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martedì 29 luglio 2014

L'isola di Arturo e del Postino



Da un po’ di anni a questa parte, all’inizio dell’estate, amo trascorrere qualche giorno su un’isola, mi piace immergermi in quelle magiche atmosfere che solo una terra circondata dal mare sa offrire. E’ un’esigenza che nasce, probabilmente, allorquando la confusione e lo stress della grande città rendono la vita quotidiana sempre più difficile e fastidiosa e, allora, si affaccia l’intimo desiderio di rifugiarmi su quella immaginaria “isola deserta”, per stemperare le amarezze, le difficoltà, le delusioni, la stanchezza. E’ proprio in quei momenti che affiora questo dolce pensiero, quest’ancora di salvezza: l’isola come conforto dell’anima. Per chi ama il silenzio e la contemplazione, l’isola è sinonimo di pace, di distacco dalle miserie umane e dalle tribolazioni della vita di tutti i giorni. Per chi, invece, mal sopporta un’esistenza poco movimentata, l’isola evoca soltanto solitudine, emarginazione, reclusione, ma è un sentimento - quest’ultimo - che non mi appartiene. A prima vista la nostra isola – qualsiasi isola - appare irraggiungibile e  minacciosa: sembra quasi che, con quella immensa distesa d’acqua da cui è circondata, voglia respingere qualsiasi viandante, intenda erigere un baluardo alla sua inviolabilità. Poi, una volta messo piede a terra, questi pensieri negativi svaniscono immediatamente per prendere il posto di sensazioni più piacevoli dovute alla calda accoglienza che il luogo sa donare.
Facevo queste riflessioni mentre scendevo dall’aliscafo che, dal porto di Casamicciola, mi aveva riportato sull’isola di Procida. E, uscendo dalla grande pancia della nave ho provato ad immaginare – estraniandomi con difficoltà dal contesto vacanziero in cui ero immerso e dalla variegata e accaldata umanità che mi stava intorno  – di essere approdato su un’isola sconosciuta e selvaggia alla stregua di quegli antichi navigatori del passato che, dopo mesi e mesi di navigazione in alto mare, sbarcavano su terre lontane e disabitate. Era come uscire dal grembo materno e trovarsi in un mondo ostile e sconosciuto.  Chissà quali sensazioni e quali straordinarie emozioni provavano quei pionieri del mare al cospetto di una terra mai vista prima. A noi, moderni viaggiatori, non è più concesso vivere quelle esperienze perché tutto ciò che c’era da scoprire è stato scoperto e non esistono terre sconosciute su cui issare la nostra bandiera. Eppure, quando sbarchiamo su un’isola, le sorprese non mancano mai, basta cercarle: in una piazzetta a picco sul mare oppure percorrendo un vicoletto che si snoda tra le casette dei pescatori o visitando un’antica chiesa. Con un po’ di fantasia possiamo sentirci tutti dei novelli esploratori in cerca della terra promessa.
Arrivando sull’isola di Procida, ci accoglie un simbolo cristiano: la statua del Cristo Pescatore, dovuto alla fede dei pescatori del luogo, e poi quel tipico paesaggio marinaro costituito da barche da pesca, barconi mercantili (ma anche qualche imbarcazione più lussuosa) e tante casette colorate addossate le une sulle altre, come un presepe. Mi è sembrato che nel porto non ci fossero molte imbarcazioni eleganti, quegli yacht da nababbi che popolano sempre in gran numero gli altri porti dell’arcipelago partenopeo; abbondano invece le piccole barche degli isolani a conferma del fatto che il turismo d’elite preferisce altri lidi.  Percorrendola in lungo e in largo, salta subito agli occhi che Procida vive nel ricordo di un film che fu qui girato nel 1994: “il Postino”, con l’indimenticabile interpretazione di Massimo Troisi; la sua immagine triste e malinconica è presente un po’ ovunque, nelle piazze come nei locali pubblici, e forse nessun personaggio meglio dell’attore napoletano poteva rappresentare la vera essenza dell’isola, che è nel contempo appartata, generosa e malinconica. Ma anche un’altra figura è scolpita nella memoria storica di Procida: è Arturo, l’eroe-ragazzo nato dalla penna di Elsa Morante, protagonista del romanzo “L’isola di Arturo”, che vive la sua avventura adolescenziale in questo luogo a cavallo degli anni ’50. Così la descrive:  “ la mia isola ha straducce solitarie chiuse fra muri antichi, oltre i quali si stendono frutteti e vigneti che sembrano giardini imperiali. Ha varie spiagge dalla sabbia chiara e delicata, e altre rive più piccole, coperte di ciottoli e conchiglie, e nascoste tra grandi scogliere. (…) Attorno al porto, le vie sono tutti vicoli senza sole, fra le case rustiche e antiche di secoli, che appaiono severe e tristi, sebbene tinte di bei colori di conchiglia, rosa e cinereo. Sui davanzali delle finestruole, strette quasi come feritoie, si vede qualche volta una pianta di garofano, coltivata in un barattolo di latta; oppure una gabbietta che si direbbe adatta per un grillo, e rinchiude una tortora catturata (…) Mai, neppure nella buona stagione, le nostre spiagge solitarie conoscono il chiasso dei bagnanti che, da Napoli e da tutte le città, e da tutte le parti del mondo, vanno ad affollare le altre spiagge dei dintorni. E se per caso uno straniero scende a Procida, si meraviglia di non trovarvi quella vita promiscua e allegra, feste e conversazioni per le strade, e canti, e suoni di chitarre e mandolini, per cui la regione di Napoli è conosciuta su tutta la terra”. Ma, mentre la figura del postino-Troisi con la sua immancabile bicicletta si incrocia dappertutto, è più raro incontrare riferimenti letterari tratti dal libro della Morante, a conferma del fatto che nella nostra epoca “le immagini”, da qualunque fonte esse provengano (cinema, televisione o pubblicità) hanno il sopravvento sulla “parola”. Procida suscita un fascino antico: appare riservata e rustica e non ha nulla a che vedere con l’eleganza e la ricercatezza di Capri né con la grandezza e la ricchezza di Ischia. E’ sostanzialmente un’isola di pescatori e contadini e porta nel suo grembo tutta la discrezione e la saggezza della sua gente. I Procidani, diceva Arturo “sono scontrosi, taciturni. Le porte sono tutte chiuse, pochi si affacciano alle finestre, ogni famiglia vive fra le sue quattro mura, senza mescolarsi alle altre famiglie. L’amicizia da noi non piace. E l’arrivo di un forestiero non desta curiosità, ma piuttosto diffidenza”.  
Prima di lasciare l’isola, mi sono incamminato sulla sua sommità, a circa cento metri sul livello del mare, su quella che i Procidani chiamano “terra murata”;  qui si staglia la massiccia mole del vecchio carcere ormai abbandonato. Osservandolo, circondato com’ero da quel meraviglioso paesaggio che si poteva ammirare da lassù, ho pensato che solo degli uomini cinici e malvagi potevano rinchiudere altri uomini in un posto così bello: una crudele destinazione per i detenuti partorita dalla spietata cattiveria dei loro carcerieri. Da quell’altezza, guardando da una delle terrazze che si aprono a strapiombo sul mare, lo spettacolo è davvero esaltante: in lontananza, tra un cielo e un mare senza fine, di un azzurro intenso, appare la silhouette di Capri e poi, osservando in basso, il coloratissimo porticciolo di pescatori “la Corricella” con le sue case multicolori addossate alla collina. Mi sono fermato lì ad osservare rapito quel panorama, opera stupenda di un Dio.

