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domenica 18 maggio 2014

E' bello ciò che piace?



Se  dico che mi piace la pittura di Renoir, esprimo un mio gusto personale, vale a dire che sono conquistato dalla luce e dai soggetti dipinti all’aria aperta, dalla serenità delle immagini, dai colori lievemente sfumati. Invece a qualcun altro potrebbe piacere Caravaggio, per le tensioni drammatiche che sa creare, per il gioco di luce e ombra presente nei suoi quadri;
 
altri potrebbero dire che sono attratti da Van Gogh, per la violenza dei colori. E così di seguito.
 
Sono piaceri differenti, che rimandano a sensibilità e preferenze diverse. Non è pensabile, però, che colui a cui piace Caravaggio possa affermare che la pittura di Renoir è brutta, così come il sottoscritto mai si sognerebbe di sostenere che Caravaggio è brutto. 

Definire la bellezza in tutte le sue innumerevoli sfaccettature è quasi impossibile, però una cosa si può dire con certezza: il gusto è una cosa, il bello è un’altra. E il gusto di una persona spesso coincide con il bello. Quindi, da questo punto di vista, non è bello ciò che piace – secondo quel vecchio detto popolare - ma è bello ciò che è bello. Ciò che è universalmente riconosciuto come tale. E’ bello sia Renoir che Caravaggio, solo che a me piacciono le atmosfere di luce e di colori che sa creare il pittore francese, ad un altro piace l’apprensione dolorosa che sa esprimere Caravaggio nei suoi dipinti. Ma è bello anche Van Gogh, per l’angoscia e l’ansia esistenziale che traspare dalla sua pittura. E’ chiaro che il gusto esprime una emozione personale, un piacere soggettivo che nasce dal modo di pensare di chi guarda, dalla sua sensibilità, dai suoi principi morali, dalla sua cultura. Il gusto comunica anche un orientamento che spesso si lega alla moda di una determinata epoca.

La bellezza, invece, è armonia tra le parti, è proporzione e ordine: è un ideale di realizzazione e di rappresentazione attraverso il quale l’artista mira a tradurre in forme concrete un ideale di bellezza universale. Forse nessuna civiltà ha saputo esprimere meglio la bellezza come quella tramandataci dall’antica Grecia. Il fatto stesso che la Venere di Milo, risalente al II secolo a.c., sia universalmente riconosciuta,  a distanza di oltre due millenni, quale ideale perfetto di bellezza femminile, dimostra quanta  perfezione e quanta grazia sapevano infondere nelle loro opere quegli antichi maestri.

Nel corso dei secoli si sono succeduti stili diversi (romanico, gotico, classico, barocco ecc.) attraverso i quali gli artisti hanno sempre rappresentato la bellezza secondo i canoni della propria cultura, secondo il modello estetico della propria epoca storica, eppure la bellezza delle loro rappresentazioni rimane sempre la stessa, pur essendo raffigurata con stili diversi. Secondo me noi oggi viviamo in una società in cui l’idea di “bellezza”,  intesa nel suo significato oggettivo, è entrata in crisi profonda e si è affermato sempre di più il giudizio del “gusto”, un gusto che spesso sfocia nel “kitsch”, che sta a significare cattivo gusto e che testimonia il degrado dei nostri tempi, della nostra realtà quotidiana. Diceva Antonio Tabucchi che “la sensibilità alla bellezza appartiene ad un momento storico e non al patrimonio genetico di una persona. E’ culturale e quindi bisogna insegnarla”. E sembrerebbe che nella società in cui viviamo è molto più semplice e redditizio insegnare il peggio anziché il meglio. Oggi purtroppo assistiamo, soprattutto sui canali delle televisioni commerciali, a programmi che attraverso rappresentazioni volgari e di cattivo gusto, mirano ad abbassare il livello estetico e la percezione del bello.

