuto dire che Walser non amava la ribalta mediatica. “Chiunque abbia da far mostra dei suoi successi e riconoscimenti – dice Jakob – lo si vede quasi ingrassare, nutrirsi di compiacimento, gonfiarsi per la forza della vanità fino a diventare un pallone irriconoscibile. Dio preservi la brava gente dagli applausi della massa. Anche se non diventano cattivi, perdono la testa e s’infiacchiscono”. Parole emblematiche che dipingono bene la vanità di certi personaggi che cavalcano la cronaca dei nostri tempi. E poi, dobbiamo riconoscergli quel particolare intuito con cui aveva saputo anticipare alcune caratteristiche della nostra società consumistica, quando affermava che “ci impadroniamo prima di una cosa, poi di un’altra, e una volta che ce ne siamo impadroniti, quasi quasi è essa che ci possiede. Non siamo noi a possederla, ma, al contrario, quello che credevamo essere una nostra conquista, finisce poi col dominarci”. Non siamo forse posseduti dalle nostre meravigliose macchine? Non siamo forse diventati schiavi delle nostre sofisticate conquiste tecnologiche?
Con una prosa tenera, ironica, a volte malinconica, Jakob Von Gunten/Walser ci insegna che per rimanere puri bisogna scendere dal piedistallo del successo mondano e della gloria e non vantarsi del proprio albero genealogico e del proprio potere. Ci ricorda che si può essere perfettamente tranquilli e sereni pur non essendo scalatori sociali ma semplici individui sperduti e dimenticati nell’immensità della vita: basta saper aspettare e nello stesso tempo saper tendere “l’orecchio verso la vita, verso quella pianura che si chiama mondo, verso il mare con le sue tempeste”.

2 commenti:

  1. Grazie Remigio per avermi fatto scoprire questo autore che non conoscevo e con cui penso di entrare in confidenza.

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    1. Così come io ringrazio te, per i tanti suggerimenti che mi offri quando leggo il tuo blog. A risentirci, Giorgio, e tante belle cose.

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