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mercoledì 9 dicembre 2015

Caro amico ti scrivo...



Si tu vales bene est, ego valeo: se tu stai bene sono contento, io sto bene. Era usanza degli antichi romani iniziare una lettera con questa formula. Lo scriveva Seneca oltre duemila anni fa (lettera n. 15) a quel suo amico di Pompei che si chiamava Lucilio. A quei tempi non esisteva il telefonino e se volevi mandare i saluti ad un conoscente lontano, dovevi procurarti carta e penna (o meglio calamus e papiro) e poi affidarti alle poste dell’epoca (si fa per dire). Da allora – a partire, appunto, dalle Lettere a Lucilio - ne sono state scritte di lettere e di epistolari famosi, anche di alto valore letterario! Ma chi scrive più le lettere come una volta? Nessuno. Eppure, io penso che certi pensieri riportati sulla carta acquistino un sapore ed un valore speciale, un modo diverso di ascolto e di comprensione, perché quando si scrive si è molto più attenti a studiare le parole, a limarle, a trovare quelle che meglio si adattano in quella particolare circostanza. Si sa che la comunicazione verbale è più immediata, però quella che si esplica attraverso una lettera è senz’altro più meditata, più elaborata, permette di leggere tra le righe anche ciò che non viene detto esplicitamente e – diciamocelo - consente anche di verificare le capacità letterarie e di scrittura di chi mette nero su bianco. Mi azzardo a dire che quando ci esprimiamo a voce siamo un po’ “stupidi”, quando invece scriviamo ci sforziamo di essere intelligenti.

La lettera, quale originario strumento di comunicazione, era un oggetto che si poteva accarezzare e stringere fra le mani. E si poteva scorrere con gli occhi per cogliervi non solo il senso delle parole, ma anche  lo stato d’animo di colui che scriveva; era una sorta di reliquia che si conservava e si rileggeva a distanza di tempo, ogni volta rinnovando emozioni ed evocando ricordi. Le parole volano, soprattutto quelle dette al telefono in maniera distratta, o nelle conversazioni; quelle scritte, invece, sono sempre lì, a portata di mano e di occhi e dietro ad esse il volto e l’ animo di chi l’ ha inviate.

La lettera vergata a penna, come si faceva una volta, è praticamente scomparsa; ma per fortuna hanno inventato la mail, che in qualche modo ricorda la vecchia lettera, sebbene sia più sofisticata e veloce, in linea con i tempi moderni che sono paladini della rapidità. Certo, non esiste più quel tempo di attesa, con tutto il suo carico di emozioni, tra il momento in cui si scriveva ed il momento successivo in cui si riceveva la risposta, che era pur sempre un tempo di piacere. Oggi avviene tutto all'istante: è come rinunciare alla vigilia saltando immediatamente alla festa.
Io sono un po’ all’antica: preferisco la lentezza alla sveltezza, la lettera al telefonino. Tant’è che non ne posseggo uno. E già: il telefonino! Con lui devi essere super rapido. Devi sempre dare una risposta immediata e senza indugio Non hai più la possibilità di riflettere, di pensare, di meditare la risposta. Ti devi sempre giustificare se per caso ti cercano e non ti trovano. Non dicono mai pronto, quelli che ti chiamano, ma ti chiedono sempre dove stai. Abbiamo perso la riservatezza e di pari passo sono aumentati i bugiardi. Ma vuoi mettere la lettera? E se ci pensate bene, io credo che il telefonino sia lo strumento più maleducato che sia stato mai inventato, u’ cchiu scustumato (come direbbero a Bolzano). Perché squilla – attraverso musichette e suoni tra i più stravaganti - nel momento meno adatto, anche nelle situazioni più imbarazzanti, senza chiedere permesso a nessuno. Mettiamo, per esempio, che il sottoscritto si trovi in piacevole compagnia, da qualche parte, a chiacchierare con un amico e all’improvviso squilla il suo telefonino. L’amico che fa? Non dice allo scocciatore di richiamare più tardi perché ora è impegnato. No. Se proprio non vuole farmi ascoltare la sua telefonata (ma non succede mai, perché le telefonate degli altri sono rivolte soprattutto ai presenti), si alza e si allontana, lasciandomi naturalmente come un carciofo, per dare retta a quell’altro carciofo, a quell’intruso che ha interrotto la nostra amabile conversazione per chiedergli, evidentemente, una cosa urgentissima e cioè se aveva visto la partita in televisione. Non è arroganza, questa? Non è un malcostume? Era proprio necessaria quella telefonata? Invece con la lettera-mail non può mai succedere una simile e sciocca invadenza. Lei, la mail, se ne sta buona da qualche parte - annunciata in grassetto - in attesa che venga aperta. Non è maleducata. Non si intromette nella conversazione. Rimane tranquilla e aspetta il suo turno. E quando viene finalmente aperta, è perché chi l’ha ricevuta vuole leggerla proprio in quel momento. L’aspettava. Era ansioso di scorrerla con gli occhi – e perché no – di stringerla tra le mani, se usa l’accortezza di stamparla e conservarla, per rileggerla poi nelle ore di dolce malinconia. Mi domando: come si può non amare la lettera. Pardon, la mail.

giovedì 26 novembre 2015

Caino di Josè Saramago: un uomo come tutti gli altri



Libro provocatorio e irriverente, tant’è che la gerarchia ecclesiastica - in occasione della sua pubblicazione - lo marchiò immediatamente come blasfemo, da mandare al rogo. L’ho letto qualche tempo fa semplicemente perché l’avevo ricevuto in regalo da una collega; e probabilmente non l’avrei mai comprato, perché del grande scrittore portoghese, premio Nobel per la letteratura, avevo già l’esperienza di due precedenti letture quali “Cecità” e “La Caverna”, libri che secondo me rappresentano meglio il vero Saramago, la cui tematica narrativa si pone al limite tra il sogno e la realtà, tra il dramma umano e sociale e la fantascienza, piuttosto che su temi ironici/irrispettosi.

Lo stile narrativo è sempre quello caro a Saramago: lunghi periodi, a volte senza punteggiatura, con i suoi personaggi (Dio, Caino, Abramo ecc.) sempre indicati con la lettera minuscola, mentre altre parole, che possono essere avverbi o cose comuni, inspiegabilmente (per me) portano la lettera maiuscola. Vorrà dire qualcosa?

Con questo libro Saramago intende fare una rilettura, naturalmente a modo suo ed in maniera tagliente (ed è per questo che la Chiesa l’ha disapprovato e condannato) del Vecchio Testamento, a partire dalla creazione di Adamo ed Eva (io li scrivo con la maiuscola, perché non sono Saramago) soffermandosi su Caino, il figlio maggiore della prima coppia creata dal Signore, il primo uomo nato nella storia umana, un agricoltore che uccise il proprio fratello Abele, che di mestiere faceva il pastore.

Capovolgendo la tradizione storica cristiana, che ha sempre considerato Caino il prototipo dell’uomo cattivo, l’assassino del proprio fratello, Saramago ci rappresenta un Caino né migliore né peggiore degli altri uomini, un Caino che offriva al Signore - in segno di riconoscenza e di devozione - i frutti e le primizie del proprio lavoro nei campi, ma il Signore sembrava non gradire; si compiaceva, invece, per gli agnelli che Abele, suo fratello, gli sacrificava e così giorno dopo giorno cresce il rancore da parte di Caino non solo nei confronti del suo Dio, che considera ingrato, ma anche nei confronti del fratello, che lo irride. Perciò perciò un giorno lo uccide con le sue stesse mani. E alla domanda del Signore del perché lo avesse fatto, del perché si fosse macchiato di un tale crimine, Caino risponde: “...il primo colpevole sei tu, io avrei dato la vita per la sua vita se tu non avessi distrutto la mia”.

