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giovedì 28 agosto 2014

Paestum: il fascino antico di una Basilica



Paestum è universalmente conosciuta per il suo famoso Parco Archeologico; ma non tutti sanno che a pochi metri dal tempio di Cerere, sul lato sinistro della statale 18 (provenendo da Battipaglia) e un po’ prima del museo archeologico, si apre una deliziosa piazzetta su cui si affaccia una chiesa di grande suggestione e di notevole pregio architettonico, che nessun visitatore dovrebbe ignorare: mi riferisco alla Basilica Paleocristiana della SS. Annunziata, addossata a un palazzetto settecentesco, già sede vescovile.
Normalmente, di qualsiasi monumento si parli, noi vediamo lo stato in cui si trova nella fase finale della sua vita, e spesso si tratta di vita millenaria. E tale è la condizione storica di questa chiesa – intitolata all’Annunciazione della Beata Vergine Maria – emersa così come noi oggi la possiamo ammirare dopo vicissitudini secolari, fra distruzioni, ricostruzioni e restauri. La primitiva struttura, risalente agli inizi del V secolo d.c. era del tipo “basilica aperta”  – secondo l’ipotesi del prof. Gabriele de Rosa – trasformata in “basilica chiusa” agli inizi del VI secolo, che è la forma che oggi conosciamo. A Paestum il cristianesimo cominciò a diffondersi a partire dal 344 d.c.; ed è proprio in quel periodo che l’antica colonia romana divenne sede vescovile. Dopo la distruzione di Paestum ad opera delle incursioni saracene (nell’anno 877) ed a seguito del progressivo abbandono in cui caddero quelle terre (come viene ricordato in quasi tutte le relationes ad limina dei vescovi, ossia i resoconti al soglio papale) gli abitanti si rifugiarono sul vicino monte Calpazio, dove “vi fabbricarono in breve tempo Capaccio” e dove i vescovi trasferirono la loro cattedra (l’attuale Santa Maria del Granato, che era la chiesa, a quei tempi, più conosciuta e ricordata della zona), pur continuando a definirsi “pestani” fino al XII secolo.

