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domenica 25 gennaio 2015

Vivere la bellezza

Camerota: spiaggia di Cala Bianca

Quando si parla della “bellezza” bisognerebbe evitare di commettere un errore di valutazione spesso ricorrente  e cioè considerarla come un bene di lusso riservato a pochi eletti. La bellezza, invece, è un valore universale che appartiene a tutti. E’ patrimonio dell’umanità.
Non c’è luogo, non c’è paese  in Italia, che non abbia qualcosa di bello da mostrare sia sul piano naturale che su quello artistico-architettonico, tale da suscitare in ognuno di noi una molteplicità di emozioni e sensazioni. Secondo il filosofo Remo Bodei, l’emozione più alta e forse più rara si percepisce quando, trovandoci al cospetto di un grande capolavoro dell’arte, sentiamo un vero brivido che attraversa tutto il nostro corpo. “E’ la pelle d’oca la vera espressione della bellezza”, così scrive il filosofo. Direi, tuttavia, che ci sono bellezze più complesse che, per suscitare in noi emozioni e rimanerne attratti, richiedono un grado di conoscenza superiore, una sensibilità estetica straordinaria, necessitano di una riflessione prolungata affinché possano essere apprezzate; sono come quelle canzoni d’autore poco orecchiabili ma raffinate e difficili, che hanno bisogno di tempi d’ascolto più lunghi per essere amate. Esistono altre bellezze, invece, che sono alla portata di tutti e da tutti sono comprensibili, anche dalle persone più sprovvedute che, seppure digiune di particolari conoscenze e competenze storico-artistiche, riescono tuttavia  a meravigliarsi e stupirsi al primo sguardo.
Giorgio de Chirico: le muse inquietanti
 
E così può accadere che un dipinto di Giorgio de Chirico come “le muse inquietanti” fa storcere il naso a chi non sia in grado di comprendere i significati nascosti insiti nell’arte della pittura metafisica; al contrario, di fronte ad un quadro del Canaletto - uno dei pittori più affermati del ‘700, noto soprattutto per la sua pittura “fotografica” –   come quello raffigurante “piazza San Marco a Venezia” non si ha nessuna difficoltà a cogliere l’incanto della sua rappresentazione artistica che si compie attraverso il felice connubio tra architettura e natura.

Canaletto: Piazza San Marco

Sembrerebbe, quindi, che noi vediamo sempre ciò che comprendiamo e le emozioni che ne scaturiscono sono legate intimamente non solo alla maggiore o minore sensibilità che sappiamo esprimere, ma anche al grado di conoscenza di cui siamo dotati: nel primo caso solo una approfondita preparazione o una più attenta visualizzazione o valutazione ci avvicina alla bellezza metafisica che ha inteso comunicare il pittore, nel secondo caso, invece, riusciamo a percepirne l’essenza anche non avendo competenze specifiche in merito. Basta un colpo d’occhio per cogliere qualcosa (nel nostro caso la meravigliosa piazza San Marco) che ci seduce e che ci spinge a dire: quel quadro è veramente bello! E questo perché a volte desideriamo vedere ciò che più amiamo nella realtà: la bellezza della natura, la perfezione di un volto, la magnificenza di un luogo. E’ pur vero, però, che questa preferenza per i soggetti gradevoli ed attraenti potrebbe indurci a respingere opere altrettanto belle, solo perché le tematiche in esse rappresentate non soddisfano la nostra personale idea di bellezza. E’ difficile mettere in dubbio la bellezza che ispira il dipinto “le due sorelle” del pittore francese W. Bouguereau: siamo quindi portati a dire che il quadro è molto bello.
W. Bouguereau; le due sorelle

Anche Henri Matisse dipinse un quadro simile: probabilmente “le due sorelle” uscite dal suo pennello a prima vista non sembrano poter competere con la bellezza delle prime due. Però, si può mai affermare che l’opera di Matisse è brutta? Quest’ultimo dipinto - espressione di una tecnica meno realistica, che in qualche maniera si allontana da una visione fotografica della realtà – possiede comunque una forza ed una bellezza evocativa pari al primo; quindi dobbiamo convincerci che la bellezza di un dipinto non dipende esclusivamente dalla bellezza del soggetto.
Matisse: le due sorelle
 