Per Saramago, il Signore non tratta i suoi figli nella stessa maniera e da questa considerazione ne viene fuori un Dio ingiusto, cattivo, invidioso il quale di fronte alla torre di Babele, credendo che gli uomini potessero arrivare fino al cielo, arriva perfino a temerli, ad avere paura di loro. “La gelosia è il suo grande difetto” dice Saramago nel libro “invece di essere orgoglioso dei figli che ha, ha preferito dar voce all’invidia, è chiaro che il Signore (con la s minuscola nel testo) non sopporta di vedere gente felice”. Quindi l’infelicità degli uomini come principio e sentimento che regge le sorti del mondo, perché “la storia degli uomini è la storia dei loro fraintendimenti con dio, né lui capisce noi, né noi capiamo lui”.

sabato 7 novembre 2015

Il giorno del giudizio



“Scrivo queste pagine che nessuno leggerà, perché spero di avere tanta lucidità da distruggerle prima della mia morte”. Così scriveva Salvatore Satta - uno dei più autorevoli studiosi italiani di Diritto processuale civile - nel 3° capitolo del suo libro “Il giorno del giudizio” ultimato un anno prima della sua morte, avvenuta a Roma nel 1975. Lo scrittore sardo – era nato a Nuoro nel 1902  - evidentemente ebbe modo di riflettere con serena lucidità sul suo estremo proposito e non portò a termine il compito che si era prefisso; e così, chi ama la bella scrittura, ha potuto leggere quelle pagine che lui avrebbe voluto distruggere per sempre.
Ne “Il giorno del giudizio”, considerato il suo capolavoro, Salvatore Satta dipinge un grande affresco storico ed umano sui vizi, le virtù, le miserie, i bisogni  e i desideri di un intero popolo, quello a cui lui stesso apparteneva ed a cui si sentiva legato: la gente della sua Nuoro. Il racconto si svolge, come scrive nel libro, attraverso “onde di ricordi che si accavallano in un assurdo disordine, come se tutta l’esistenza si fosse svolta in un solo istante”, mentre i suoi personaggi – che sono morti ma che il narratore ben conosceva in vita – li fa rivivere nella scrittura, li chiama quasi a raccolta uno ad uno. Uomini e donne di Nuoro, contadini e pastori, notabili e miserabili, notai ed avvocati, preti ed impiegati, ricchi e poveri, sfilano davanti a noi lettori “come in una di quelle assurde processioni del paradiso dantesco”. Personaggi che non avevano mai avuto una seppure minima identità e visibilità, che non avevano importanza per nessuno, perché la loro esistenza si riduceva a un atto di nascita e di morte, sembrano quasi chiedere all’autore di essere liberati dai propri affanni e dalle proprie miserie “…tutti si rivolgono a me – scrive l’autore – tutti vogliono deporre nelle mie mani il fardello della loro vita, la storia senza storia del loro essere stati (…). E forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno dalla loro memoria”.

Un libro che ci parla della vita di un’intera comunità attraverso la morte, perché a Nuoro, quando moriva qualcuno era come se morisse tutto il paese e la vita e la morte erano regolate e scandite dalle campane del borgo, dall’ave squillante del mattino all’ave spiegata della sera, fino ai rintocchi che davano notizia che uno di loro era passato a miglior vita: “nove per gli uomini, sette per le donne, più lenti per i notabili”.
Un libro che mi ricorda, in qualche modo, l’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters; infatti, così come il poeta statunitense fa parlare i suoi personaggi sepolti in un piccolo cimitero di un villaggio americano, attraverso componimenti poetici in forma di epitaffi, Salvatore Satta dà voce ai morti della sua terra che potranno finalmente essere ricordati, svela fatti e misfatti di una piccola comunità rurale, la Nuoro della sua infanzia e della sua giovinezza, attraverso un epitaffio funebre in prosa.  Quasi a voler significare che solo la morte può restituire dignità e verità nascoste.

lunedì 19 ottobre 2015

La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano



“sentirsi speciali è la peggiore delle gabbie che uno possa costruirsi”

 
E’ il romanzo d’esordio narrativo di questo giovane scrittore di Torino, nato nel 1982, con cui ha vinto il premio Strega 2008 ed il premio Campiello Opera Prima. Lo ricevetti in regalo nell’anno della sua pubblicazione e lo lessi immediatamente. Solitamente non mi piace leggere il libro del momento, di cui tutti parlano, best seller, tradotto magari in tutte le lingue del mondo: insomma l’ultimo prodotto letterario che fa bella mostra di sé nelle librerie, con la bella faccia dell’autore in quarta di copertina che ci invita ad acquistarlo. Sono cauto, non sempre mi fido, soprattutto se l’opera viene presentata come “il più eclatante caso letterario dell’anno”. Preferisco, invece, che quel romanzo decanti un po’, si faccia le ossa, invecchi come un buon vino. Solo così riesco – forse - ad apprezzarlo ed a gustarlo. Mi piace leggerlo quando nessuno più se lo ricorda, quando le pagine sono un po’ ingiallite col tempo, quando è passato quell’entusiasmo generale di massa. Non è stato così per “La solitudine dei numeri primi” e devo dire che all'epoca ne rimasi soddisfatto: felice di averlo letto quando tutti lo leggevano.

E’ un romanzo di formazione. Il nucleo centrale della narrazione ruota intorno ai “due numeri primi”  Alice e Mattia, figli di due famiglie della ricca borghesia: l’autore li segue passo dopo passo dalla prima infanzia, quindi durante l’adolescenza fino alla piena maturità; scandaglia attraverso alcuni episodi di vita vissuta le loro intime esistenze, ferite da tragedie da cui sono state segnate dall’infanzia: un incidente sulla neve per Alice, che le ha causato una imperfezione ad una gamba e la fa zoppicare, e la scomparsa della sorella gemella per Mattia, a causa di una sua imperdonabile negligenza, che lo aveva spinto per il rimorso a conficcarsi un coltello nella mano.

Quando un dolore penetra nell’animo di un bambino, ne rischiara la profondità fino a spingere all’esterno una spiccata sensibilità che forse resterebbe nascosta se non si verificassero eventi traumatici. E così sembra sia successo ad Alice e Mattia; i due appaiono diversi dagli altri ragazzi della loro stessa età, tendono ad isolarsi, dimostrano un’indole solitaria, un temperamento molto sensibile, si mostrano timidi ed impacciati, si sentono inadeguati, però hanno dalla loro parte altre qualità: Mattia, ha un’ intelligenza superiore alla media, è un ragazzo straordinariamente dotato, che sembra non voler creare legami con nessuno. E’ solamente interessato allo studio e i suoi risultati scolastici tendono sempre al massimo “c’é qualcosa di spaventoso in quei voti” afferma addirittura sua madre.

Alice invece - che è sempre in lite con la sua famiglia – è dotata di grande sensibilità, è alla ricerca disperata di una sua indipendenza, vorrebbe sembrare come le sue amiche che sono spregiudicate ed estroverse; lei invece è molto timida, confusa, impacciata, anoressica e spesso diventa lo zimbello e il divertimento delle sue compagne di scuola. I due si sentono speciali, ma “sentirsi speciali è la peggiore delle gabbie che uno possa costruirsi”.

L’intelligenza, così come una eccessiva sensibilità, a volte emarginano, generano distanze e diversità, creano una sorta di muro invalicabile tra la persona dotata e gli altri; il ragazzo con un quoziente intellettivo superiore fatica a riconoscersi nel gruppo dominante, incontra difficoltà nell’adeguarsi ad un comportamento univoco, nel mettersi in sintonia con coetanei superficiali e insignificanti. E allora viene emarginato ed escluso, viene a volte irriso e sbeffeggiato determinando in chi subisce tale angheria psicologica una sofferenza insanabile che sfocia inesorabilmente nella solitudine. “I più grandi emarginati del tempo presente” - dice lo psichiatra Vittorino Andreoli - “sono le persone veramente intelligenti”. L’intelligenza è un po’ come la bellezza, che affascina e seduce ma non facilita l’incontro, crea differenze profonde e genera spesso distanze incolmabili.

Il racconto si dispiega inizialmente attraverso episodi indipendenti e paralleli, flash  di immagini e di eventi, slegati gli uni dagli altri. L’autore alterna in maniera sapiente le storie di Mattia e di Alice, con una prosa piacevole ed accattivante, a volte ironica e riflessiva, fino a quando i due adolescenti si incontrano per la prima volta a casa di una loro amica, dove erano stati invitati per una festa e dove si riconoscono e si accettano intimamente diversi. E’ proprio questa loro diversità che li accomuna e li unisce, ma allo stesso tempo li allontana.

Trascorrono così gli anni del liceo come in apnea “lui rifiutando il mondo e lei sentendosi rifiutata dal mondo” costruendosi una strana amicizia “difettosa e asimmetrica, fatta di lunghe assenze e di molto silenzio, uno spazio vuoto e pulito in cui entrambi potevano tornare a respirare, quando le pareti della scuola si facevano troppo vicine per ignorare il senso di soffocamento”. Sempre timidi e imbarazzati, Alice si nasconde dietro la sua anoressia, quasi a voler diventare trasparente e invisibile agli altri, mentre Mattia, chiuso nei suoi silenzi e in quella sua incapacità di comunicare le sue emozioni ed i suoi sentimenti, sembra scappare via dalla vita e dal mondo.