Per cambiare rotta a questo degrado, è necessario pertanto affinare, educare, allenare il nostro gusto al bello. E come si allena il gusto? Semplicemente guardando il maggior numero possibile di opere d’arte, di monumenti, di statue, di dipinti; frequentando più spesso mostre e musei; ma anche leggendo e informandoci, perché quando noi guardiamo un dipinto lo giudichiamo, in primis, sulla base delle nostre percezioni sensoriali e poi in riferimento alle nostre conoscenze culturali. E se noi non conosciamo, siamo soliti dire che quella cosa che stiamo osservando è brutta:  invece potrebbe essere bella, se culturalmente fossimo capaci di scoprirvi la bellezza. Tutto ciò contribuisce a migliorare il nostro modo di vedere, di osservare, di capire. Solo la conoscenza e il continuo allenamento visivo possono indurci ad apprezzare l’essenza della bellezza e farci capire ciò che è bello, in quanto rientra nei nostri gusti personali, da ciò che è bello perché scaturisce da canoni estetici universalmente accettati e riconosciuti.

martedì 13 maggio 2014

"La morte del fiume" di Guglielmo Petroni (1911-1993)



 
Mi piace gironzolare tra le bancarelle dei libri usati di Roma. Vi si possono trovare testi molto interessanti, spesso fuori catalogo, che non vengono più stampati perché gli editori preferiscono rincorrere comodi guadagni attraverso la pubblicazione di prodotti letterari alla moda, di facile successo, il più delle volte scritti da autori e personaggi televisivi. Giorni fa, in Piazza Esedra, ho trovato alcuni bei libri pubblicati dal Club degli Editori di Milano che ha riproposto, in edizione speciale e con la copertina originale, i vincitori del premio Strega. “La morte del fiume” di Guglielmo Petroni è, appunto, uno tra quelli (si aggiudicò l’ambito premio nel 1974).

Non conoscevo questo autore nato a Lucca, autodidatta, che prese parte alla Resistenza e finì arrestato in Via Tasso a Roma. Tale esperienza la raccontò nel suo libro più noto “Il mondo è una prigione”, che secondo Natalino Sapegno resta una delle prove più alte della letteratura di quel periodo.

La trama di questo romanzo si sviluppa intorno alle vicende di due amici, Stefano Calzolari e Sante Martelli, i quali – sradicati nella Capitale da prima dell’ultima guerra - dopo oltre 40 anni ritornano, per motivi di lavoro e quindi non per iniziativa personale, nella loro città natale (Lucca). L’impatto del ritorno è violento, traumatico, inconsolabile. Entrando in città con il bagaglio di ricordi e di immagini, si accorgono che “al posto dei vasti prati verdi sfilava una sequela di villette la cui architettura vagamente avanguardista era contornata da giardinetti cosparsi di statuine classiche, in cemento compresso”. Ma ciò che più li irrita e li mortifica, fino alle lacrime, sono le condizioni pietose del fiume Serchio, quel fiume che li aveva visti felici durante l’infanzia quando potevano affondare le labbra in quell’acqua limpida e trasparente; un luogo “dove si dimenticava la miseria”. Ora l’acqua del fiume sembrava scorrere stancamente, e i miasmi della putredine lo avvolgevano trascinando enormi mucchi di spazzatura. Chi mai, quaranta anni prima, avrebbe potuto prevedere un simile scempio naturale? La memoria, per tutto il tempo trascorso, aveva conservato un ricordo pulito e profumato di quel luogo, di quella natura incontaminata, di quella città; ora quelle immagini amate e gelosamente custodite svanivano all’improvviso e si scontravano e si spaccavano impietosamente di fronte alla triste realtà.

Aleggia nel racconto un leggero senso di malinconia “perché le cose che si ritrovano non sono più quelle, oppure noi non siamo più quelli”. Evidentemente il tempo cambia le cose e i luoghi che ci appartengono e a cui siamo legati, ma cambia anche gli uomini. E allora la ricerca del volto del passato, tra persone e luoghi che lo possano contenere, costituisce una sorta di occupazione vitale quando il tempo della giovinezza sta ormai dietro le spalle. A volte si ritorna nei luoghi dell’infanzia e della giovinezza e non si riesce a trovare più nulla: forse perché abbiamo raccontato a noi stessi cose non vere; o perché abbiamo ingentilito o enfatizzato o mitizzato troppo quel passato il cui confronto con il presente non può reggere; o perché abbiamo vissuto le cose guardandole dal di fuori anziché esserci stati dentro. E allora, come dice Sante al suo amico Stefano “non è facile recuperare così volontariamente il proprio passato, in genere se ne trae una immagine che risponde a ciò che desideriamo, non a quello che realmente è stato. Ci si crea gli alibi, i veli, i paradisi artificiali, le illusioni, col proprio passato”. Però, nonostante tutto, loro avranno il coraggio di accettarlo nella sua realtà, di non alterarlo, perché il passato è come un libro che si può consultare quando se ne sente il bisogno.

