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venerdì 19 dicembre 2014

Il viaggio: metafora della vita e della libertà

 
Chi non legge o non ha voglia di leggere – e sia ben chiaro che nessuno è obbligato a farlo e chi non ha dimestichezza con la carta stampata non è assolutamente inferiore a nessuno - puntella sempre questa sua mancanza, di cui un po’ si vergogna, con un alibi di ferro: “purtroppo non ho tempo”. Sarebbe, infatti, poco credibile se affermasse di non leggere per i prezzi dei libri troppo alti, considerata la variegata e ampia offerta del mercato editoriale. Per esempio, ho appena finito di leggere, in contemporanea, due libriccini di poco più di cento pagine ciascuno: un racconto intitolato “Corto viaggio sentimentale” di Italo Svevo ed il romanzo “Peter Camenzind” di Hermann Hesse. Il primo, pubblicato nel corso del 2014 dalla Newton, presenta una veste grafica davvero molto accattivante e costa solo 1 euro e 90 centesimi; il secondo, invece, è un’edizione Oscar Mondadori del 1980, trovato su una bancarella dell’usato (praticamente come nuovo) a soli 2 euro. Insomma, con meno di 4 euro (una pizza mediocre costa molto di più), ho portato a casa due piccoli capolavori della nostra letteratura, anche se poco noti al grande pubblico. E’ pur vero che a volte la bellezza della lettura risiede proprio nella scoperta dei suoi tesori.
Ebbene i protagonisti dei due libri, pur nella loro estrema diversità – da una parte il tipico personaggio inetto di Svevo e, dall’altra, il sognatore, l’amante della natura che esce dalla penna di Hesse - sono accomunati dallo stesso desiderio: viaggiare. Il viaggio quale occasione per “evadere” dall’ambiente in cui vivono; il viaggio quale metafora della vita e della libertà e quindi espressione di fuga dalle costrizioni quotidiane.
 
Un breve viaggio di lavoro in treno da Milano a Trieste è, infatti, l’occasione che aspettava da tanto tempo il signor Aghios, il protagonista di “Corto viaggio sentimentale”, un libro rimasto incompiuto a causa della morte dell’autore avvenuta nel 1928. Tipico personaggio sveviano insoddisfatto e abitudinario, questo Aghios “guardava con invidia e desiderio la vita intensa che lo circondava e respingeva” e pensava che una parte di tale malessere gli venisse dalla famiglia, perché “la sicurezza di cui si gode in famiglia addormenta, irrigidisce e avvia alla paralisi”. Perciò il viaggio programmato sarebbe stato una sorta di esperimento, un gradevole svago foriero di altri futuri viaggi, che avrebbero dovuto assicurargli incontri piacevoli e un po’ di felicità. Quella felicità che - a suo dire - non poteva nascere dalla gelida relazione con la moglie e il figlio. Lui aveva sacrificato tutta la sua vita al dovere familiare, “abbandonando i suoi cari pensieri, le sue care fantasie, il vero piacere. Se lo avessero lasciato in pace, egli avrebbe percorso il mondo, non per guardarlo, ma per trovare maggiore stimolo a staccarsene, abbellirlo e offuscarlo”. Certo, abitudinario come egli era, certamente avrebbe poi sentito il desiderio di ritornare in famiglia e “rimettersi sotto la protezione della moglie e soprattutto andare a proteggere quello scervellato di suo figlio, insomma il ritorno alla sua galera”.
E se per il signor Aghios la galera è rappresentata dalla famiglia, per Peter Camenzind (alias Hermann Hesse) il personaggio che dà il titolo al libro dello scrittore tedesco naturalizzato svizzero (il suo primo successo letterario che segna l’inizio della sua carriera) la “galera” da cui vuole evadere per conoscere il mondo è il suo paese natale, Nimikon, “un villaggetto che giace su un piano obliquo triangolare incuneato fra due propaggini montane, in riva al lago”. Questo giovane aveva avuto come educatori ed amici, oltre i libri, le montagne, il lago, gli alberi e la natura tutta, che per molto tempo gli “furono più cari e più noti degli uomini e del loro destino”; era stato talmente forte il contatto unilaterale con la terra e con gli animali che, in qualche maniera, quest’ultimi lo avevano allontanato dal consorzio umano. Allora sente il bisogno di “uscire dall’aria prosaica e deprimente” del suo paesello per la gioia di essere libero, di partire per paesi lontani “per cercare la patria futura nel regno dello spirito”. I suoi viaggi diventano un fondamento della sua vita, passa gran parte degli anni camminando per mesi e settimane in vari paesi, abituandosi a lunghe marce con in tasca pochi quattrini e un pezzo di pane, pernottando spesso all’addiaccio. Si convince di non essere nato per la vita sedentaria, ma per il vagabondaggio in terre straniere. E’ all’occorrenza diventa poeta e pellegrino, beone ed eremita.