Vorrei concludere dicendo che il bello tocca sempre le corde più intime e più sensibili dell’animo umano e ci pone di fronte alla nostra limitatezza e fragilità, alla nostra irrilevanza nei confronti della grandezza della natura e dell’ingegno umano.

lunedì 19 gennaio 2015

I nuovi barbari

Riporto, di seguito, un mio post pubblicato sulla rivista on line "La Mandragola" http://www.lamandragola.org/ che tratta - come recita il sottotitolo - "notizie approfondimenti informazioni dal Cilento". Invito chi mi legge a visitarla.

C’è stato un tempo, nemmeno tanto remoto, in cui - percorrendo le strade che si inerpicano lungo le colline del Cilento - era possibile scorgere le sagome inconfondibili dei vari paesi ivi arroccati, attorniati da vecchi casolari di campagna rigorosamente costruiti in pietra locale. Erano luoghi familiari e facilmente riconoscibili dagli abitanti del posto, perché il paesaggio che si stagliava in lontananza difficilmente mutava nel tempo, aveva una sua specifica identità, appariva sempre identico: la cementificazione selvaggia non era ancora arrivata, lo sfruttamento del territorio non aveva preso piede. Lungo il percorso si potevano ammirare, inoltre, graziosi muretti a secco, frutto del lavoro caparbio e certosino dei nostri contadini che lavoravano la terra e la proteggevano dalle frane e dagli smottamenti con questi semplici e naturali sbarramenti di pietra. Autentici capolavori di architettura rurale. Di questi muretti a secco, purtroppo, se ne vedono sempre di meno. Così come sembrano spariti quei caratteristici casolari di campagna, il cui legame con il territorio circostante era ancora molto forte. In compenso, al loro posto, stanno sorgendo come funghi orribili filari di villette a schiera tutte uguali: veri condomini orizzontali. Costruzioni, quest’ultime, che hanno ormai preso il sopravvento in ogni angolo del Cilento.
Mi viene in mente una pagina del romanzo di Antonio Scurati “Il sopravvissuto”, il cui protagonista così descrive il suo paese (ci troviamo nell’interland milanese, ma potrebbe essere anche un paese del Cilento) “ai margini delle strade statali il prolasso del paesaggio rurale era così veloce che quando andavi in ferie per tre settimane, al tuo rientro stentavi a trovare la strada di casa”. Sembra una provocazione, un paradosso, ma la finzione letteraria non si discosta molto dalla cruda realtà: il sottoscritto, ogni qual volta ritorna nel suo paese d’origine, ritrova sempre una nuova costruzione, magari laddove solo qualche mese prima sorgeva un vecchio rudere di campagna; oppure, cosa molto più deprecabile, si imbatte in antiche e nobili dimore che hanno subito improbabili interventi di restauro su cui bisognerebbe solo stendere un velo pietoso.
Stiamo facendo di tutto per stravolgere l’anima dei luoghi. Le torri, i castelli, i palazzi signorili costituivano il segno di riconoscimento di un Cilento antico; intorno a questi simboli di appartenenza ruotava un’intera comunità in cui si ritrovava e si riconosceva. Il paese, anche in lontananza, diventava riconoscibile grazie a loro. L’incuria dell’uomo per il territorio in cui vive procede di pari passo con le sue scellerate scelte urbanistiche, non sempre in relazione alle caratteristiche ambientali in cui vengono inserite. In un lontano passato i Barbari – così venivano chiamati dagli antichi Romani quei popoli che vivevano al di fuori dei loro confini - invadevano i territori, distruggendo e saccheggiando tutto ciò che incontravano lungo il passaggio. Oggi la barbarie non è costituita dalle distruzioni, ma dalle costruzioni. I nuovi barbari distruggono, costruendo. Io quando penso ai barbari, penso a quei costruttori senza scrupoli che spesso, in combutta con amministratori locali incompetenti e poco sensibili alla bellezza del posto in cui operano, violano il territorio con orrendi fabbricati seriali, senza stile e senza armonia. E costruendo, continuano a scardinare luoghi pieni di memoria e di silenzio, modificando in maniera davvero violenta antichi borghi, distruggendo colline dove rigogliosa sorgeva la macchia mediterranea. Villaggi turistici (che si animano solo in estate, mentre durante i mesi invernali diventano agglomerati fantasma), strutture balneari lungo le coste, villoni con piscine olimpioniche invadono ogni luogo, si appropriano del territorio. La fisionomia di un paese cambia in maniera veloce, tanto che si stenta a riconoscerlo e si perde quell’antica e piacevole sicurezza di sentirsi “a casa”.
Sia ben chiaro che sono favorevole ad un corretto uso del territorio; sono sostenitore di un piano urbanistico del paese a misura d’uomo. Sono contrario, invece, alle speculazioni edilizie, alle costruzioni sempre più invadenti che cancellano le tracce del passato, che non legano in maniera armoniosa con il territorio in cui vengono realizzate; sono contrario a quegli interventi edilizi che non “lasciano parlare” i luoghi. Si, perché i luoghi del Cilento non sono cose morte, ma hanno un’anima e parlano di noi: della nostra storia, dei nostri antenati, di come eravamo. Una nuova costruzione non deve rompere il rapporto uomo/natura, quel sodalizio che regge da secoli: deve invece arricchire un luogo non distruggerlo; deve renderlo più bello, non imbruttirlo. Natura e opera dell’uomo devono fondersi in un unico paesaggio, in una sorta di simbiosi in cui l’una si possa specchiare nell’altra. Provate a immaginare un’antica abbazia circondata da un bosco; e poi confrontatela, sempre nell’immaginazione, con una serie di villette a schiera. Sarebbe interessante conoscere le diverse reazioni emotive.