 

sabato 3 ottobre 2015

Il senso del tragico secondo Ceronetti




Guido Ceronetti è senza dubbio uno dei più incisivi e graffianti osservatori della nostra società; e in un mondo in cui sembra prevalere soltanto il pensiero unico, le sue parole dissacranti e trasversali rappresentano un segnale vivo di libertà, autentico baluardo contro l’omologazione culturale. Per i benpensanti e per i malati di ottimismo, questo “giovane” pensatore di 88 anni – “io sto consumando gli avanzi di questa mia lunga, affaticata vita” così scrive - può apparire un nichilista e un disfattista, soprattutto per il modo tagliente con cui dipinge la realtà dei nostri tempi. Tuttavia i suoi scritti brevi ed i suoi aforismi hanno la straordinaria capacità di far riflettere anche coloro che si ostinano - come si suol dire - a coprirsi gli occhi con delle fette di prosciutto. Chi conosce  Ceronetti sa che è l’ideatore di un singolare teatro i cui spettacoli vengono allestiti per strada, dove giovani attori danno voce e movimento a delle marionette. Ma pur essendo un artista di strada – come lui stesso si definisce – non credo proprio che la sua scrittura erudita sia adeguata all’uomo della strada.
In questo suo ultimo saggio Tragico tascabile (pubblicato da Adelphi), lo scrittore raccoglie una serie di brevi e affilate riflessioni su alcuni temi di stringente attualità, che vanno dalla cronaca nera a quella politica, dai fatti internazionali come quelli riguardanti la Grecia alle notizie di più spicciola quotidianità, come fare la spesa in un centro commerciale, dalle problematiche ambientali a quelle religiose. Ci parla della crisi della cultura, quale tutela dell’identità nazionale: “ce la stanno smerdando bravamente, senza un grido di rivolta, a colpi di intrusioni massicce di locuzioni e nomenclatura angloamericane” e lancia il suo grido di allarme “contro l’enorme afflusso di popolazioni indicibilmente estranee a tutto quanto l’Italia rappresenta di non materiale”. Usa parole pungenti contro l’universo tecnologico: lo smartphone “è un baratro senza fondo in cui l’utente (l’essere, l’anima umana), una volta catturato, precipita senza fine”. Si scaglia con veemenza contro chi permette, con mezzi meccanici e farmacologici disumani, “la moltiplicazione insensata e tragica di vecchiaie”, perché allungare sempre di più la vita è come subire una lunga e terribile tortura. Ma confessa anche il suo personale fallimento per avere assistito al crescente peggioramento della nostra lingua, la scritta e la parlata, senza poter far nulla per impedire tale inesorabile declino.
 
 

domenica 27 settembre 2015

E' in arrivo l'apple watch: ridatemi il cipollone di mio nonno!



Si ha l’impressione, in questa folle corsa verso l’ultima invenzione tecnologica, che non ci sia mai fine; questo continuo rincorrere manufatti digitali  innovativi appare sempre di più un bisogno improcrastinabile e narcisistico da soddisfare, costi quel che costi. Di fronte all’ultimo gioiello tecnologico, non esiste crisi economica, non esiste disoccupazione:  si fa la fila per ore pur di accaparrarsi per primi l’oggetto agognato. Non si fa in tempo ad interiorizzare ed a capire il funzionamento di uno smart (smartwatch, smartcard, smartphone e chi più ne ha più ne metta), che immediatamente te ne inventano un altro, che pur facendo le stesse cose del precedente, viene lanciato sul mercato e venduto agli allocchi come il meglio dell’avanguardia e dell’innovazione.
E così sono venuto a sapere che è nata, di recente, una nuova e meravigliosa creatura, figlia come tutte le altre di Apple, l’azienda statunitense tra le più conosciute al mondo. Si chiama Apple Watch : parrebbe un orologio. Te lo metti al polso e per la modesta spesa di circa 400/500 euro (per i più esigenti il prezzo può arrivare fino a 16.400 euro), puoi continuare a fare quello che facevi con l’attuale smartphone: telefonare, inviare mail e messaggi, twittare, consultare il meteo, guardare la schedina, giocare a carte. E puoi guardare l’ora senza portare l’orologio. Insomma, se prima cazzeggiavi con quella tavoletta che ormai è diventata troppo ingombrante, ora lo puoi fare con un orologio da polso.

“Se lo metti, ti conquista” - dice la sua pubblicità – “e quello che indossi dice molto di te”. E allora l’Apple ha pensato bene di creare un’ampia varietà di modelli ognuno dei quali possa rispecchiare la personalità e il gusto di chi lo porta. Ma non solo. Puoi renderlo ancora più tuo cambiando, di volta in volta, il cinturino a seconda dell’umore e delle circostanze. Sei incazzato: scegli il rosso; vai a un funerale, lo indossi nero.
Ma la cosa più inquietante di questo “orologio” è che diventa una vera e propria parte del corpo, in attesa che un microchip prossimamente venga impiantato nel cervello (ormai in via di estinzione) dei richiedenti. Ebbene cosa fa di tanto inquietante questa invenzione? Ti comanda a bacchetta con i suoi sensori, ti controlla, ti consiglia, ti segue passo dopo passo e interviene nei casi di necessità. In pratica ti misura la pressione, ti dice di quante calorie hai bisogno, se a pranzo devi bere vino o birra o acqua minerale, vigila sulla velocità quando stai alla guida di una macchina. Ti ricorda che alla quattro del pomeriggio devi andare dal dottore e poi in palestra. Ti rammenta che, prima di andare a letto la sera, devi portare il cane a pisciare. Insomma tu non devi più pensare perché lui provvede a tutto. Sembrerebbe, vista la pubblicità e l’entusiasmo generale, che con l’apple watch al polso la vita diventerà finalmente emozionante ed entusiasmante.

Sapete che vi dico? In un cassetto conservo un vecchio orologio da taschino – non funzionante - chiamato in gergo cipollone: me lo regalò mio nonno prima di morire. E’ un roskopf dei primi anni del ‘900. Credo sia arrivato il suo momento. Ridatemi il cipollone!

martedì 15 settembre 2015

Prigionieri di troppi fantasmi: splendore e declino di una nobile famiglia del passato


Jean d’Ormesson è un famoso scrittore e giornalista francese di 90 anni (è nato a Parigi nel 1925). Figlio di un diplomatico, ex segretario generale dell’Unesco ed ex direttore de Le Figaro, Jean d’O, come viene soprannominato, fu eletto tra gli immortali della Académie francaise nel 1973 a soli 48 anni, il più giovane di sempre, record rimasto finora imbattuto. Ha vissuto la sua giovinezza nello splendido castello di Saint-Fargeau, nella Borgogna, che fa da sfondo al suo libro più noto “a Dio piacendo, la cui lettura mi ha fortemente coinvolto durante l’ estate appena trascorsa.


Mi sento di dire che è un romanzo di rara bellezza (di oltre 500 pagine), entrato prepotentemente tra i miei preferiti, tant’è che a fine lettura ero quasi tentato di ricominciare dall’inizio. Un libro di memorie e di confessioni, un saggio storico, un testamento spirituale, un diario intimo: l’opera è tutto questo, inserita in un periodo storico di circa 70 anni, a partire dagli inizi del ‘900. La voce narrante - probabilmente l’alter ego dello scrittore - è quella di uno degli ultimi discendenti di una delle più blasonate dinastie d’Europa, il quale sul filo dei ricordi ci parla dell’ascesa e del declino della sua famiglia, a cui lui appartiene e alla quale si sente profondamente legato.