Ma così come era successo al protagonista del viaggio di Italo Svevo, che aveva sentito il bisogno di rientrare in famiglia, anche Camenzind/Hesse, dopo la sua lunga caccia alla felicità mondana, dopo la ricerca dell’arte nelle principali città dell’Italia, della Francia e della Germania, dopo essersi abbeverato di musica e di bellezze spirituali, “i miei vagabondaggi nel regno dello spirito e della così detta cultura”, avverte l’urgenza di ritornare nel vecchio nido fra i monti e il lago, felice di aver fatto le sue esperienze di vita e con la consapevolezza che un contadino come lui non poteva, a nessun costo, diventare un cittadino e uomo di mondo.

giovedì 11 dicembre 2014

Folla e demagoghi



 
In una lettera all’amico Lucilio, Seneca così scriveva: “mi chiedi che cosa tu debba specialmente evitare. Rispondo: la folla. (…) La compagnia della moltitudine è dannosa: c’è sempre qualcuno che ci rende gradevole un vizio o, senza che ce ne accorgiamo, ce lo trasmette in tutto o in parte. Più sono le persone con cui viviamo, maggiore è il pericolo…”
Lo ammetto: anch’io evito la folla. In qualsiasi contesto venga configurata, allo stadio durante una partita di calcio o in piazza in occasione di un comizio o un concerto, in un centro commerciale durante le feste natalizie o su una metropolitana all’ora di punta, la folla cessa di essere una moltitudine di individui pensanti e diventa una sorta di miscuglio appiccicoso, nevrastenico che nulla ha a che fare con la razionalità e con l’intelligenza delle persone prese singolarmente. La folla risponde solo all’istinto, condiziona coloro che la compongono e produce reazioni stupide e incontrollabili.

Prendiamo – per esempio - la folla che, munita di bandiere, tamburi, fischietti e striscioni, gremisce una piazza per ascoltare, applaudire, osannare l’uomo politico del momento. E’ la tipica manifestazione di fede che ormai abbiamo imparato a conoscere e che si ripete da sempre: applausi, slogan, canti, evviva, insomma tutto il repertorio e il modo di esprimersi di quella marea di persone accomunate dagli stessi ideali. E proprio in queste circostanze assistiamo ad uno strano spettacolo che prevede - da una parte - un palco (in un recente passato era un balcone) da cui un demagogo arringa i presenti, cerca il loro consenso con promesse altisonanti, lusingandone anche i più bassi istinti; dall’altra, cinquecentomila/un milione di manifestanti (secondo l’organizzazione) ovvero mille (secondo la questura), che esultano e credono agli asini che volano. Il demagogo si guarda bene dal dire la verità e cerca solo di ottenere un effetto corale di giubilo, invece i cinquecentomila/un milione di disgraziati (secondo l’organizzazione) o i mille (secondo la Questura) – eccitati dall’entusiasmo generale e dalle grida di evviva - non sanno di essere stati presi in giro perché la folla di cui fanno parte offusca loro il cervello. L’ipocrisia del demagogo di turno si nutre della schizofrenia della piazza: la perfidia del primo crea l’alienazione della seconda. Ieri come oggi, fatta salva qualche differenza, la folla è sempre la stessa entità amorfa, sia quando si radunava sotto un balcone che quando si dà appuntamento in piazza. Perché, come diceva Michel de Montaigne “quando gli uomini si riuniscono, le loro teste si restringono”.
Fino a quando esisteranno dei populisti che, per governare il Paese, rincorrono il consenso e l’entusiasmo irrazionale delle folle che riempiono le piazze, attraverso promesse irrealizzabili e interventi demagogici, non credo sia possibile sperare in un miglioramento dell’attuale situazione socio-economica. L’educazione politica di una nazione si ottiene facendo sì che i suoi cittadini siano in grado di leggere, studiare, informarsi, discutere, conoscere, capire; abbiano cioè gli strumenti culturali più appropriati per poter eleggere, senza condizionamenti emotivi, chi li dovrà rappresentare nelle istituzioni e nel governo del Paese, con competenza, serietà ed onestà. Solo attraverso la conoscenza si definisce la coscienza civile di una nazione. Altrimenti avremo sempre una classe politica a immagine e somiglianza di un elettorato disinformato. Con sommo piacere di chi è stato eletto. Pertanto non basta ubriacarsi di folla con una bandiera, di qualsiasi colore, e urlare slogan preconfezionati, se poi quella folla a cui si appartiene, al momento delle decisioni, non conta più nulla. Le cose da fare non reclamano l’applauso della piazza ma azioni immediate nell’interesse del Paese.

