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martedì 13 maggio 2014

"La morte del fiume" di Guglielmo Petroni (1911-1993)



 
Mi piace gironzolare tra le bancarelle dei libri usati di Roma. Vi si possono trovare testi molto interessanti, spesso fuori catalogo, che non vengono più stampati perché gli editori preferiscono rincorrere comodi guadagni attraverso la pubblicazione di prodotti letterari alla moda, di facile successo, il più delle volte scritti da autori e personaggi televisivi. Giorni fa, in Piazza Esedra, ho trovato alcuni bei libri pubblicati dal Club degli Editori di Milano che ha riproposto, in edizione speciale e con la copertina originale, i vincitori del premio Strega. “La morte del fiume” di Guglielmo Petroni è, appunto, uno tra quelli (si aggiudicò l’ambito premio nel 1974).

Non conoscevo questo autore nato a Lucca, autodidatta, che prese parte alla Resistenza e finì arrestato in Via Tasso a Roma. Tale esperienza la raccontò nel suo libro più noto “Il mondo è una prigione”, che secondo Natalino Sapegno resta una delle prove più alte della letteratura di quel periodo.

La trama di questo romanzo si sviluppa intorno alle vicende di due amici, Stefano Calzolari e Sante Martelli, i quali – sradicati nella Capitale da prima dell’ultima guerra - dopo oltre 40 anni ritornano, per motivi di lavoro e quindi non per iniziativa personale, nella loro città natale (Lucca). L’impatto del ritorno è violento, traumatico, inconsolabile. Entrando in città con il bagaglio di ricordi e di immagini, si accorgono che “al posto dei vasti prati verdi sfilava una sequela di villette la cui architettura vagamente avanguardista era contornata da giardinetti cosparsi di statuine classiche, in cemento compresso”. Ma ciò che più li irrita e li mortifica, fino alle lacrime, sono le condizioni pietose del fiume Serchio, quel fiume che li aveva visti felici durante l’infanzia quando potevano affondare le labbra in quell’acqua limpida e trasparente; un luogo “dove si dimenticava la miseria”. Ora l’acqua del fiume sembrava scorrere stancamente, e i miasmi della putredine lo avvolgevano trascinando enormi mucchi di spazzatura. Chi mai, quaranta anni prima, avrebbe potuto prevedere un simile scempio naturale? La memoria, per tutto il tempo trascorso, aveva conservato un ricordo pulito e profumato di quel luogo, di quella natura incontaminata, di quella città; ora quelle immagini amate e gelosamente custodite svanivano all’improvviso e si scontravano e si spaccavano impietosamente di fronte alla triste realtà.

Aleggia nel racconto un leggero senso di malinconia “perché le cose che si ritrovano non sono più quelle, oppure noi non siamo più quelli”. Evidentemente il tempo cambia le cose e i luoghi che ci appartengono e a cui siamo legati, ma cambia anche gli uomini. E allora la ricerca del volto del passato, tra persone e luoghi che lo possano contenere, costituisce una sorta di occupazione vitale quando il tempo della giovinezza sta ormai dietro le spalle. A volte si ritorna nei luoghi dell’infanzia e della giovinezza e non si riesce a trovare più nulla: forse perché abbiamo raccontato a noi stessi cose non vere; o perché abbiamo ingentilito o enfatizzato o mitizzato troppo quel passato il cui confronto con il presente non può reggere; o perché abbiamo vissuto le cose guardandole dal di fuori anziché esserci stati dentro. E allora, come dice Sante al suo amico Stefano “non è facile recuperare così volontariamente il proprio passato, in genere se ne trae una immagine che risponde a ciò che desideriamo, non a quello che realmente è stato. Ci si crea gli alibi, i veli, i paradisi artificiali, le illusioni, col proprio passato”. Però, nonostante tutto, loro avranno il coraggio di accettarlo nella sua realtà, di non alterarlo, perché il passato è come un libro che si può consultare quando se ne sente il bisogno.

Tra le righe del libro affiora, in maniera evidente e significativa, il tema molto attuale del disastro ambientale, della cementificazione del territorio, dell’inquinamento; affiora un’Italia che – come ha scritto Ottavio Cecchi nella prefazione del libro – “è andata scomparendo sotto la colata di nuove periferie dilagate sugli orti e sulle campagne fuoriporta”. Il fiume sporco e inquinato che muore, cui allude il titolo del romanzo, simboleggia un mondo che non c’è più, un mondo scomparso, che emerge nel ricordo dei protagonisti come in una sorta di rappresentazione teatrale.

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