La cosa che più mi ha colpito, leggendo questo libro, è il culto della famiglia che traspare in tutta la narrazione, le cui origini, al pari del suo patrimonio, provenivano dalla notte dei tempi: l’avventura era iniziata in Terrasanta, con il vecchio Eléazar “maresciallo della fede e dell’esercito di Dio”, e finiva circa 9 secoli più tardi, nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, con l’avvento della modernità. Una famiglia che si riconosceva nella superiorità un po’ orgogliosa dei greci e dei romani, in seguito imparentata con le teste coronate di mezza Europa, i cui membri avevano conosciuto e intrecciato rapporti con condottieri e ambasciatori, ministri e capi di stato, papi e cardinali, vescovi e santi. E altrettanti ne avevano forniti alla stessa chiesa. Una famiglia abituata e immersa nel “sacro”, un sentimento questo che dominava la vita di tutti i suoi componenti: in primis la fedeltà al re (almeno fino a quando ce n’era stato uno) ed al Santo Padre. Era inoltre sacro il matrimonio visto come unione tra passione e interesse, tra corpo e spirito; era sacra la famiglia, nata nel matrimonio e intesa come un gioco di squadra dove le imprese personali tornavano sempre e soltanto a vantaggio del gruppo, un gioco dove bisognava  vincere tutti insieme e ciascuno era l’anello di una lunga catena; e poi erano sacri i riti immutabili della vita di tutti i giorni quali la messa all’interno della cappella di famiglia, i pranzi e le discussioni intorno al grande tavolo di pietra ai piedi del castello, all’ombra dei vecchi tigli, le passeggiate nel parco, le soste lungo lo stagno, i balli nei saloni affrescati, le feste di compleanno. Ed erano sacre le idee, i libri, i morti per la fede e per la patria, e poi il pane e i poveri, quest’ultimi in un duplice senso: “bisognava che ci fossero e bisognava amarli”. Una famiglia che provava nei confronti di tutti una cortesia disarmante e trattava con identica deferenza e garbo sia un vescovo che un guardiano o un fattore delle loro terre. Una famiglia che non viaggiava mai, dal tempo delle crociate, perché “negli spostamenti c’era qualcosa di convulso e di impercettibilmente volgare”, che conduceva un’esistenza “squisitamente poetica” persuasa che il suo nome fosse al centro dell’universo, che disprezzava il denaro nonostante ne avesse tanto e che nessuno “avrebbe mai avuto la sfrontatezza di parlarne. Né naturalmente di guadagnarne”. Perché il denaro non proveniva né dall’industria, né dal commercio né dai giochi di borsa o da altre attività mercantili, ma derivava esclusivamente dalla terra e dalle case, dalle foreste e dalle pietre, per arrivare, poi, tra le mani dell’ amministratore, “di dove poi usciva sotto le specie dei cocchieri, dei domestici, dei cuochi, dei giardinieri”.

“Era così semplice essere ricchi” – afferma la voce narrante. E tutto ciò piaceva a Dio. Au plaisir de Dieu era il motto di famiglia. Esisteva una sorta di ordine naturale delle cose, di sistema voluto da Dio, non dagli uomini. E di questo sistema ne beneficiava “la famiglia”.

Un mondo, quello che ci viene descritto dal narratore, che teneva gli occhi fissi sul passato, per paura che di colpo si cancellasse, si dissolvesse; prigionieri dei propri fantasmi, i discendenti di questa antica dinastia vivevano in un universo chiuso, circondato da barriere insormontabili e inamovibili e protetti da alcune certezze: la monarchia (finché è durata) e la chiesa, la famiglia e il matrimonio, la terra e il castello di Plessis-lez-Vaudreuil. Quest’ultimo, con le sue 365 stanze, con il suo parco di alberi secolari e la sua enorme biblioteca, con i suoi mobili pregiati e i suoi quadri che celebravano gli antenati dei secoli passati, era il centro della loro vita, del loro potere, testimone della loro grandezza e del loro splendido passato. Con i suoi mattoni rosa e il suo tetto nero d’ardesia, era un’isola circondata dal tempo che inesorabilmente avanzava e corrodeva tutto al suo passaggio. E frantumava un poco alla volta tutta l’impalcatura su cui si reggeva.

 

E una tale famiglia, con le sue belle maniere, con la sua educazione, con la sua simpatia per gli artigiani, per i vasai, per gli impagliatori di sedie, con il suo disprezzo per il denaro e per il lavoro, con il suo amore per la terra e per il passato, in un mondo lanciato a tutta velocità verso un avvenire in cui gli alberi e i cavalli e la terra e la pazienza e la lentezza e il rispetto venivano espulsi in partenza, era condannata inesorabilmente a soccombere, a estinguersi. Per secoli si era opposta alla borghesia perché si sentiva più vicina ai soldati, agli artigiani e soprattutto ai contadini. Il rispetto della natura, il timore per qualsiasi cambiamento, la sottomissione alla Chiesa, la diffidenza per le macchine e l’ostilità per il denaro e le merci aveva reso i suoi membri diversi dai borghesi. Ma il tempo e gli eventi stavano logorando lentamente le basi di quel mondo. Dopo secoli di grandezza e di orgoglio familiare, i discendenti di coloro che disprezzavano i borghesi finivano per sprofondare nella vanità e diventare essi stessi borghesi. E tutto ciò che questa famiglia aveva realizzato “alla corte di Vienna e di Versailles, nei salotti di Londra e di Roma, negli accampamenti militari e sui campi di battaglia, nei conventi e nelle cattedrali, sulla maggior parte dei mari del mondo, si allontanava a grandi passi…”

Tantissimi sono i personaggi, uomini e donne, che vediamo sfilare lungo le pagine di questo libro. Tra tutti spicca la figura del nonno, solenne e intransigente patriarca che detestava la modernità e il progresso e credeva solo nel passato, il quale era stato non soltanto il capo, ma il centro di questa grande famiglia, morto alle soglie dei cent’anni.

Un libro semplice e complesso, nello stesso tempo, e nessuna recensione ma solo la sua lettura può rendere giustizia al fascino di un racconto velato di dolce e struggente malinconia, fonte di riflessioni su alcuni grandi temi come il tempo, la storia, la felicità, il denaro, la morte, la modernità. E la famiglia, naturalmente. Per finire, mi piace riportare di seguito qualche stralcio finale del libro:
 
“ Non eravamo dei santi. Non eravamo dei geni. Non sono nemmeno sicuro che, noi che avevamo quasi tutto, abbiamo vissuto bene quanto avremmo potuto e dovuto. Avremmo potuto essere liberi, più divertenti, più felici. Avremmo dovuto avere più generosità, più cuore e intelligenza, più fantasia, più talento. Eravamo, spero di averlo fatto capire, prigionieri di troppi fantasmi. Altri, in questo secolo e nel secolo precedente, avranno mostrato il futuro. Noi mostravamo soltanto il passato. Altri avranno brillato per il mondo. Noi brillavamo soltanto per noi stessi. (…) Quel che mi sono proposto di fare è, per la verità, abbastanza semplice: ho cercato di dipingere la lotta di ciò che si ostina a restare stabile contro le fluttuazioni della moda, del progresso e del tempo, e il trionfo del tempo sulla nostra eternità. (…) Credete che non sappia che ho vissuto nei privilegi e che il mondo che evoco non stava dalla parte dell’ombra, ma del sole? Credete che non sappia che molti altri sono fuggiti dal passato come da un incubo detestato? (…) Nel passato non vedo un modello per l’avvenire. La moglie di Lot fu trasformata in statua di sale proprio perché guardava indietro. Ma nel passato non vedo nemmeno quella abominazione delle abominazioni che bisogna distruggere e dimenticare per costruire in sua vece le cittadelle della felicità. Abbiamo visto di peggio di Sodoma e Gomorra. Immagino che molti cercheranno anche, ma invano, di evadere dall’avvenire. Vedremo, quando anche questo futuro sarà diventato passato, se avrà un aspetto più bello dei nostri giorni scomparsi. (…) Per molto tempo la nostra follia è consistita nel non vedere che il passato non aveva altro senso che quello di servire il futuro (…) I figli naturalmente, sono la morte dei genitori. Ma discendono da essi. Li uccidono, ma li continuano. A mio nipote auguro molte cose, ma forse soprattutto questa: di saper conciliare dentro di sé passato e futuro. Passato e futuro non hanno mai mostrato tanta ostilità reciproca come oggi. Io ho evocato un passato che si dissolve giorno per giorno. Il futuro non ha bisogno di me: saprà fare da solo, con l’aiuto di altri. Ma il domani, proprio perché c’è una storia, è legato all’ieri. Passato e futuro non s’ignorino! Si ricordino che anche il futuro un giorno diventerà passato. Non lascino che il tempo distrugga l’eternità. (…)

martedì 8 settembre 2015

Quei ragazzi del muretto



Non so se vi ricordate del  “muretto”, di quel muto e romantico testimone di intere generazioni di adolescenti, luogo di incontro, di conversazioni e di relazioni sociali. Ce n’era sempre qualcuno che si ergeva adiacente al bar o alla piazza del paese, intorno al quale - in mancanza di punti di riferimento più adeguati - i ragazzi avevano l’abitudine di riunirsi per socializzare, per discutere dei loro problemi, per ridere, scherzare, divertirsi.
Nell’immaginario collettivo quel muretto era una sorta di luogo dell’anima dove ci si dava appuntamento, dopo la scuola, per sentirsi uniti, per polemizzare, amoreggiare, festeggiare, confrontarsi e per organizzare, magari, una serata diversa quando quel luogo non bastava più. Ebbene, quel “monumento” di pietra o di cemento che celebrava gli appuntamenti giovanili è ancora in attesa da qualche parte. Esiste tuttora, in una grande città come in un piccolo paese, soprattutto laddove non sono presenti strutture di incontro differenti rispetto ad uno spoglio muro di contenimento. E’ ancora frequentato da gruppi di ragazzi in cerca di compagnia  e di amicizia, costituisce un punto di riferimento, da dove partire per le quotidiane scorribande in motorino.