giovedì 4 dicembre 2014

Aspettando Godot



 

Vladimiro ed Estragone, i protagonisti del libro di Samuel Beckett (1906-1989), sono due mendicanti che si incontrano per caso una sera in aperta campagna; aspettano un certo Godot, di cui non sanno nulla, non l’hanno mai visto e non sono sicuri se verrà a quell’appuntamento così strano e così assurdo. Inizia una lunga attesa, che dura poco più di cento pagine, ma che potrebbe protrarsi all’infinito. Si, perché Vladimiro ed Estragone - che vengono poi raggiunti da Pozzo, un ricco castellano che porta al guinzaglio il suo servitore Lucki - nell’attesa discorrono di facezie, sostenendo a volte cose senza senso e senza un filo logico, come in una sorta di comica ricerca introspettiva di se stessi. Si ha come l’impressione che quello strano e strampalato dialogo fra due persone così bizzarre, intervallato da lunghi silenzi, possa andare avanti senza fine, fino a consumare la vita stessa dei protagonisti, nella vana attesa di questo fantomatico Godot.
Il racconto, tutt’ora rappresentato in tutti i teatri, potrebbe essere sintetizzato con una frase di Estragone, il quale rivolgendosi al suo amico Vladimiro afferma: “Non succede niente, nessuno viene, nessuno va, è terribile”.
E’ un’attesa che sembra quasi logorare e lacerare l’animo dei personaggi, disorientando nel contempo il lettore che si aspetta, da un momento all’altro, qualche evento significativo capace di dare un senso alla storia. Ma nulla di tutto questo si verifica, tant’è che i nostri eroi alla fine sembrano stanchi di aspettare e decidono di andare via.
“Allora andiamo?” dice Vladimiro ad Estragone. “Si andiamo” dice Estragone. Ma nessuno dei due si muove, e a nostra insaputa continuano ad aspettare quel Godot, che forse potrebbe migliorare la loro infelice esistenza e liberarli da quell’attesa faticosa ed angosciante che sembra quasi una condanna senza fine.
Mi viene da pensare, dopo aver letto questo strano libro, che ognuno di noi - come Vladimiro ed Estragone - si trova sempre nella condizione di dover aspettare un immaginario Godot; un Godot che a seconda dei casi e delle circostanze, può assumere le sembianze di un “qualcuno” o di un “qualcosa” che possa, come per incanto, liberarci dalla noia del tran tran quotidiano, dagli affanni del vivere di tutti i giorni e rendere più sopportabile e felice la nostra umana esistenza. Godot è la metafora dell’amore impossibile, è l’attesa di un incontro importante e significativo ma è anche l’aspettativa di un’occasione o di un evento straordinario che possano cambiare in meglio la nostra vita. Per essere estremamente materialisti, aspettare Godot è come sperare in una vincita alla lotteria. E’ l’attesa di un sogno che raramente si avvera e si materializza che procura delusioni ed amarezze, ma che si alimenta sempre con la speranza, che è l’ultima a morire.
 
 
 



venerdì 28 novembre 2014

Una nuvola per amica



Quando una persona è ferita nel fisico e soffre, si rende conto – forse per la prima volta - di quanto la vita e la salute siano valori inestimabili, mai del tutto apprezzati. Riflettevo su questo pensiero mentre mi trovavo ricoverato in un letto d’ospedale per un intervento chirurgico. Ho avuto la sensazione, in quella particolare condizione, di non essere una persona del tutto autonoma, ma un corpo inerte, insensibile, in balìa del tempo che pareva si fosse fermato e del tutto assoggettato all’infermiere di turno, che aveva libero accesso sul mio corpo. L’ospedale, sotto certi aspetti, ti rende bambino, soffoca qualsiasi pudore e ti costringe alla totale dipendenza degli operatori sanitari che si prendono cura di te. E’ un’esperienza umana che ti fornisce, comunque, l’opportunità di scoprire alcuni valori sottesi in una condizione di piena salute e ti rafforza psicologicamente, consentendoti di affrontare eventuali future avversità con uno spirito diverso.
Soprattutto nelle situazioni di sofferenza e di solitudine, l’uomo sente il bisogno di ricercare un segno di felicità, un qualsiasi diversivo che lo liberi dall’angoscia; avverte sempre l’ esigenza di aggrapparsi a qualche pensiero positivo che gli permetta di superare le avversità del momento. In tali frangenti nessun dialogo appare impossibile, qualsiasi atto diventa il centro dei suoi pensieri e dei suoi affetti: può succedere, allora, che parli con un gatto o con un albero, oppure segua, senza annoiarsi, i movimenti di una mosca che volteggia sul suo corpo o una formica che faticosamente trasporta il suo cibo nella tana. Quello che sembra del tutto insignificante in una condizione di normalità, diventa di straordinario interesse in un contesto di isolamento e di abbandono.

