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lunedì 2 febbraio 2015

La Memoria



In questi ultimi tempi i libri più belli li trovo quasi sempre sulle bancarelle dei mercatini dell’usato. A volte sono testi che, inspiegabilmente, gli editori si rifiutano di stampare, indaffarati come sono a sommergerci di thriller, dove i morti ammazzati abbondano, e di improbabili libri di ricette di cucina, scritti non già da grandi chef – come la logica vorrebbe – ma da presentatrici e veline della televisione che, non si sa in base a quali competenze ed abilità gastronomiche, aspirano ad offuscare la fama di Pellegrino Artusi.

Giambattista Angioletti - l’autore di questo straordinario romanzo che si intitola “La memoria” - è un nome sconosciuto alla stragrande maggioranza dei lettori; ed era sconosciuto anche al sottoscritto fino a quando il suo fiuto non l’ha scoperto, nascosto e quasi schiacciato da una mole impressionante di volumi di Ken Follet, in vendita sulla stessa bancarella un tanto al chilo.

Questo autore “ troppo mite e disincantato, gran signore delle lettere, dai gesti nobili e lenti, dalle parole sobrie e meditate” - come scrisse di lui una sua amica scrittrice, Clotilde Marghieri - era nato a Milano nel 1896 e fu un acceso  sostenitore di una letteratura aurea, rigorosa, direi aristocratica; fautore di una sorta di prosa d’arte, messaggera di atmosfere poetiche e auliche, velata di dolce e struggente malinconia. Trascorse gli ultimi anni della sua vita a Torre del Greco, “il suo approdo finale” in una casa di campagna ai piedi del Vesuvio, “illudendosi di avervi trovato la pace” e rammaricandosi che i suoi amici del nord non capissero questo suo amore per il sud, pur continuando a sentirsi milanese a Napoli. Così scriveva ancora la sua amica Clotilde Marghieri: “…qui, nella sua stanza bianca come una cella, al suo tavolo di lavoro messo in modo da poter guardare la casa di Leopardi, egli voleva vedere nella memoria tutti i luoghi scoperti e amati; e insieme con la memoria personale voleva coltivare quella memoria comune di tutti i paesi e di tutti i tempi, che nella sua forse utopica Europa stava a simboleggiare il suo sogno di fratellanza umana. Qui, prima di morire, diceva, doveva rileggersi tutti i classici, accomiatarsi dai Maestri…”

Io credo che egli stesso oggi sia da considerare un Maestro e, leggendo questo suo libro, dalla prima all’ultima pagina, non si può non rimanere incantati di fronte alla bellezza della sua prosa.

“La memoria” è il racconto autobiografico e retrospettivo della sua infanzia ed adolescenza vissuta nella Milano di fine Ottocento e prima della guerra del 1915-18. L’io narrante è un ragazzino “figlio di signori”, solitario, ultrasensibile, riflessivo e triste il quale, proprio nell’età in cui si è spensierati e felici, lui - governato da demoni invisibili - si interrogava sui grandi temi dell’esistenza: l’eternità, l’infinito, Dio, l’amore, il dolore, l’infelicità, la povertà, la ricchezza. Si chiedeva “per quale perfido disegno si nasce creature umane, e non piante, pietre, nuvole”; si domandava perché mai il mondo “ si dividesse in servi e padroni, in poveri e ricchi” e si interrogava sull’esistenza di Dio: mai avrebbe trovato pace “fin quando la presenza divina non fosse diventata in me, anziché angosciosa, soccorrevole e consolatrice”.

Era un bambino che appariva privo delle qualità necessarie ad assicurarsi il successo nella vita: la disinvoltura, la parola facile e spiritosa, la furberia, la vivacità. Tutto ciò lo rendeva infelice; non riusciva ad essere spigliato e sicuro come i ragazzi del viale in cui abitava, che lui ammirava e ai quali si sforzava di somigliare. Ma invano. E soffriva. E allora avrebbe voluto “dare la testimonianza di qualche istinto malvagio, rompere un vaso di cristallo, dar lo sgambetto ad un ospite, imitare la voce chioccia di una vecchia signora: tutte imprese portate a termine con successo da altri ragazzi”. Ma non avrebbe mai trovato il coraggio per queste azioni.

Il libro si divide in 12 capitoli, ognuno dei quali si sofferma su un momento significativo della sua vita adolescenziale ed in particolare: il viale dove abitava con la sua famiglia e dove si svolgevano tutte le attività sociali e commerciali; il laboratorio di ceramiche del nonno, dove si sentiva ingiustamente rifiutato dagli operai solo perché era il nipote del padrone; e poi la sua casa, frequentata da “personaggi di riguardo” che parlavano sempre di affari, di danaro, eccitandosi ed animandosi “ognuno impaziente di raccontare come riuscisse a sedurre i clienti, a ingannare i provinciali, a sventare i tranelli dei concorrenti, tra il fumo acre dei lunghi sigari, il risuonare delle catene d’oro sui panciotti e le acclamazioni avide delle mogli”; e poi le feste, durante le quali tutti “diventavano pii e devoti”, tutti fingevano di divertirsi, come i pagliacci del circo, “tanto esperti nel fingere l’entusiasmo e la gioia”; e poi il ballo in maschera al Circolo dove i partecipanti, con i loro travestimenti “non avevano più bisogno di nascondere il loro vero animo, come facevano ogni mattina ricomponendo il volto a gravità, a dignità (…), camuffati da diavoli e da buffoni potevano finalmente dar sfogo ai loro veri istinti puerili, inverecondi e dispettosi”.

Ma come poteva risollevarsi questo bambino intelligente e dall’animo nobile e sensibile, che dava il meglio di sé nella tristezza anziché nell’allegria? Che non mostrava alcuna abilità, che arrivava sempre ultimo, che non sapeva divertirsi, che era sempre pensieroso? Che appariva troppo buono, sottomesso, mansueto, forse sciocco, che veniva preso in giro dai suoi compagni e che, date le sue caratteristiche, non avrebbe mai potuto raggiungere un’onorevole posizione nel mondo? Come poteva diventare degno di attenzione?

Sono le parole a salvarlo. Capisce che i fatti della sua vita, ricreati dalle parole, apparivano in una luce più precisa e attraente; si accorge che per far vivere la realtà “bisognava descriverla, le parole risollevavano le immagini affastellate nella memoria come vecchie tele in una soffitta; e anche gli avvenimenti più paurosi diventavano nella rievocazione affascinanti”.

E cosa c’è di più bello della pagina scritta, anche quando è chiamata a raccontare il grido di dolore di un bambino? La pagina scritta – se ben scritta -- riesce a far dimenticare anche la sofferenza interiore che intende raccontare e ciò che si coglie in essa non è tanto la difficile condizione di chi soffre, quanto la vitalità e l’eleganza della prosa, la raffinata ironia che aleggia in alcune bellissime descrizioni, l’armonia dei pensieri. Tutto questo è il libro.

4 commenti:

  1. Giambattista Angioletti.
    Non l'ho mai letto.

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    Risposte
    1. Non possiamo conoscere tutti gli scrittori e tutti i libri. Pensa che S. Agostino, durante tutta la sua vita, aveva letto "solo" 300 libri. Io di libri sicuramente ne ho letti di più, eppure la mia cultura non è paragonabile a quella del vescovo di Ippona.

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    2. Ai tempi di S. Agostino leggere 300 libri significava aver letto quasi tutto lo scibile disponibile.

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