Ho l’impressione, però, che oggi quello spazio di aggregazione venga vissuto in maniera diversa rispetto al passato: uno spazio che divide anziché unire i suoi frequentatori. L’ho potuto constatare l’altro giorno mentre osservavo alcuni adolescenti (erano in sei/sette) tutti seduti su un muretto di un quartiere periferico di Roma, luogo abituale di incontro e di svago. La cosa che più mi ha colpito è stata la loro assenza dal contesto in cui si trovavano. La totale estraneità al gruppo ed agli amici che avevano intorno era fin troppo evidente. Tutti brandivano un telefonino ultimo modello (il termine è ormai riduttivo…), forse l’amico più affidabile e sicuro: alcuni facevano scorrere velocemente con un dito su e giù il display, alla ricerca di qualcosa che destasse la loro attenzione; altri parlavano con qualche amico lontano; una ragazza, da come smanettava furiosamente sui tasti, sembrava stesse scrivendo un messaggio importante. Apparivano annoiati, distanti gli uni dagli altri e nessuno, in quel momento, sentiva il bisogno, l’urgenza, di parlare o di stare con il proprio vicino, di confidarsi con lui, di partecipare alla compagnia.
Presenti, ma simultaneamente assenti gli uni agli altri. Per appartenere al mondo e sentirsi vivi quei ragazzi (i nostri figli…i nostri nipoti) mostravano un solo imprescindibile interesse: collegarsi con un “altrove” per comunicare al “mondo” il proprio disagio o la propria gioia o anche per ascoltare una voce lontana, anziché quella dell’amico/a seduto sullo stesso muretto; avvertivano l’esigenza di allontanarsi dal presente e dal reale per rincorrere un tempo e un mondo virtuale e improbabile. E, dimenticando il compagno di giochi e di conversazione che avevano accanto, si consegnavano ad uno strumento-feticcio dalle funzioni illimitate, da cui finivano per essere fagocitati e posseduti.

mercoledì 2 settembre 2015

Malati di denaro


Oltre ad essere un autorevole psichiatra, la cui competenza è riconosciuta a livello internazionale, Vittorino Andreoli è anche un grande scrittore e saggista. Si definisce un “pessimista attivo” che si sforza di illuminare i lettori attraverso la forza delle parole e non ha difficoltà nel dire che non ama molto questa nostra società, fondata sui soldi e sulle cose inutili, sulla falsità e sull’ipocrisia, sulla violenza e sulla volgarità: una società senza cultura che lui considera una delle peggiori in cui ha vissuto.

"Io amo l’uomo rotto” afferma in un suo libro “Il denaro in testa” dove affronta un tema che riveste una straordinaria importanza, che è quello dei soldi, “a quest’uomo mi sono sempre  dedicato e ora so che esiste anche il malato di denaro, l’uomo di denari”.
 
Egli ritiene che in questa società il denaro non sempre viene usato per acquistare  delle cose utili e necessarie alla vita di tutti i giorni, ma spesso viene utilizzato  per esibire il proprio potere, la propria forza, come espressione esibizionistica delle proprie possibilità, come misura di tutte le cose. E’ diventato strumento di corruzione e di prostituzione: per il denaro si vendono le proprie idee, la propria dignità, la propria morale.

L’autore afferma che il denaro, nei suoi confronti, ha sempre esercitato un duplice sentimento di paura; da una parte la paura di non averne abbastanza - con tutte le conseguenze che tale rischio comporterebbe - e dall’altra la paura dell’eccesso, della ricchezza. Vive pertanto il denaro come un vero pericolo, mettendo sempre un freno alle sue possibilità di guadagno.

Per Andreoli, la ricchezza è una vera e propria malattia sociale in quanto suggerisce una visione distorta del mondo e della società. Ci si sente intoccabili grazie al denaro, favoriti dalla ricchezza e dai suoi simboli esteriori, capaci di ottenere qualsiasi cosa. “La ricchezza copre tutto: la volgarità, la stupidità, l’ignoranza” fa notare l’autore del libro “è frutto non di doti speciali, ma di abilità che a volte accomunano il ricco e il criminale”. Quindi il denaro come mezzo per corrompere, per comprare favori, per acquisire potere, per evitare il carcere attraverso leggi ad personam. La cronaca di questi ultimi anni è ricca di casi simili.

Pesanti accuse sono rivolte anche agli intellettuali del nostro paese, che contribuiscono con i loro comportamenti allo scempio della cultura, anch’essi attratti dal denaro “che si arricchiscono servendo un potente che giustificano per tutto ciò che fa senza pudore, mercanteggiando ogni morale...senza preoccuparsi delle idee dalle quali dovrebbero dipendere”.

L’autore fa notare come oggi la combinazione ricco-ignorante sia sempre più diffusa, mentre nel passato tale binomio era raro se non impossibile: risulta, pertanto, sempre più evidente poter diventare ricchi senza cultura, senza avere mai letto un libro, evadendo il fisco, imbrogliando il prossimo, non rispettando le leggi e le regole per una civile convivenza.

Il denaro, quindi, condiziona in negativo i comportamenti dell’uomo e della sua esistenza e per evitare la catastrofe e migliorare questa nostra società, Andreoli ritiene che bisogna partire dall’uomo e dai suoi veri bisogni, perché una economia disinteressata all’uomo porta a conflitti che, fra l’altro, hanno costi spaventosi.

 

mercoledì 19 agosto 2015

La miglior vita



Oggi si parla tanto di immigrazione e di profughi, ebbene se fosse ancora in vita lo scrittore triestino Fulvio Tomizza – “profugo mille volte”, come è stato definito - io credo che nessuno meglio di lui potrebbe parlarci di questo drammatico fenomeno che interessa con le sue tantissime storie la realtà dei nostri tempi. Si, perché lo scrittore era nato a Materada in Istria, una terra dalle molteplici etnie, costituita da italiani, slavi e croati, una terra assoggettata nel corso dei secoli prima alla Repubblica Veneta, poi all’Impero Austro-ungarico, quindi all’Italia ed alla Jugoslavia. Apprendiamo da Wikipedia che Tomizza aveva sangue slavo nelle vene -  nonostante avesse ricevuto un’educazione italiana - e quando fu annessa alla Jugoslavia la cosiddetta Zona B del territorio Libero di Trieste (TLT), che comprendeva anche Materada, sebbene fosse legato alle sue radici in maniera quasi viscerale, lasciò a malincuore il suo paese di origine per trasferirsi a Trieste, dove visse per tutta la vita. E’ considerato uno scrittore di frontiera e l’intera sua opera narrativa è incentrata su una tematica ricorrente e dolorosa: la perdita d’identità dei profughi istriani.
Con il romanzo “La miglior vita” – che ho finito di leggere in questi giorni – Tomizza si aggiudicò il Premio Strega nel 1977. Il libro racconta la storia di un intero popolo che si ritrova a dover scegliere – non per valutazione individuale ma a causa di una suddivisione forzata, in conseguenza delle due guerre mondiali - se stare dalla parte dell’Italia o della ex Jugoslavia; e tale vicenda ci viene raccontata attraverso le vicissitudini umane del figlio di un sagrestano, Martin Crusich, sagrestano egli stesso, il quale in una piccola parrocchia dell’Istria, si prepara ad entrare nel suo incarico trasmessogli dal padre, che in punto di morte gli aveva comunicato di non abbandonare mai i preti, perché “loro sanno tutto e possono tutto”. In virtù di questo drastico ammonimento paterno, il protagonista accompagnerà, via via, il succedersi dei parroci in una singolare quanto involontaria relazione con il succedersi degli avvenimenti storico-politici interessanti la penisola istriana, ed in particolare la piccola comunità in cui vive insieme alla sua famiglia. Il romanzo si divide in sette capitoli, quanti sono i preti che si succedono nei registri parrocchiali.