Nel XII secolo la chiesa dell’Annunziata venne ampliata, in stile romanico, e ripartita in tre navate tramite due file di colonne antichissime e di rara eleganza. Apprendiamo, inoltre, che intorno all’anno 1504 fu in parte rifatta dal vescovo di origine cipriota Ludovico Podocataro, il cui intervento avrebbe tra l’altro comportato un parziale interramento della chiesa con elevazione dell’originario livello del pavimento di oltre un metro. Ma fu Agostino Odoardi “il vero restauratore della chiesa pestana”, come lo definisce il prof. De Rosa, colui che ad essa diede l’impronta dello stile del secolo e, in ogni caso, con interventi poco rispettosi dell’antica struttura paleocristiana. Quando l’Odoardi fu eletto vescovo di Capaccio (14 febbraio 1724) a Paestum non esisteva una cattedrale, ma solo una chiesa antica oramai decaduta, priva di ogni suppellettile sacra, al punto che si poteva chiamare “profanus locus”. In una sua relazione il prelato scriveva che la cattedrale assomigliava più a una stalla o a una spelonca di predoni, che a una casa di Dio. E siccome il territorio – popolato da coloni e da custodi di armenti – aveva comunque  bisogno di un luogo sacro (la cattedrale della vecchia Capaccio era alquanto distante, con vie di accesso aspre e impraticabili) egli la rinnovò dalle fondamenta, inglobando il primitivo colonnato con pilastri di stile settecentesco e innalzando ulteriormente il portale d’ingresso; fece inoltre costruire un cimitero che mancava, ornò la sacrestia di paramenti sacri, aggiungendo sul fianco della chiesa un campanile a vela con due campane (andato distrutto durante un successivo restauro). Le campane, invece, ci sono pervenute, una delle quali, datata 1732, si può ammirare presso l’ingresso.
Il successore di Odoardi – il vescovo Raimondi – fu artefice di uno degli ultimi restauri della chiesa, fornendola a sue spese di marmi e ornamenti per l’altare maggiore e facendo edificare nel 1760, adiacente alla cattedrale, un elegante palazzetto “un palatiolum” che per lungo tempo servì di abitazione ai vescovi.
Solo nella seconda metà del Novecento la Basilica – così come noi oggi la vediamo – è stata riportata alle sue forme autentiche, spogliata del suo precedente “abito” settecentesco, con la restituzione dell’originario pavimento, più basso di circa due metri dal livello stradale (si accede alla chiesa attraverso una scala). Va detto che non è stata un’impresa facile liberare l’antica struttura architettonica dagli interramenti avvenuti durante i secoli passati, così come scorporare le antiche colonne dalle forme barocche da cui erano state ricoperte e che ne avevano alterato l’antica e suggestiva bellezza.
Vorrei infine soffermarmi su quell’antico palazzetto settecentesco, addossato alla Basilica, che come sopra specificato fu l’antica residenza vescovile. Ebbene, la struttura per alcuni anni è stata abbandonata e trascurata tant’è che in un recente passato il già nominato prof. Gabriele De Rosa, eminente storico meridionale, scriveva:“ (…) ora che la cattedrale pestana ci è stata restituita nella sua primitiva suggestiva bellezza, è una pena vedere a fianco l’ex episcopio sciupato e abbandonato. Tutte le strutture interne sono logore: la cappella del vescovo è stata trasformata in una latrina. Le pubbliche autorità dovrebbero preoccuparsi perché anche questo edificio venga restaurato e riscoperto come la sua vicina antica chiesa. E’ un elegante edificio che deve essere restituito al patrimonio artistico di Paestum, assicurando ad esso anche un retroterra che lo preservi dal rischio delle speculazioni edilizie”. Ebbene, cosa hanno fatto “le pubbliche autorità” per restituire alla collettività questo patrimonio? L’hanno venduto ai privati.

sabato 23 agosto 2014

Quel che resta del giorno



E’ uno dei romanzi più belli che io abbia letto in questi ultimi tempi; tale convincimento è maturato in me prima ancora che terminassi di leggerlo, tant’era il piacere che provavo man mano che scorrevo le pagine di questo autentico capolavoro della letteratura. La bellezza del romanzo, su cui aleggia una sottile malinconia, nasce essenzialmente dall’eleganza e dalla sontuosità della prosa, ma anche dalle profonde riflessioni che scaturiscono dalla sua lettura.

Credo che solo un raffinato giapponese naturalizzato inglese, come Kazuo Ishiguro, poteva scrivere un tale romanzo che ha come protagonista un altrettanto raffinato ed elegante maggiordomo – Stevens – che trascorre tutta la sua vita nella nobile residenza inglese di Darlington Hall, nei pressi di Oxford, al servizio di un ricco gentiluomo (lord Darlington), anche se moralmente discutibile. Dal libro è stato pure tratto un bellissimo film del regista James Ivory interpretato magistralmente dall’attore inglese Anthony Hopkins.

E’ un’ avventura umana ed esistenziale - raccontata in prima persona dallo stesso protagonista – che tende ad esaltare e custodire una tradizione ed una nobile professione tipicamente anglosassone, come quella del maggiordomo, il cui adempimento richiede il possesso di “una dignità all’altezza della posizione che occupa” attraverso l’assoluta fedeltà nei confronti del datore di lavoro, al quale Stevens dedica non solo le sue migliori energie, ma finisce per sacrificare la sua stessa vita, i suoi stessi sentimenti in quella sorta di prigione dorata. Una vita che, seppure non gli permetta di viaggiare e di visitare luoghi pittoreschi, in effetti gli offre l’opportunità di conoscere tutta l’Inghilterra, collocato com’ era in una dimora “nella quale si radunavano le più illustri signore e i più insigni gentiluomini del paese”, il privilegio di svolgere la sua professione stando al centro stesso dei grandi eventi che interessavano il mondo intero. Ma qualcosa cambia nel suo mondo chiuso ed ovattato, almeno dal punto di vista psicologico,  allorquando il suo nuovo signore e datore di lavoro, Mr. Farraday, un americano che aveva comprato la nobile residenza alla morte di lord Darlington – approfittando di un suo viaggio negli Stati Uniti - lo invita a prendersi un po’ di riposo e a fare un giro di alcuni giorni attraverso l’Inghilterra.