Io penso che il tramonto di un’epoca (e forse la nascita di una nuova civiltà) si può intravedere, non solo attraverso l’inarrestabile e aggressivo progresso tecnologico che ha invaso le nostre esistenze, ma anche attraverso il deterioramento e la devastazione dei posti in cui viviamo; questa evoluzione (positiva o negativa, secondo i diversi punti di vista) si può scorgere osservando il quotidiano accanimento urbanistico contro il territorio e il suo passato, che se apparentemente non ci dice nulla, o non ci facciamo caso, in realtà descrive meglio di qualsiasi altra immagine la fragilità della condizione umana. Quella fragilità che umanamente ci appartiene e ci fa somigliare a quei luoghi che stiamo distruggendo e in cui non ci riconosciamo più.

 

sabato 17 gennaio 2015

Il tempo e la nostalgia



La nostalgia ha come punto centrale della sua essenza il “tempo” che fugge via e mai, come in questo particolare momento della mia vita (forse sto invecchiando), avevo avvertito in maniera così forte questo sentimento che  mi riporta costantemente a ciò che ho vissuto...a ciò che è stato.

Tornare indietro con la memoria significa, sempre, scoprire che quel “luogo”, quella “cosa” non esistono più. Oppure esistono, ma la loro intima natura è cambiata e con essa, siamo cambiati noi stessi. Scrive Pessoa in una poesia dedicata a Lisbona: “Lisbona torno a rivederti, ma io non mi rivedo. Torno a rivederti, ma io non mi rivedo”.

Questa nostalgia del passato, questo desiderio legato al ricordo rappresenta, per me, anche una forma di difesa nei confronti di una strana realtà in cui non sempre riesco ad immedesimarmi, una realtà che non mi appartiene, in cui faccio fatica  a ritrovare la mia giusta dimensione e collocazione. E allora mi capita di tuffarmi nel tempo che fu e, nella memoria nostalgica, il passato riesco sempre ad ingentilirlo, a coprirlo di un’ aura positiva, a nobilitarlo e percepirlo, il più delle volte, migliore del presente. E questo forse è l’errore che mi impedisce di comprendere le cose dell’oggi, e da qui nasce la mia nostalgia:
nostalgia di certi luoghi della mia passata giovinezza in cui non ritrovo più quelle cose amate, quelle atmosfere che mi rendevano felice, in cui non ritrovo più la bellezza del paesaggio perché deturpata dal cemento e dalla spazzatura che avanzano e dagli incendi che tutto distruggono;