Dall’avaro e insofferente Don Kuzma all’intransigente e sessuofobo Don Michele Ribari, per il quale il demonio veniva identificato con la donna; dal generoso Don Stipe, che faceva molto di più del proprio dovere sacerdotale e che non sopportava alcuna forma di volgarità, a Don Ferdinando, un veneto pronto all’aiuto in base ad un antico principio che “una mano lava l’altra”. Don Angelo è l’espressione del fascismo, un prete malvisto da tutti i parrocchiani, il cui atteggiamento negativo nei confronti delle cose e delle persone fa perdere irrimediabilmente al nostro sagrestano ciò che un prete avrebbe dovuto dargli per accrescerlo spiritualmente. Don Nino è il primo prete del posto, che aveva scelto il seminario  per tornare fra la sua gente, testimone del trattato di pace che assegnava gran parte dell’Istria alla Jugoslavia, ma incorporava il paese in un costituendo Territorio Libero con a capo Trieste. Ed infine Don Miro, benvoluto da tutti, che sancisce il confluire del paese nella Repubblica Jugoslava.
E’ un romanzo complesso, non sempre di facile lettura la cui scrittura - che si avvale anche di alcuni contributi dialettali e non indulge mai in facili orpelli - ci offre pagine di antica bellezza letteraria, seppure velate di una leggera malinconia. E’ la tristezza di una popolazione arcaica e contadina, sempre alla ricerca di una propria identità sociale e culturale; sono gli umili e gli emarginati, poveri contadini, personaggi reali o immaginari, figli di una terra accogliente e ostile, nello stesso tempo, quelli che escono dalla penna di questo narratore, il quale attraverso le vicende di una piccola comunità parrocchiale, ci racconta di guerre, di esodi forzati, di socialismo e di fascismo. Tomizza ci parla della sua gente che, attraverso i parroci che si succedevano nel corso degli anni, confidava in un Dio che scendesse tra di loro, “che non se ne stesse in chiesa ad attendere che lo si venisse a supplicare”, che fosse maggiormente a contatto, quasi fisicamente, con i luoghi dove urgeva la sua presenza. Ci parla dei delusi e dei rifiutati della sua amata terra, per i quali la morte rappresentava quasi il passaggio alla miglior vita, che paradossalmente diventava ciò che questa vita non aveva voluto loro concedere.

martedì 28 luglio 2015

Quelle braci che covano sotto la cenere



“Le braci” di Sàndor Màrai è uno dei libri più belli che io abbia letto in questi ultimi tempi: per la limpidezza e l’eleganza dello stile narrativo, per la profondità dei temi trattati, per la rara intensità con cui lo scrittore ungherese sa appassionare il lettore e sa scrutare, con una prosa a volte lirica, i sentimenti più reconditi che albergano nell’animo umano.

E’ un romanzo sull’amicizia e sulle passioni esistenziali degli uomini, sui dolori e sulle sconfitte, sulla fedeltà e sul tradimento, le cui suggestioni lasciano tracce profonde e indelebili nell’animo umano, tracce che non svaniscono mai, che vengono tenute sempre vive dalla forza della memoria e dai ricordi che scandiscono il tempo, così come le braci ardenti si alimentano sotto la cenere. E’ anche un libro che evoca le eleganti atmosfere  della Vienna di fine Ottocento sotto l’Impero Austro-Ungarico – nel cui contesto è ambientato il romanzo – quella Vienna ricca ed elegante, con i suoi caffè dove ufficiali dell'esercito e funzionari statali sedevano ai tavolini riservati, quella Vienna dove si aveva l’impressione che tutti fossero felici, dove nei ristoranti alla moda, nelle sale da ballo e nei salotti dei ricchi palazzi signorili, dame e cavalieri festeggiavano ballando al ritmo dei valzer di Strauss.

Ma, soprattutto, è il libro che celebra l’attesa, di cui si sono nutriti per un tempo lunghissimo i due personaggi del romanzo ormai vecchi i quali - ritrovandosi dopo 41 anni (si erano lasciati in maniera burrascosa in età giovanile, per l’amore di una donna) – tentano di ricucire lo strappo, di avere risposte ai loro dubbi, alle loro domande, provano a cercare quella verità che li riguardava, rimasta nascosta volutamente per tanti anni nei recessi della loro anima. Ed è stata propria l’attesa a dare loro la forza di vivere nei decenni trascorsi, a mantenerli in vita, convinti com’erano che quanto prima sarebbe giunto quel momento tanto desiderato.

La storia si dispiega attraverso un lungo monologo interiore, con cui Henrik – l’anziano generale che vive isolato nel suo castello ai piedi dei Carpazi, assistito da una donna molto più anziana di lui - ripercorre le tappe di un lungo ed intenso rapporto d’amicizia con l’altro protagonista del romanzo, Konrad. La loro amicizia, nata in un collegio militare all’età di 10 anni, si era dimostrata immediatamente molto profonda, tant’è che “condividevano ogni cosa, leggevano contemporaneamente gli stessi libri, scoprivano insieme Vienna e le foreste, l’equitazione e le virtù militari, i rapporti sociali e l’amore...”. Un’amicizia bella e disinteressata, che si consolida con il tempo, nonostante i due giovani provenissero da due famiglie completamente diverse dal punto di vista economico e fossero caratterialmente differenti nei confronti della vita: Henrik, il figlio del ricco e potente ufficiale della guardia imperiale, amava fare tardi la sera, non disdegnava i piaceri mondani; Konrad, invece, che dimostrava un’indole piuttosto solitaria, preferiva trascorrere il tempo seduto in casa “ a spremersi il cervello sul significato degli esseri umani”; Henrik leggeva solo libri sui cavalli e racconti di viaggio, l’amico Konrad invece leggeva di preferenza libri inglesi sulla storia della convivenza degli uomini e l’evoluzione sociale; il primo ascoltava solo musica che stordiva, quella musica che faceva apparire la vita più gradevole “e faceva brillare gli occhi delle donne e lusingava la vanità degli uomini”, l’altro invece preferiva la musica “che toccava le passioni e i rimorsi degli uomini . Due grandi amici, diversi eppure uniti, che si completavano a vicenda, legati da una sorta di alleanza, d’intesa, di fraterna intimità, “pari soltanto a quella in cui vivono i gemelli, strani esseri che per un capriccio della natura sono legati l’uno all’altro per la vita e per la morte” .

E come due gemelli, finiscono per innamorarsi della stessa persona. Ma se è lecito avere in comune alcune passioni, non è immaginabile che si possa condividere anche l’amore per la stessa donna, diventata nel frattempo la moglie del proprio migliore amico. Un’amicizia interrotta  per quarant’anni. “Ma se ci guardiamo indietro alla fine della vita”, dice malinconicamente il vecchio generale al suo amico momentaneamente ritrovato “che importanza hanno la verità e la menzogna, gli inganni e i tradimenti, i tentativi di omicidio e anche l’omicidio in sé? (…) cosa abbiamo guadagnato con il nostro orgoglio e la nostra presunzione? (…) non credi anche tu che il significato della vita sia semplicemente la passione che un giorno invade il nostro cuore, la nostra anima e il nostro corpo e che, qualunque cosa accada, continua a bruciare in eterno, fino alla morte?”.

martedì 14 luglio 2015

C'era una volta il viaggiatore...



Le vacanze sono ormai alle porte e, crisi o non crisi, nessuno vuole rinunciarvi. Siamo ai nastri di partenza con le valige già pronte, per invadere come cavallette città d’arte e siti archeologici, spiagge e montagne. Diceva un grande filosofo del passato che quando scopriamo un bel posto, dobbiamo evitare di farlo conoscere agli altri, perché frequentando in massa lo stesso luogo si finisce per distruggerlo in poco tempo. E ho l’impressione che stia succedendo proprio questo.