Il viaggio, che intraprende da solo dopo qualche titubanza, gli offre l’opportunità di fare, per la prima volta nella sua vita, un percorso interiore alla scoperta di se stesso, una profonda e nostalgica riflessione sugli eventi e sui ricordi del passato, sulla sua vita completamente dedicata alla causa della sua professione e del suo illustre padrone. Un viaggio che costituisce anche l’occasione per rivedere dopo tanti anni miss Kenton, la governante che aveva lavorato alle sue dipendenze nel passato; tra i due c’era stato un ottimo rapporto professionale, che però non era mai sfociato in un sentimento più intimo e personale, capace di cambiare le loro esistenze e di dare concretezza e vivacità ai loro desideri.  

( letto nell’ aprile del 2011)

sabato 16 agosto 2014

Lasciamo vagabondare la mente



L’avete mai osservati i dipendenti da telefono cellulare, ossia coloro i quali non possono vivere senza quella magica tavoletta che, da piccolissima qual era, sta diventando sempre più grande? A prima vista potrebbe sembrare che il mondo non può andare avanti senza di loro: sono sempre connessi; sempre in collegamento con qualcuno; sempre a mandare messaggi; a postare, a twittare, a fotografare, ad ascoltare, a guardare, a telefonare. Sembra che siano in attesa di chissà quale chiamata importante o che stiano per decidere le sorti del mondo. Se un extraterrestre dovesse all’improvviso scendere tra di noi, io credo che non sarebbe notato da nessuno, tant’è l’attenzione riservata a quell’oggetto che è diventato oramai una sorta di protesi e che inizialmente veniva chiamato telefonino. E già, perché oggi chiamarlo così è davvero riduttivo. E’ un mini computer potentissimo che ci segue passo dopo passo. E ci condiziona: nel bene e nel male.
Eppure il mondo potrebbe andare avanti anche senza l’apporto di questi forzati della telefonia mobile che si ostinano – senza pause – a far sapere che esistono. Io credo che durante la giornata bisognerebbe staccare per qualche ora il telefonino e riaccendere il social network della vita reale. Sono già usciti alcuni libri al riguardo che parlano, appunto, di “dieta digitale”, di come “disintossicarsi” da questa autentica droga dei nostri tempi.
Ma naturalmente non esistono solo i telefonini e i computer a condizionare la vita delle persone. Ogni giorno siamo letteralmente aggrediti da un’overdose di informazioni, di notizie, di aggiornamenti, di fatti. Secondo uno studio svolto nel 2011, giornalmente assorbiamo notizie equivalenti a circa 174 giornali. Inoltre esistono nel mondo più di 21.000 stazioni televisive che trasmettono migliaia di ore di programmazione (stiamo davanti alla televisione in media 5 ore al giorno); insomma, siamo diventati schiavi e succubi di un chiacchiericcio mediatico, e non solo, davvero squilibrato e demente. Alcuni sostengono che durante la giornata dovremmo aprire degli spazi vuoti, lasciando vagabondare la mente senza strumenti elettronici, appropriandoci di sprazzi di silenzio, quel silenzio che sembra sparito definitivamente dalla nostra esistenza. E sono proprio queste condizioni che ci  permetterebbero di riacquistare quella creatività perduta che, come scriveva l’altro giorno un giornalista del New York Times (Daniel J. Levitin) ci consentono di “sognare ad occhi aperti…e ci insegnano come agire, ci danno la capacità di cambiare il mondo, di modellarlo a nostro piacimento, di avere un effetto positivo sul nostro ambiente…e di risolvere problemi che prima apparivano irrisolvibili”. Una sorta di resettaggio naturale.
Dobbiamo renderci conto che le nostre capacità percettive, seppure rilevanti, hanno dei limiti oltre i quali sono destinate ad ottundersi per l’eccesso di stimolazioni visive ed uditive cui vengono quotidianamente sottoposte. Per non soccombere, io credo che dobbiamo cercare sempre, durante la giornata, un momento di “digiuno”. E’ difficile che questa limitazione possa arrivare dagli stessi mezzi che vivono di parole e di immagini. E allora spetta a noi ritrovare quell’intervallo perduto, quella pausa creativa che ci consenta di liberarci dal troppo pieno. Dalle troppe parole.