Tra le righe del libro affiora, in maniera evidente e significativa, il tema molto attuale del disastro ambientale, della cementificazione del territorio, dell’inquinamento; affiora un’Italia che – come ha scritto Ottavio Cecchi nella prefazione del libro – “è andata scomparendo sotto la colata di nuove periferie dilagate sugli orti e sulle campagne fuoriporta”. Il fiume sporco e inquinato che muore, cui allude il titolo del romanzo, simboleggia un mondo che non c’è più, un mondo scomparso, che emerge nel ricordo dei protagonisti come in una sorta di rappresentazione teatrale.

mercoledì 7 maggio 2014

"I fratelli Tanner" di Robert Walser (1878 - 1956)



E’ un singolare e bellissimo libro, un’autentica sorpresa, scritto da Robert Walser nel 1909; è un romanzo fiabesco e reazionario, che disorienta, stupisce e fa riflettere.

Simon Tanner, il giovane protagonista del romanzo, altri non è che la controfigura dello scrittore svizzero, il suo alter ego, uno spirito libero che attraversa con leggerezza la vita, o meglio vi striscia nelle sue fessure e negli angoli più nascosti, con un senso di straordinaria libertà e meraviglia, che gli fa apprezzare tutte le cose belle e meno belle dell’esistenza. Ha una peculiare caratteristica questo singolare personaggio, ed è quella di riuscire a donare al lettore felicità ed allegria, anche quando ci parla delle sue miserie e della sua inettitudine.

Si, perché il protagonista del romanzo, in definitiva, è un inetto, un fannullone, un inguaribile scansafatiche, un ozioso, che conduce una vita pigra e dissipata, che non ama intristirsi in uffici angusti e ammuffiti, anche se a prima vista possono sembrare gli uffici più distinti. E’ sempre pronto, di sua spontanea volontà, a lasciare impieghi e lavori, anche quelli che promettono un’ottima carriera, per la pura voglia di andarsene, per la sua sconfinata voglia di libertà.

Ma a differenza delle tante figure di inetti che popolano la nostra letteratura, questo autentico eroe del dolce far niente vive la sua condizione senza affanni, senza traumi. Per essere felice non ha bisogno di occupare una posizione stabile e privilegiata nella società. No. Per riconciliarsi con la vita, gli basta una bella domenica di sole, un bel prato verde, un tramonto, una passeggiata per le strade di campagna. Egli vuole un presente anziché un avvenire, perché gli sembra più prezioso. E il presente, per lui, è fatto di giornate all’aria aperta, di incontri casuali, di passeggiate. “Si ha un avvenire soltanto quando si ha un presente”, egli dice “e quando si ha un presente si dimentica anche solo di pensare a un avvenire”.

La sorella Erwin lo vorrebbe diverso (ha tre fratelli ed una sorella), lo invita ad essere più intraprendente, a mostrarsi un po’ vanitoso, altrimenti nella vita non avrà mai successo; a lei farebbe piacere che la gente parlasse di lui, che prendesse parte alla vita pubblica. Gli fa capire che per avere successo è fondamentale mostrarsi e rendersi graditi agli altri con discorsi elevati. Invece Simon resta sempre muto, perché non ama aprir bocca quando già tanti chiacchierano confusamente, ritiene che nella conversazione il saper ascoltare sia più importante perfino del parlare. E poi non sta mai nello stesso posto, non fa che girovagare dalla mattina alla sera in cerca di nuove sensazioni, anche se piove o addirittura nevica, attratto dai profumi del bosco. “Una valigia è tutta la casa che abita a questo mondo”.
“Io non voglio assolutamente far carriera nella vita” afferma Simon “voglio soltanto vivere con un minimo di decenza”. Il suo sogno è quello di appartenere a qualcuno, di essere un dipendente. “A me fa piacere essere uno che dipende dalla benevolenza altrui, mi piace in genere dipendere da qualcuno”. Dice di essere nato per il dono e quindi vuole sempre donarsi a qualcuno ed essere trattato anche severamente, tant’è che se per caso gli capita di vagare un giorno intero senza trovare nessuno a cui potersi offrire, ne soffre terribilmente.

Non ha grande stima del denaro e pertanto non trova necessario lavorare. Non ha molta voglia di imparare un mestiere perché sente che il giorno è troppo bello per essere infangato con il lavoro. Gode di scarsa stima, a volte lo considerano un soggetto da evitare, ma di questo non gliene importa nulla; egli possiede l’arte di incantare con la sua grazia e la sua disarmante ingenuità, gli piace vivere, ma non gli piace entrare in competizione con gli altri, preferisce rimanere povero, per amore della libertà.