lunedì 21 luglio 2014

Il pittore che dipingeva il silenzio



Nessun artista, prima di Edward Hopper, aveva avuto la spregiudicatezza di innalzare a dignità artistica la realtà urbana e metropolitana, ossia le scene ordinarie di vita quotidiana di una grande città come New York; nessuno, prima di lui, si era mai spinto ad osservare, direi quasi a “spiare” – attraverso la pittura – l’interno di un appartamento o di un ufficio, colti nel momento in cui gli ignari occupanti erano immersi nelle proprie faccende private o pubbliche. Lo fece per la prima volta questo pittore, nato in una piccola cittadina sul fiume Hudson nel 1882, appartenente ad una ricca e colta famiglia borghese dell’America di fine Ottocento. La scelta di utilizzare in pittura soggetti artistici non in linea con gli ideali imposti dall’arte moderna e, soprattutto, dalle richieste del mercato dell’arte, provocò, almeno inizialmente, una reazione molto dura nei suoi confronti sia da parte della critica americana che dell’opinione pubblica. Questa sua vocazione al realismo, questa sua totale fermezza nel perseguire una propria linea pittorica lontana dalle mode, lo condannarono in principio all’indifferenza generale, tanto è vero che Hopper presentò a New York la sua prima mostra personale solo all’età di 38 anni, esponendo una quindicina di quadri ad olio, senza venderne nessuno. L’apprezzamento, di critica e di pubblico, sarebbe arrivato in seguito.