mercoledì 6 agosto 2014

Il busto di gesso


 

Lessi la prima volta questo libro, scritto da Gaetano Tumiati nel 1976, anno in cui vinse il premio Campiello. Mi trovavo a Trieste per lavoro. L’ho riletto dopo 34 anni, perché serbavo di questa lettura un ottimo ricordo e devo dire che non mi sbagliavo. L’ho apprezzato ancora di più. E’ un bel libro, scritto molto bene, sempre in chiave psicologica ed ironica Mi ricorda un po’ Proust, per alcuni periodi lunghissimi, anche di due pagine.
E’ la storia, credo in gran parte autobiografica, di un giornalista che nella sua vita  ha sempre avuto la necessità di sorreggersi ed aggrapparsi ad un sostegno ideologico e morale, insomma ad un “busto”.
Dapprima, e cioè dall'infanzia fino ad una certa età, questo busto è rappresentato dalla sua famiglia, una di quelle famiglie della ricca borghesia di Ferrara, con regole fisse e prestabilite dove la figura paterna - uno stimato avvocato - aveva un ruolo predominante ed autorevole,  “metro e misura per tutti noi del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, notabile di stampo ottocentesco, che la sera dopo cena quando eravamo appena adolescenti, ci leggeva brani di Marco Aurelio perché ne apprendessimo la lezione morale”, un padre che viveva in un suo mondo ideale al cui vertice aveva posto un valore umano e concreto: la legge e si augurava che il figlio potesse diventare avvocato e poeta, perché la poesia per lui costituiva “la più alta e nobile delle sfere”.
Da giovane, è il Fascismo  a prendere il sopravvento, è il nuovo “busto” che lo avvolge e lo protegge sostituendosi alla famiglia, vissuto con grande partecipazione, fino alla partenza come volontario per la guerra...”mi indusse a quel passo soltanto l’aspirazione a uscire dal cerchio di solitudine e di timidezza in cui avevo l’impressione che la mia natura mi volesse rinserrare...”
Quindi, negli anni della maturità, è la fede assoluta nella palingenesi universale rappresentata dal socialismo a prendere le sembianze del busto “...per contribuire in qualche modo a correggere le ingiustizie di questa terra, forse avrei fatto meglio a dedicarmi a un’attività politica concreta...”
Infine, nell’esistenza del protagonista, ormai verso i cinquant’anni, subentra un altro busto, questa volta un busto vero, di gesso che gli viene applicato per problemi alle vertebre e gli consente anche di vincere l’insonnia che ormai lo torturava, quell’insonnia che era cominciata proprio nel momento in cui attenuatasi l’autorità del padre, ripudiato decisamente il fascismo e intiepidita la fede socialista, si trova a dover procedere tutto solo per la sua strada, contando esclusivamente sulle sue forze. E allora si domanda se il busto di gesso, permettendo certi movimenti e impedendone altri, “non riesumi dal profondo del suo inconscio la sicurezza che nasce dal fatto di avere davanti a sé una strada e una sola, di non dover essere perennemente costretto a scegliere e a decidere?....non può questo busto, così ruvido e insignificante, rappresentare il padre, la legge, il dogma?...”

(letto nel dicembre 2010)