Nel passato solo una piccola minoranza di persone viaggiava, appartenente per lo più a categorie sociali bel definite: in primis ricordiamo i mercanti (carovanieri e navigatori) che affrontavano deserti e oceani per trasportare le loro mercanzie, ma nel contempo avevano anche la possibilità di conoscere e diffondere usi e costumi di paesi a loro estranei; poi venivano i pellegrini che si incamminavano verso Roma per ottenere l’indulgenza, ma anche verso Santiago de Compostela o Gerusalemme, attraverso percorsi che hanno disegnato le mappe geografiche dell’Europa medioevale;  ed infine gli artisti (scrittori, pittori, musicisti…) che a ragion veduta erano i veri viaggiatori – figure romantiche ormai scomparse - che cercavano ispirazioni artistiche e culturali nei paesi in cui si recavano. Un viaggio in Italia (Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Pompei, tanto per citare le località più ambite), costituiva una tappa fondamentale nell’educazione dei giovani delle famiglie benestanti che si apprestavano a fare il loro ingresso nella società ricca e borghese del tempo. Il loro viaggio durava mesi, a volte anni, grazie soprattutto alle disponibilità finanziarie degli interessati, ma anche alla lentezza dei mezzi di trasporto: non dimentichiamo che ci si spostava in carrozza o a piedi.

Ai giorni nostri il desiderio di viaggiare - costi quel che costi - appartiene un po’ a tutti, come è giusto che sia, costituisce un segno di distinzione sociale, ed allora ci si sposta in massa: un turismo selvaggio e indifferenziato verso luoghi sempre più standardizzati e sovraffollati. E il “viaggiatore”, che nel passato percorreva la sua strada quasi sempre in solitudine, in un’epoca caotica e massificata come la nostra si è trasformato in “turista” che aspira a riunirsi in gruppo, ad essere guidato e portato in giro, a condividere senza sforzo le medesime esperienze ed emozioni. Esperienze ed emozioni che, vissute da pochi, risultavano uniche ed irripetibili (mi viene in mente il “viaggio in Italia” di Goethe o quello di John Ruskin descritto in “mattinate fiorentine”), cessano automaticamente di essere tali quando vengono provate da tutti alla stessa maniera. Quel rilassato e riflessivo viaggiare riservato un tempo alle classi più colte si è sbriciolato al ritmo forsennato del turismo di massa, sommerso da una miriade di consigli sul dove andare e dalla quantità delle cose da visitare, a scapito della qualità e della lentezza.

Riguardo, poi, ai luoghi turistici, ho l’impressione che oggi si somiglino tutti, da nord a sud, specialmente quelli di mare: le stesse strutture alberghiere, gli stessi villaggi, la stessa confusione di macchine e di persone, addirittura la medesima cucina, che un tempo rappresentava il segno distintivo del posto. Se si escludono determinate caratteristiche climatiche che a volte fanno la differenza - e stiamo facendo di tutto per sconvolgere anche quelle – le località di villeggiatura sono diventate sostanzialmente indistinguibili grazie all’ incessante livellamento dettato dal mercato globale e dal turismo di massa, che tendono a cancellarne le diversità in favore di un pensiero unico che vuole ogni luogo identico all’altro. E allora mi chiedo se abbia ancora un senso andare al mare all’isola d’Ischia, piuttosto che a Rimini, trascorrere le vacanze nel Cilento piuttosto che nel Salento.

Io credo che sia definitivamente saltato quell’equilibrio che esisteva tra la natura incontaminata e la presenza virtuosa dell’uomo; un bilanciamento che si reggeva essenzialmente sul rispetto e sulla salvaguardia del territorio che non veniva invaso da orde di turisti, la cui presenza è diventata, nel corso degli anni, sempre più schiacciante e invasiva, simile ad un esercito di occupazione che ha finito per deturpare, sporcare e offendere qualsiasi posto. Anche il più bello. Con questo non voglio dire che solo le persone ricche e colte debbano viaggiare, anche se sono sempre di più coloro che, per ragioni economiche, non possono lasciare la città o il paese in cui abitano e quindi il turismo non è un’opportunità concessa a tutti. Tuttavia, chiunque voglia osservare il fenomeno odierno con un po’ di spirito critico – senza essere tacciati di snobismo - non può non considerare la bassa qualità di questo “diritto alle vacanze” esteso a tutti e venduto in maniera ingannevole come esclusivo, ma sostanzialmente svilito nella sua essenza. Mi chiedo se oggi sia ancora possibile una maniera diversa di fare le ferie, rispetto al pacchetto tutto incluso a tappe forzate (Roma in 48 ore…Parigi in un solo giorno) offerto sottocosto da fameliche agenzie di viaggi alla massa dei vacanzieri nostrani, che si illudono di visitare quelle località alla moda, altrimenti non sei nessuno. E allora succede che il nostro turista, che non ha mai messo piede in un museo italiano, al ritorno da Parigi potrà raccontare agli amici del bar che è stato al Louvre dove ha potuto ammirare – dopo due ore di fila - la famosa “Gioconda” di Leonardo; e che – udite, udite - “s’è fatta” tutta Roma in soli 2 giorni visitando “tutto quello che c’era da visitare”, scattando migliaia di fotografie che, probabilmente, nessuno mai vedrà. E già, le foto!; meriterebbero una riflessione a parte perché con l’avvento dei telefonini il turista appare sempre di più affetto da bulimia fotografica acuta, che lo costringe a riprendere qualsiasi cosa (che si muova o stia ferma), senza guardare niente (tanto guarderà dopo, a casa). Le foto ricordo, che in qualche maniera sostituiscono la memoria e soprattutto lo sguardo, testimoniano non tanto la curiosità e l’interesse culturale del visitatore, quanto la sua rituale presenza in quel determinato luogo. Presenza attestata, appunto, da una foto ricordo. Per lui non è importante soffermarsi più di tanto davanti alla bellezza e alla maestosità del tempio di Nettuno a Paestum, ma conta, invece, potersi mostrare ai piedi delle sue colonne doriche attraverso una foto. O meglio, un selfie che va tanto di moda.

Il vero viaggio, quello che cambiava interiormente l’antico viaggiatore procurandogli intense emozioni per le sorprese, i rischi e le avventure che incontrava lungo il percorso, non appartiene più al turista contemporaneo. Quest’ultimo resta attaccato alle proprie abitudini e anche lontano da casa non è capace di rinunciare al comfort, alla cucina ed ai riti cui è legato; vuole ritrovare tutto ciò che ha momentaneamente lasciato e, pertanto, farà le proprie rimostranze se nella camera dell’albergo in cui alloggia non è presente un televisore di almeno 28 pollici; vuole trovare un contesto simile a quello in cui vive abitualmente nella sua città e sentirsi a casa pur avendo scelto di fare un safari in Tanzania. E allora, come non ricordare le parole di Socrate il quale, ad un tale che si lamentava di non aver avuto alcun giovamento dai suoi viaggi, disse: “è naturale che sia così; tu viaggiavi in compagnia di te stesso”. Come i nostri turisti che non si allontanano mai dal proprio mondo, anche quando si trovano a migliaia di chilometri di distanza.

mercoledì 8 luglio 2015

La città storica è una macchina per pensare



Scriveva Albert Caraco, il cui pensiero ho cercato di sintetizzare nel mio post precedente attraverso l’analisi del suo libro più importante “Breviario del caos”, che le città sono diventate sempre più disordinate e invivibili e “tutto ciò che si edifica è di una bruttezza mostruosa e noi non sappiamo più costruire templi, palazzi o tombe, piazze trionfanti o anfiteatri “. E come dargli torto! Ma per fortuna esiste un’altra idea di città, che ci è stata tramandata dai nostri antenati e che noi faticosamente cerchiamo di conservare, il cui corpo vive in un rapporto di proporzioni e di misura con il corpo del cittadino: è la città storica. In proposito, mi piace qui riportare le parole di un grande archeologo e storico dell’arte italiano, Salvatore Settis, tratte da un suo recente libro molto interessante che si intitola “Se Venezia muore”:
“…Nella città storica italiana l’incombere di un campanile, di una cattedrale, di un palazzo del Comune o del Signore, l’addensarsi di un convento o di una università, le facciate delle case più ricche, s’intrecciano con le botteghe artigiane, i quartieri poveri, i vicoli dei mercati e le strade verso i cimiteri e la campagna, le porte e le mura, le piazze e le strade: accolgono i cittadini, non li inghiottono. Talora li sovrastano, ma non li umiliano mai: proclamano gerarchie sociali, ma anche spazi di uguaglianza (la piazza, il mercato delle erbe); suggeriscono stabilità, ma contemplano mobilità. Il corpo del cittadino e il corpo della città non sono l’un l’altro nemici, si integrano e si compenetrano. Perciò la città è “opera d’arte” e non solo prodotto materiale. Risulta dalla produzione di mura, chiese, case, ma anche di cultura e rapporti sociali. Respira e cresce con i cittadini che la creano e la cambiano nel tempo, si alimenta con le sue ritualità, immemoriali non perché sempre uguali a se stesse ma perché soggette a continuo cambiamento. (…)
La città storica è un orizzonte entro il quale lo scambio di esperienze, di culture e di emozioni avviene grazie al luogo e non grazie al prezzo. (…) Creazione collettiva di tutte le classi sociali, la città è per sua natura fondata sul lavoro: sul lavoro delle generazioni passate, sulla capacità di creare lavoro per le generazioni future. Microcosmo e fucina del pensiero, la città vive della propria diversità; le sue disomogeneità interne ne accrescono lo spessore antropologico, agganciano l’attenzione e stimolano l’esperienza di cittadini e forestieri. Anche gli edifici divenuti “inutili” nel tempo (come il Colosseo) non lo sono affatto; suggeriscono profondi mutamenti storici, impongono di pensare il diverso, allenano alla curiosità per altre diversità culturali (per altre civiltà). Al contrario della monocultura della piatta città “globale” che sta invadendo il pianeta, la città storica è una macchina per pensare. Per pensare l’altro da sé, e dunque se stessi…”