 
Ma perché Hopper era attratto dalle periferie urbane, dalle stanze dei motel, dalle stazioni ferroviarie, dalle strade quasi sempre deserte e dai distributori di benzina isolati? Perché amava rappresentare la solitudine e gli spazi vuoti e assolati? Perché i protagonisti nei suoi quadri appaiono sempre soli e, se in coppia, sembrano estranei, distaccati e non comunicano quasi mai tra di loro? Nemmeno lui sapeva spiegarlo, tant’è che scriveva: “il mio obiettivo in pittura è di usare sempre la natura come mezzo per provare a fissare sulla tela le mie reazioni più intime nei confronti dell’oggetto così come esso appare nel momento in cui lo amo di più…Perché io, poi, scelga determinati oggetti piuttosto che altri, non lo so neanche io con precisione, ma credo che sia perché rappresentano il miglior modo per arrivare a una sintesi della mia esperienza interiore”. E la sintesi della sua esperienza interiore era essenzialmente la solitudine. C’è da dire che Hopper era un uomo riservato e timido, incapace di sentirsi a proprio agio tra la gente; egli amava nascondersi piuttosto che apparire. Se fosse vissuto nella nostra epoca, considerata la sua indole solitaria, credo che si sarebbe negato a qualsiasi intervista e non sarebbe stato mai ospite di programmi televisivi, così appetibili dai vip dei nostri giorni. Probabilmente queste sue peculiarità caratteriali influenzarono molto la sua pittura che ci parla, appunto, della solitudine urbana, quella solitudine celata dietro le cortine delle finestre o lungo una strada assolata di periferia; la sua pittura ci parla dell’alienazione che gli individui vivono nelle grandi città e delle difficoltà di comunicazione interpersonale. Inoltre, sembra quasi che Hopper nei suoi quadri voglia rappresentare il tempo, o meglio la sospensione del tempo, attraverso luci e ombre che si stagliano sulle cose, in assenza di persone e di sentimenti. Una volta disse: “io non voglio dipingere la gente che gesticola e che esprime emozioni. Quello che voglio fare è dipingere la luce su di un lato di una casa”.
 

Molti sono i critici che vedono nella pittura di Hopper la riproduzione dello squallore e della desolazione di una certa America. Ma io credo che non sia proprio così. Hopper era innanzitutto un attento osservatore della realtà che lo circondava  e attraverso la visibile tristezza che traspare dai suoi dipinti, egli intendeva rappresentare la universale fragilità della condizione umana. Il suo messaggio, umano e artistico, è quello di farci riflettere sulla vera essenza delle cose e sugli aspetti più banali della quotidiana esistenza; con i suoi quadri l’artista americano ci rivela che la “poesia” si può trovare anche in una sperduta stazione di servizio, lungo una strada che attraversa un bosco e che la felicità si può percepire anche in motel o in una sala d’attesa semivuota di una stazione ferroviaria. Perché a volte sono proprio quei luoghi che apparentemente appaiono i più tristi e malinconici, frequentati da avventori smarriti e in rotta di collisione con la società e con la vita, a consolarci della nostra tristezza. Le hall degli alberghi, i vagoni dei treni poco frequentati, le caffetterie aperte fino a tarda notte ai lati della strada – dipinti da Hopper – diventano, così, un rifugio accogliente per quanti si sentono abbandonati e traditi dalla vita, luoghi ideali dove poter tranquillamente stemperare la propria solitudine e la propria sofferenza.
 
Ma c’è un aspetto nella pittura di Hopper che per me è fondamentale e caratterizzante della sua arte: il silenzio che traspare in tutte le sue opere. Credo che nessuno meglio di Hopper, abbia saputo raffigurare questa dimensione, irrimediabilmente perduta nell’epoca in cui viviamo, contrassegnata da rumori che non lasciano spazio alla riflessione a all’ascolto.