Con questo libro Walser ci trasporta in un mondo diverso, ci invita a vivere con serenità e senza affanni, a non rincorrere il successo a tutti i costi. Apre davanti al nostro sguardo una filosofia di vita alternativa e controcorrente e, con una prosa bella e scorrevole, ci regala un personaggio indimenticabile.
 
letto nel febbraio 2013
 

 

 

domenica 4 maggio 2014

L'odore della cucina



“Un tempo anch’io ero schiava di alcuni luoghi comuni: l’odor di cucina che non doveva assolutamente varcare l’ambito dei fornelli; e questo spazio – sempre più ristretto – vietato alle persone di un certo rango, che mangiavano scrupolosamente nella sala da pranzo. Sarà perché ho rinunciato a tutti i “ranghi” ma la cosa ora mi sembra una ridicolaggine piccolo borghese.

Il luogo giusto per mangiare è la cucina: il più funzionale e ricco di poesia; dove il cibo non giunge, quasi sterilizzato e sradicato dalla sua preparazione, ma lo si prende direttamente dai forni, dai fornelli, dalla brace; e dove il profumo delle vivande cucinate è l’odore giusto, non vergognoso, ma appetitoso, vitale, pieno di umori e di significati.

E il mangiare, in quest’amalgama di odori e sapori e abilità culinaria, è un porsi in comunione con le cose: la carne dell’animale, passata al fuoco e aromatizzata col rosmarino dell’orto, l’uovo preso dal nido, il frutto colto dall’albero: è tutta materia e vita, al servizio della vita”
Tratto dal libro “Un eremo non è un guscio di lumaca”
di Adriana Zarri

giovedì 1 maggio 2014

Vai a zappare!



Riporto di seguito un mio post pubblicato su la rivista on line  http://www.lamandragola.org/?p=2062#more-2062

Ai miei tempi quando uno non aveva voglia di studiare veniva immancabilmente rimproverato con un bel “vai a zappare”. Nell’immaginario collettivo era un modo per dire che chi non era portato per la “cultura” e per le lettere poteva dedicarsi solo alla “coltura” e quindi alla terra. Zappare la terra, nella vecchia concezione della società contadina e preindustriale, non richiedeva una particolare preparazione scolastica e, di conseguenza, era un’attività da disprezzare, adatta solo  alle persone rozze e dotate di poca intelligenza. Io comunque non sono mai stato di quest’avviso. Ho sempre visto il contadino e quindi il zappatore (di leopardiana memoria) come una figura di tutto rispetto; ho sempre considerato nobile il suo lavoro che nasce con la comparsa stessa dell’uomo sulla terra. D’altra parte, prima ancora che diventassimo falegnami o muratori, medici o avvocati,  impiegati o manager, siamo stati zappatori della terra da cui ha origine tutto il necessario per la nostra sussistenza.

Pare che oggigiorno l’accostamento  “ignorante uguale zappatore” sia stato definitivamente superato tant’è che Carlo Petrini, il fondatore del movimento “Slow Food”, che si propone il ritorno ad un’alimentazione ed a uno stile di vita più naturali,  recentemente ha detto che << l’era del  “vai a zappare”  per chi non è portato per studiare è finita da un pezzo. Oggi a zappare ci vanno quelli che studiando hanno capito che è a partire dal cibo che si cambia il mondo, e si migliora l’ambiente, la salute, la qualità della vita di tutti >>. Fino a qualche anno fa, probabilmente, nessuno si sarebbe mai aspettato una simile rivalutazione di quello che era considerato il lavoro più umile e dequalificante; nessuno avrebbe scommesso sull’agricoltura contadina, protagonista di un processo di ritorno alla terra per migliorare la qualità della vita.
Va detto che la nostra civiltà contadina – e mi riferisco in particolare a quella meridionale – è rimasta immutabile per tanti secoli, chiusa nei suoi riti arcaici e nella sua miseria. Tale condizione ci è stata raccontata, come ben sappiamo, da alcuni grandi scrittori del Novecento, come Francesco Jovine, Ignazio Silone, Corrado Alvaro. Una società, quella contadina, che nel giro di qualche decennio – a cominciare dagli anni 50 e fino agli anni 70 – ha subito una immediata evoluzione e si è disgregata attraverso la fuga massiccia dal lavoro duro e poco remunerativo della campagna verso le grandi industrie delle città del Nord. Questa fase – che ha coinciso con il boom economico caratterizzato da una forte crescita e da uno sviluppo tecnologico molto intenso – se da una parte ha creato condizioni di vita migliori dal punto di vista economico, dall’altra ha prodotto una sorta di frattura tra mondo agricolo e territorio, accompagnata da un forte degrado ambientale che ha visto prevalere un modello agricolo insostenibile fatto di colture intensive, con uso massiccio di composti chimici che avvelenano la terra – sfruttandola oltre ogni logica naturale – oltre che i frutti che la stessa produce.