nostalgia di quegli antichi sapori, di quei profumi intensi che sapevano di tradizione, di natura incontaminata e di genuinità;

nostalgia di quelle antiche botteghe di artigiani, dove tutto veniva fatto a mano con passione e con cura, sostituite da moderni locali dove vendono stracci e oggetti alla moda e dove tutto è omologato;

nostalgia delle macchine di una volta, quelle belle autovetture che avevano una propria identità, direi quasi una propria anima e che riconoscevi da lontano e le amavi perché uniche.....oggi invece i modelli sono centinaia, standardizzati, tutti uguali, irriconoscibili;

nostalgia di quelle strade senza cartelloni pubblicitari che ti opprimono e senza graffiti che ti violentano, opera quest’ultimi di emeriti idioti che vengono invogliati a insozzare da coloro che si ostinano a chiamarli artisti di strada;

nostalgia di quel tempo in cui non esistevano ancora i telefonini (soli pochi anni fa), quando si conosceva l’attesa e telefonare significava parlare senza farsi sentire dagli altri, a casa o in una cabina telefonica;

nostalgia della televisione in bianco e nero, con una programmazione che aveva un inizio ed una fine, quella televisione che sapeva divertire ed informare, che al posto della pubblicità trasmetteva “intervallo” con le pecore che pascolavano o con le immagini di antichi borghi;

nostalgia…

mercoledì 7 gennaio 2015

Quant'è buono il pane di ieri!



 

Enzo Bianchi – per chi non lo conoscesse – è un monaco laico, fondatore e Priore del Monastero di Bose nel Canavese, una comunità religiosa di grande successo e spiritualità meta di tantissimi pellegrini in cerca di silenzio, meditazione e preghiera. Con questo suo libro, che io  lessi nel marzo 2010, lo scrittore piemontese rivisita il suo passato vissuto nella sua amata terra del Monferrato. E lo fa proprio al fine di cogliere in esso le chiavi di lettura non solo del presente ma anche del futuro. Perché l’esperienza che ci viene dal passato è buona anche per affrontare gli anni a venire,  ed i principi e i valori che hanno alimentato l’esistenza di chi ci ha preceduto sono in grado di sostenere anche noi che viviamo il presente.

I ricordi di quella vita faticosa, portata avanti con durezza per il lavoro quotidiano e per l’isolamento in cui si viveva nelle cascine, affiorano nitidi e appassionati in queste pagine. Una carrellata di immagini, di luoghi, di personaggi, di sensazioni, di suoni, di profumi che sembrano scomparsi dalla nostra vita quotidiana e che vengono evocati con affetto e con gioia, misti a nostalgia.

Come le campane che tendono a non suonare più e comunque quando rintoccano nessuno riesce nemmeno ad ascoltarle, soffocate come sono dal frastuono del traffico, dai telefonini sempre accesi, dai rumori assordanti. Erano suoni che scandivano la vita nei paesi di campagna, che venivano ascoltati come moniti quotidiani e ritmavano il passare del tempo avvolgendo la vita delle comunità, aiutandole nella loro identità e fornendo loro un vero linguaggio di comunicazione a distanza.

Come dimenticare il canto del gallo, che da messaggero del giorno è stato bandito dalle nostre esistenze. Confesso - dice Enzo Bianchi – che per me è sempre stato ed è il suono quotidiano più straordinario, più desiderato, più amato. E come non ricordare la cucina tradizionale, quella fatta con ingredienti  genuini: quel profumo di ragù che si avvertiva camminando lungo le stradine del borgo antico nei giorni di festa. Sparito. Oppure il profumo del pane appena sfornato, fatto in casa nel forno a legna. Si è perso il senso di questo fondamentale alimento della nostra tavola: oggi viene facilmente trascurato e sostituito con tanti prodotti alternativi la cui unica positività consiste in una negatività e cioè quella di non farci ingrassare.