lunedì 14 luglio 2014

Saremo primitivi tecnologizzati



“ (…) Il progresso che ha caratterizzato alcune popolazioni, e l’Occidente del mondo in particolare, non ha migliorato l’uomo: ne ha modificato fortemente il comportamento ma non lo ha cambiato nell’affettività, che è una parte importante e che anzi sembra divenuta più fragile. Non ha modificato il principio guida della vita che si fonda necessariamente sul senso dell’uomo nel mondo e sul senso dell’esserci. Ha fornito solo protesi che sono servite per renderlo anche più cattivo. C’è una tecnologia che è stata usata in maniera bestiale: la bomba atomica. La guerra tecnologica, rispetto a quella in cui si confrontavano gli uomini apertamente su un campo di battaglia, è di gran lunga più bestiale (…) La tecnologia deve ritornare dentro un senso, mentre non aiuta affatto a trovarlo; anzi, semmai spinge all’azione e l’uomo ad agire senza chiedersi più il perché e che significato abbia.
Ecco, ho paura che questa società non si domandi più nulla, ma chieda solo e sempre tecnologia che vuol dire sollevarsi da compiti che prima l’uomo svolgeva direttamente. Una tecnologia che lo rende sempre più inutile come corpo, ridotto a semplici dita che digitano. Ho paura che non si domandi più nulla poiché semplicemente non ha nemmeno la testa per pensare: la tecnologia la svuota, modifica il suo modo di procedere, fino a sostituirla con una macchinetta che saprà fare quello che serve per sopravvivere, e bene, ma non per risolvere il tema del senso della vita e senza questa domanda finirebbe una civiltà. Intendiamoci: l’uomo continuerà a vivere, ma in una civiltà differente.

L’uomo della tecnologia possibile si sarà talmente sollevato dalla fatica, da affidare alla macchina il compito di pensare; ridotto a uomo senza testa o simile a quella di un gabbiano che non si chiede certo il perché del volo, ma semplicemente vola, non si interroga sul perché mettere al mondo dei figli, ma semplicemente li fa e certo non si domanda se invece di mangiare sempre granchi o pesce di mare, non possa un giorno sedersi a tavola con davanti un bel bignè alla crema.
L’uomo si ridurrà alla logica dei viventi non umani, regredendo e passando alla fase dei nostri antenati primitivi. Saremo dei primitivi tecnologizzati, ma primitivi. E confesso che questa ipotesi mi spaventa. Ho paura che questa civiltà venga cancellata. E invece di continuare dentro la cornice della vita umana si giunga a pensare che la tecnologia sia l’uomo e che la human life sia l’esistenza digitale, che l’azione non parta dal cervello dell’uomo, ma dai polpastrelli delle sue dita. (…) Ecco, ho paura che questa società finisca, ma al contempo auspico che debba finire poiché non riesce più a vedere i propri limiti, avendo indossato maschere del bene solo per coprire e continuare a compiere il male. E’ una società piena di pie confraternite, ma con una povertà che aumenta spaventosamente e con una ricchezza che si sfoggia in modo vergognoso senza nemmeno il pudore nei confronti di chi sta crepando di fame. Una società della fame e, contemporaneamente, dell’ossessione del rifiuto del cibo poiché teme il sovrappeso. Una società che ha gli strumenti per aiutare ma che non lo fa; ha i farmaci per guarire popolazioni povere che però muoiono perché non possono pagarli. Organizzazioni internazionali per la pace, come le Nazioni Unite, che si limitano a osservare, senza alcun potere, le distruzioni della guerra in ogni parte del mondo (….) Una società di questo tipo è meglio che finisca poiché non può essere guarita.
Ma mentre si profila questa possibilità io mi sento a disagio, sono triste e provo il desiderio di ribellarmi e di cercare di fare qualcosa per salvarla. Sento forte il bisogno di una tecnologia che serva all’uomo e non ai suoi affari, non ai suoi guadagni, non al suo tempo perché divenga sempre più libero, almeno da fatiche abituali…”

( tratto da “La vita digitale” - Rizzoli Editore –
di Vittorino Andreoli )