Come sostiene il professor Serge Latouche, uno dei principali fautori della “decrescita”, bisogna rivedere l’uso del territorio, come bene comune da preservare, elemento centrale di tutta la cultura umana, togliendo una maggiore quantità di terra all’agricoltura intensiva, alla speculazione fondiaria, all’impatto inquinante dell’asfalto e del cemento per darla all’agricoltura contadina, biologica, rispettosa degli ecosistemi. Bisogna rendersi conto che una crescita infinita, su cui si fonda sempre di più la nostra società, è incompatibile con un pianeta finito, fatto di risorse destinate ad esaurirsi con il tempo. Il pianeta che noi abitiamo non ci basta più e per poter continuare a tenere lo stesso tenore di vita, ne occorrerebbero molti di più. Per assicurare il benessere all’insieme dell’umanità, la Banca mondiale ha calcolato che nel 2050, la produzione di ricchezza dovrebbe essere quattro volte superiore a quella attuale. Ma come è possibile pensare che si possa produrre all’infinito?
Oggi si parla tanto di Pil; purtroppo, nella formulazione di questo indicatore economico non sono comprese quelle attività e quelle risorse che, sebbene concorrano al benessere di un paese, non vengono prese in considerazione in quanto non hanno un valore mercantile. Infatti il Pil esclude dai propri parametri l’aumento del tempo libero come una ricchezza degna di essere contabilizzata, oppure l’acqua pura o l’aria non inquinata; non tiene conto della salute dei nostri figli, della qualità della loro istruzione, del divertimento, della bellezza dell’arte.

E’ necessario, allora, che nella nostra società i valori di riferimento ed i comportamenti delle persone vengano rivisti e magari sostituiti con altri più opportuni: quindi il sostegno reciproco e la solidarietà dovrebbero avere la preminenza sulla competizione sfrenata,  il gusto per il bello sull’efficienza produttiva, il consumo di prodotti locali dovrebbe avere il sopravvento su quelli d’importazione, il biologico dovrebbe sostituire l’industriale. E’ necessaria una vera e propria rivoluzione culturale; è fondamentale abbandonare l’idea secondo cui l’unico scopo della vita è quello di produrre e consumare sempre di più. A tal proposito, c’è da dire che già si avvertono dei piccoli segnali che fanno ben sperare; in particolare, per quanto riguarda i problemi legati all’agricoltura, si sta diffondendo sul territorio un modo di coltivare la terra sempre più vicino a quello tradizionale, che veniva adottato dai nostri nonni. Questo conferma il fallimento del modello agroindustriale che utilizza dosi massicce di diserbanti, a scapito della qualità e della bontà del cibo che arriva sulle nostre tavole. Oggi, chi ha la possibilità, abbandona la città per la campagna, per dedicarsi alla coltivazione del proprio orticello con sistemi naturali; si sta tornando a quegli antichi metodi di conservazione delle sementi che si tramandavano i contadini del passato, al fine di salvaguardare prodotti e conoscenze altrimenti destinati a scomparire. Sempre più spesso piccoli imprenditori agricoli si organizzano in associazioni per contrastare la grande distribuzione, dando vita a mercatini dove si possono comprare prodotti a Km 0 a prezzi decisamente inferiori, grazie alla filiera corta dal produttore al consumatore. Nelle grandi città, da alcuni anni, si stanno moltiplicando i cosiddetti orti urbani: piccoli fazzoletti di terra che vengono affidati ai cittadini, in comodato d’uso a titolo gratuito, ed utilizzati per le coltivazioni ortofrutticole. E’ un mezzo efficace per salvaguardare il territorio comunale dal degrado e dall’abbandono e consentire, altresì, ai beneficiari non solo di riappropriarsi del territorio, ma anche di riscoprire quell’antico e nobile piacere di vedere crescere e gustare frutta e verdura prodotta con le proprie mani. O meglio con la propria zappa.