martedì 30 giugno 2015

Breviario del caos



Albert Caraco è un delirante pensatore francese, un tagliente provocatore, uno spietato osservatore della fragilità dell’esistenza. Riesce a scrivere con lucida follia, come in trance,  tutto ciò che probabilmente altri intellettuali, pur approvando, non sarebbero in grado di fare: per paura, per non essere additati come oscuri nichilisti, per non essere considerati catastrofisti. Si definisce anarchico e nichilista “...e il futuro dirà che saranno gli unici chiaroveggenti”.

Con questo suo breve scritto filosofico che si intitola “Breviario del caos” - raggruppato in una serie di aforismi dal ritmo martellante - celebra una sorta di canto funebre su ciò che sta morendo: la civiltà occidentale così come si presenta oggi ai nostri occhi, con tutte le sue contraddizioni, le sue ingiustizie, le sue aberrazioni, i suoi falsi idoli. Si definisce un solitario e misconosciuto profeta della sua generazione (è morto suicida negli anni settanta) “murato vivo nel silenzio anziché essere arso sul rogo”. Attraverso la sua prosa trasparente, Caraco appare un degno rappresentante di quel pessimismo estremo e distruttivo imperniato sulla tragicità della vita, quella vita vissuta dall’uomo moderno in un mondo sempre più caotico e delirante “...in un mondo che diventerà sempre più duro, più freddo, più cupo e più ingiusto”, in città sempre più disordinate e invivibili diventate “il ricettacolo del frastuono e del tanfo...caos di edifici dove ci ammassiamo a milioni, smarrendo le nostre ragioni di vita...”, il nostro incubo quotidiano, assurde e violente, degne rappresentanti della negazione del bello, così come veniva inteso nel passato “tutto ciò che si edifica è di una bruttezza mostruosa e noi non sappiamo più costruire templi, palazzi o tombe, piazze trionfanti o anfiteatri. A ogni passo la vista è offesa, l’orecchio assordato e l’olfatto messo a dura prova”. E per cambiarle, queste città, il filosofo francese dice che non abbiamo altra scelta che distruggerle, insieme agli uomini che le abitano “...e verrà il giorno in cui plaudiremo a quest’olocausto”.

Per Caraco la morte è sempre presente nella vita degli uomini, è il principio che sovraintende le nostre azioni e le nostre idee “è per la morte che noi viviamo, è per la morte che amiamo ed è per lei che procreiamo e sgobbiamo”.

L’autore di questo libro si scaglia violentemente contro quella massa tracotante e meschina di uomini che lui chiama “sonnambuli”; costoro si credono liberi ma sono invece legati, più di quanto non desiderino e più di quanto non avvertano, manovrati e tiranneggiati quotidianamente dal potere dominante - i nostri padroni - “che sono sempre stati nostri nemici”, a cui non conviene mai che questa massa di uomini esca dal sonno letargico in cui è immersa, altrimenti diventerebbe ingovernabile ed incontrollabile “...e per impedirci di riflettere ci propinano spettacoli insulsi, che ottundono la nostra sensibilità e finiranno per guastarci il cervello...stiamo tornando al circo di Bisanzio e così ci dimentichiamo dei nostri problemi, senza però che questi problemi si dimentichino di noi, domani li ritroveremo, e sappiamo già che quando saranno insolubili andremo alla guerra”.

Pronuncia parole di fuoco contro il sovraffollamento della terra, contro quella “massa di perdizione” che sta distruggendo il pianeta, dando la colpa e la responsabilità alle religioni, a cui occorrono sempre più “fedeli” e agli industriali ai quali servono sempre più “consumatori”. E questa massa di consumatori sta diventando sempre più stupida “tra i nostri mezzi sempre più intelligenti”. E, affinché sia possibile una restaurazione dell’uomo, un nuovo umanesimo e quindi un nuovo mondo, è necessario che la folla, “tomba dell’umano” si estingua, e che il mondo sia abitato da poche eletti, che daranno vita ad un nuovo ordine planetario, perché “la salvezza non ha più senso quando si è in molti miliardi a pretenderla”.

lunedì 22 giugno 2015

Il senso della notte



Quando entro in una qualsiasi libreria mi lascio piacevolmente irretire, prima ancora che dalla bella copertina di un libro, dal suo titolo. Se non conosco l’autore, devo assolutamente aggrapparmi a qualcosa di concreto per poter prendere tra le mani proprio quel testo e sfogliarlo. E il titolo è la cosa che più mi colpisce. Così è stato per questo piccolo libro edito da Sellerio che si intitola “Il senso della notte”. Un titolo che racchiude un mondo, quello appunto legato alle tenebre, che evoca immagini e sensazioni; una espressione che sembra custodire il mistero stesso dell’esistenza e alludere alla paura della morte. Ma non è detto che un bel titolo – che è pur sempre una valutazione soggettiva - significhi necessariamente un bel libro.

Il senso della notte è la prima opera narrativa di Giovanni Ferrara, lo zio del più famoso giornalista Giuliano: quest’ultimo già comunista, già conduttore televisivo, già direttore del Foglio. Quando fu pubblicato, nel 1995, l’autore aveva 67 anni ed era un professore di Storia antica all’Università di Firenze. Si spense a Pavia nel 2007. Non credo che questo suo breve romanzo sia da annoverare tra i capolavori della nostra letteratura, tant’è che difficilmente lo riprenderò per rileggerlo, come spesso mi capita di fare con i grandi libri.

Il protagonista del romanzo – che a mio avviso potrebbe essere lo stesso scrittore, attraverso la voce narrante di una terza persona – ripercorre la sua vita e lo fa solo attraverso il racconto di tre fondamentali eventi, che costituiscono altrettanti capitoli del libro.
In primis, gli anni della sua giovinezza, durante i quali si alzava prestissimo la mattina e si coricava tardissimo la sera, per studiare perché “aveva capito che per diventare un dotto bisogna vivere come pazzi ed è praticamente indispensabile cominciare a suicidarsi a diciassette o diciotto anni se non addirittura prima, ciò che del resto è verissimo ma le persone così dette colte non lo sanno”. Questa abitudine lui la definiva solitudine studiosa e gli pareva infatti, a quel tempo, il massimo concepibile di felicità che gli fosse concesso di raggiungere.
Nel secondo capitolo ricorda la lunga e irripetibile notte, situata nella storia, legata al passaggio sotto la finestra di casa sua dei soldati tedeschi in ritirata dopo la battaglia di Roma nel giugno del 1944. Una notte carica di un’attesa gioiosa “per la sicurezza che l’odiato tedesco se ne andava e arrivavano gli amati Alleati”.
Ed infine l’autore ripercorre con la memoria una passeggiata in montagna, nell’agosto del 1975, sui luoghi della Grande Guerra il cui ricordo “entrò a far parte delle occasioni che si definiscono indimenticabili”, tale da produrre nell’animo del protagonista una profonda commozione nel visitare quelle rocce che conservavano la traccia inconfondibile di una lunga guerra, patita nella feroce immobilità delle trincee e dei rifugi.

Aleggia su tutto il libro la banale realtà dello scorrere irreversibile del tempo, con le sue giornate luminose ma soprattutto con le notti, che per il protagonista sono sempre legate ad un senso di imprevedibilità e minaccia. Devo dire, inoltre, che con la sua scrittura contorta e monotona, più simile ad un verbale di un commissariato di polizia che non a un testo letterario e con i lunghi periodi, i cui concetti spesso vengono ripetuti, la lettura del libro appare poco appetibile. Ma sono solo 93 pagine.