venerdì 11 luglio 2014

Un visionario su un trono di legno



Ci sono alcuni grandi libri che pur avendo ottenuto, al momento della pubblicazione, un notevole successo di pubblico e di critica - magari vincendo anche dei premi letterari importanti – vengono, in seguito, inspiegabilmente abbandonati dagli editori e dai lettori. E’ il caso de “Il trono di legno” di Carlo Sgorlon, vincitore del Super Campiello nel 1973; il romanzo, dopo alcune fortunate edizioni negli anni immediatamente successivi alla sua pubblicazione, oggi sembra completamente rifiutato dagli editori e risulta introvabile per gli amanti delle buone letture. Per fortuna che ci sono i mercatini dell’usato, dove ho trovato questa vera perla della nostra letteratura del Novecento. Uno si chiede perché un libro, così bello e così poetico, sia fuori catalogo e perché mai gli editori, oggi, preferiscano le melense storie di attualità, ampiamente enfatizzate dai mass media, anziché le vicende universali ed epiche rappresentative dei sentimenti e dei valori di un intero popolo - narrate in questo romanzo - il cui autore resta fortemente legato alla sua terra e al suo popolo: il Friuli. Carlo Sgorlon è figlio di quella civiltà contadina, presente in tutta la sua opera letteraria, che oggi appare lontana anni luce dalla modernità e dalle mode imposte dai mezzi di informazione. Era e rimane, lo scrittore friulano, una figura controcorrente, quasi anarcoide, cantore di un mondo scomparso e paladino di una civiltà agreste legata alla terra ed alla sua conservazione. Forse per queste sue peculiarità, egli è inviso al gusto contemporaneo ed alle avanguardie letterarie dei nostri tempi. Eppure, la narrativa di questo scrittore - morto a Udine nel 2009 - ha il pregio di portare all’attenzione di tutti noi uno dei problemi che ci riguarda più da vicino, ossia quello ecologico da cui dipende non solo la salvaguardia della natura, ma la nostra stessa sopravvivenza.

Carlo Sgorlon si distingue soprattutto per la sua grande capacità di saper raccontare delle storie, che dilatano lo spazio e lo moltiplicano. “Il trono di legno” è appunto la storia di un indimenticabile sognatore e visionario, Giuliano, che vive in un paesino del Friuli; da ragazzo “visse sempre con la testa piena di vento” e tutto ciò che sapeva del mondo l’aveva appreso soprattutto dai libri, che leggeva “con accanimento barbarico”. Orfano di entrambi i genitori, il suo sogno più grande era quello di riuscire a trovare il nonno paterno che nel paese tutti ricordavano come il danese, un ex marinaio e avventuriero che disprezzava il denaro, che aveva navigato in tutti i mari del mondo e poi aveva fatto perdere le sue tracce.

Non si può non rimanere affascinati da Giuliano che mentre pensava a un lavoro, nello stesso tempo continuava a immaginare il suo futuro come “una vacanza senza limiti e piena di intatte possibilità”, o simile ad un miraggio “che non spariva, ma neppure si lasciava raggiungere, spostandosi sempre più in là”; che la vita gli sembrava “come un palcoscenico sul quale da un momento all’altro sarebbe dovuta apparire qualche recita sontuosa”; che aveva la tendenza a rifuggire dal concreto perché gli piaceva “soltanto ciò che appaga la fantasia” e che da bambino immaginava che qualcuno potesse assistere invisibile alle sue prodezze, una sorta di pubblico potenziale, tanto da arrivare quasi a sentire il riso e la voce di quegli invisibili spettatori.

Altri incredibili personaggi costellano questo libro: tra tutti, la figura di Pietro, la cui vita era stata “un andare e un venire, un girare e uno smarrirsi in luoghi lontani, sempre ai confini del mondo”. Egli amava descrivere i deserti, i laghi in tempesta, le montagne piene di neve, i branchi di lupi e i boschi sterminati con immagini singolari e indimenticabili. Nei suoi racconti si mescolavano fatti veri e leggende come se non avesse ben chiara la distinzione tra realtà e fantasia, come se tendesse all’annullamento di quella differenza.  

E poi troviamo due figure di donne indimenticabili, due sorelle molto diverse l’una dall’altra, Flora e Lia, amate entrambe da Giuliano, attorno alle quali si erano polarizzati tutti i suoi sogni e i suoi desideri; la prima, “di selvatica indipendenza” aveva l’aria di essere sempre in fuga da qualcosa o alla ricerca di qualcosa, la seconda, invece, era molto più tranquilla, pervasa da un forte sentimento verso il sacro, dall’indole delicata.

Il trono di legno è un libro molto profondo, con diverse chiavi di lettura. E’ innanzitutto un romanzo di formazione che si sviluppa all’interno di tematiche molto più complesse come il passare del tempo, con quella sua natura “ambigua e stregata, che sembra far esistere e durare le cose, mentre in realtà non fa che crearci l’illusione di esse e disgregarle senza rimedio”; è un libro che affronta poi il problema, attualissimo, della scomparsa della civiltà contadina, a cui l’autore era molto legato: “ero sempre vissuto in campagna o in montagna, lontano da stabilimenti, da ciminiere o strade frequentate, e perciò non avevo avuto grandi occasioni per accorgermi che la civiltà degli artigiani e dei contadini stava sparendo, sostituita da quella delle fabbriche e dei motori. Il mondo che amavo sarebbe scomparso, e al suo posto sarebbe venuto uno che mi era indifferente”. A parlare così è Giuliano, e potrebbe essere l’alter ego di Sgorlon.