Tra i tanti ricordi non poteva non spuntare, nel libro, la coltivazione della vite e la trasformazione dell’uva in vino, attraverso il rito antichissimo della vendemmia. La stagione della vendemmia era ed è non solo il coronamento di un’annata di lavoro ma il simbolo dell’intimo rapporto tra l’uomo e la terra che abita. E quando si parla di terra, il ricordo di Bianchi va immancabilmente all’orto: l’autore aveva solo 14 anni, quando chiese in dono a suo padre un piccolo fazzoletto di terra da coltivare e da allora non riesce a vivere senza accudirne uno, perché un orto non solo dà gusto ai cibi, ma gli insaporisce l’anima. L’orto quindi come una grande metafora della vita spirituale, come lo spazio interiore della nostra vita, luogo di lavoro e di delizia, luogo di semina e di raccolto, luogo di attesa e di soddisfazione.

Il ricordo del passato passa anche attraverso le feste, che venivano vissute con partecipazione e semplicità e che costituivano un’occasione importante, allietate con pasti abbondanti e preparati con cura. E’ un mondo semplice, quello che ci descrive Enzo Bianchi, un mondo che seguiva i ritmi delle stagioni, che non conosceva i tempi frenetici della vita moderna, che prediligeva la lentezza piuttosto che la velocità.

venerdì 2 gennaio 2015

L'insostenibile ansia della condivisione



Questo post è stato pubblicato sul Blog http://alfonsocernelli.blogspot.it/ Credo sia una riflessione molto interessante, che riporto di seguito:

“ L’altro giorno sull’autobus c’era una donna che, munita di una tavoletta elettronica di ultima generazione, scriveva i propri appuntamenti di vita e di lavoro. Il magico apparire dell’apparecchio del desiderio calamitava l’attenzione di molti dei presenti, che si mettevano tranquillamente a leggere gli appunti della signora. Anche io non sono riuscito a fare a meno di sbirciare, scoprendo così che la signora aveva per le ore 10 un appuntamento dal dentista e alle 17 avrebbe atteso l’idraulico a casa. Allora io mi sono chiesto se, qualora al posto dell’aggeggio elettronico da 10 pollici la signora avesse tirato fuori taccuino e penna, l’effetto sarebbe stato lo stesso. La domanda è retorica. Con una penna ed un’agenda la privatezza della signora sarebbe stata tutelata, questo è certo, ma essa non avrebbe potuto condividere col mondo le proprie esperienze, cosa che faceva con parecchia disinvoltura, ben avvedendosi della presenza di estranei che sbirciavano i suoi affari.

Nel lontano 1973 Guido Morselli, anticipando con grande lucidità i mali (e la stupidità) del nostro tempo, scriveva: “non mi convince la tesi che ogni esprimere, anche il più privato, supponga un comunicare”. A distanza di quaranta anni, possiamo affermare con certezza che quelle parole hanno assunto una portata profetica.

Il raccontare agli estranei le proprie faccende private, infatti, sembra essere oggi la forma più diffusa di comunicazione, se non quella esclusiva, almeno per molte persone. La massiccia diffusione dei telefoni portatili e dei c.d. “social network” ha ampliato la possibilità per tutti di comunicare, consentendo a chiunque, persino in strada o sull’autobus, di esprimere pensieri e raccontare vicende, che spesso non meriterebbero di essere condivisi, perché futili, discutibili, offensivi, banali. Il mezzo, certamente fenomenale, è stato così utilizzato male. L’ampliamento delle possibilità comunicative ha determinato una perdita di qualità del contenuto della comunicazione. Ho sentito persone parlare ad alta voce al telefonino dell’ultima di campionato di calcio, oppure litigare, o discutere animatamente, senza fare nulla per abbassare la voce o per non dare nell’occhio. Ci sono taluni che desiderano che gli altri ascoltino la loro conversazione, per far sapere quanti soldi hanno, quale lavoro svolgono, quale squadra tifano, dove andranno in vacanza. Un tempo le cabine telefoniche erano munite di porte e pareti, che salvaguardavano la segretezza della comunicazione e la voglia di non ascoltare dei passanti. Oggi queste barriere sono scomparse: la condivisione, persino di vicende che dovrebbero essere confinate in ambiti di gelosa riservatezza, è divenuta la regola becera della modernità. Tutto deve essere lasciato in pasto alla rete, perché ognuno crede di essere innovativo, di avere pensieri o parole originali da diffondere. Senza pensare che, in molti casi, sarebbe meglio sussurrare, per un’istintiva forma di difesa”.