E’ un libro che si sofferma sull’importanza dell’immaginazione e della fantasia, che liberano la mente dalle angosce e rendono la vita più leggera; è un libro sulla bellezza delle parole, le cose più solide del mondo, che durano in eterno e suscitano mirabili suggestioni.

 

sabato 5 luglio 2014

Bellezza e felicità: un connubio inscindibile



 
Sono convinto che la felicità, così come il nostro buon umore, siano spesso legati all’ambiente in cui si vive, dipendano in maniera rilevante dalle cose belle da cui si è circondati oltre che dal senso civico e dall’intelligenza delle persone con cui ci si rapporta. Insomma luoghi e persone influiscono decisamente, con le proprie peculiarità, sul nostro carattere che si modifica e varia con essi. E quanto più gli stessi sono lontani da questi canoni etico-estetici, tanto più il nostro atteggiamento positivo e gioviale farà fatica ad imporsi. Tutti noi, nel bene e nel male, ci troviamo ad essere persone diverse in luoghi diversi. Se si ha la fortuna di vivere in un bel quartiere, o in un piccolo centro a misura d’uomo, con un’architettura ben inserita nel contesto urbano e ambientale, dove si dà grande spazio al verde, dove il silenzio è più forte del rumore, la nostra salute mentale e quindi il nostro equilibrio psico-fisico ne troveranno certamente giovamento. Al contrario, se la nostra esistenza la viviamo in tutt’altri ambienti, dove il degrado e l’abbandono regnano sovrani, la possibilità che il malumore  non ci abbandoni e che costituisca, anzi, la nostra caratteristica, diventa sempre più probabile.
Esistono, infatti, luoghi che ci elevano e ci migliorano; altri, invece, ci trascinano verso il basso e ci affliggono. E questo vale anche per le persone che frequentiamo: talune hanno la straordinaria capacità di arricchirci interiormente, facendoci sentire migliori, altre invece, svuotano la nostra intelligenza, ci avviliscono e - quest’ultime – prevalgono sempre rispetto alle prime. E’ innegabile che esista un legame strettissimo tra le cose belle e l’entusiasmo da una parte, e la sofferenza e le cose brutte dall’altra. Ma ahimè! In questo nostro mondo siamo sempre di più circondati da cose brutte. Siamo di continuo attorniati da comportamenti volgari e incivili, che mettono a dura prova la nostra capacità di sopportazione.
Guardare un bel panorama, ammirare un capolavoro architettonico, passeggiare lungo un viale alberato, rafforza il senso morale, fa desiderare il bene e riempie il cuore di emozione. Al contrario, stare pigiati su un autobus o su un treno di pendolari all’ora di punta, o semplicemente camminare lungo le strade sporche e rumorose di un qualsiasi quartiere cittadino, fatto di brutti palazzi, in mezzo ad un mare di macchine, tra gli escrementi dei cani, la sporcizia ed i graffiti sui muri, irrita la sensibilità, svilisce la dignità, peggiora l’umore di qualsiasi persona dotata di un minimo di sensibilità. E queste ultime situazioni in cui ci veniamo a trovare quotidianamente, anzi con cui ci scontriamo tutti i giorni e che ci spingono verso il basso – ripeto - sono sempre più numerose di quelle situazioni piacevoli che ci esaltano e ci fanno stare bene.
La felicità è legata, in primis, alla bellezza visiva: bellezza di un’opera d’arte, bellezza di un paesaggio, bellezza di un edificio. Stendhal scrisse che la bellezza è una promessa di felicità e che esistono tanti stili di bellezza quante sono le visioni della felicità. Ma la nostra felicità è legata soprattutto al contesto urbano in cui viviamo, all’edificio in cui abitiamo, alla casa che ci accoglie dopo una giornata di lavoro e che parla di noi attraverso i mobili scelti con cura e gli oggetti che danno sicurezza ed esprimono la nostra identità e la nostra cultura. E’ proprio questo aspetto, riferibile al connubio bellezza-felicità applicato all’architettura dei luoghi  ed alla qualità dell’ambiente in cui ci troviamo, che ci deve far riflettere su quanto il nostro umore, i nostri pensieri, il nostro benessere e quindi la nostra felicità possano essere influenzati in maniera positiva o negativa.