E così per sentirmi meglio, quel giorno, inseguivo con gli occhi qualcosa che mi riportasse alla normalità, che mi scrollasse di dosso quella deleteria indifferenza, che mi alleggerisse la sofferenza. I miei occhi andavano spesso verso la finestra che si apriva alla sinistra del mio letto, oltre la quale potevo solo immaginare quella routine quotidiana, tante volte  disprezzata. Ora la desideravo, non vedevo l’ora di poterla riprendere. Con rinnovato piacere. E’ proprio vero: riusciamo a capire l’importanza delle piccole gioie solo quando ci vengono a mancare all’improvviso. Vale per le persone, ma vale anche per le cose e le azioni di tutti i giorni. E mentre vaneggiavo su questi concetti, all’improvviso la mia attenzione è stata attratta da un insieme di nuvole bianchissime che volteggiavano nel cielo: si allungavano, si sfilacciavano, assumevano forme bizzarre, si intrecciavano. Sembravano candidi batuffoli, onde marine che svolazzavano e si susseguivano, colori immacolati che esplodevano, morbidi cuscini.
La visione di quell’improvviso spettacolo naturale ha avuto il merito di allontanare momentaneamente il  malessere che mi opprimeva; quei ghirigori, quei riccioli disegnati nel cielo che scorgevo dal mio letto d’ospedale erano diventati il mio piacevole svago pomeridiano; proprio quelle nuvole, che in altre occasioni non avrei degnato di uno sguardo,  ora mi allietavano la giornata, mi avevano finalmente riportato alla vita, alla serenità, all’ottimismo E mentre osservavo incantato quei giochi in continuo movimento - come se mi trovassi ad assistere allo spettacolo più bello del mondo – mi è venuto da pensare che solo un luogo come l’ospedale, nonostante il suo carico di sofferenze, ha la forza di farti capire l’essenza stessa della vita e l’importanza delle piccole grandi cose.

domenica 23 novembre 2014

Fuga nelle tenebre



Anche in questo libro, come nel suo precedente romanzo più famoso dal titolo “Doppio sogno”, Arthur Schnitzler (1862 – 1931) fa ricorso al monologo interiore, per descrivere i pensieri, le ossessioni, le angosce esistenziali che si annidano come un tarlo nella mente del protagonista. E tale riflessione introspettiva si rivela nel racconto talmente incisiva e straordinaria che lo stesso Freud - il padre della psicoanalisi - ne fu colpito, tant’è che usando proprio le parole coniate dallo scrittore viennese, il grande psicoanalista vedeva in Schnitzlel il suo “doppio”.

Il protagonista della vicenda narrativa - un quarantaduenne della  borghesia viennese - rientra nella sua città natale dopo aver trascorso un lungo periodo di vacanza solitaria in Italia. Gli era stata concessa per motivi di salute, al fine di recuperare quella serenità perduta e quella gioia di vivere che sembrava lo avessero abbandonato, dopo la morte prematura della moglie. E’ un uomo insoddisfatto del lavoro d’ufficio che svolge, qualsiasi divertimento lo annoia, e si sente di continuo “tormentato e perseguitato da ogni genere di stupide e stravaganti fantasticherie”. Dopo i primi mesi vissuti con serenità, ha la sensazione di non essere affatto guarito, avverte uno  strano moto dell’animo che lo rende inquieto, depresso, ansioso. Percepisce un disagio inspiegabile, non traducibile in parole, reso ancora più acuto man mano che si avvicina verso casa e verso quei ricordi di un recente passato. “Si erano sbagliati i medici o l’avevano ingannato di proposito affermando che sei mesi di vacanza gli avrebbero restituito completamente la salute? “.

Il nostro personaggio si sforza di indagare le origini nascoste di quel malessere, interroga la sua anima alla ricerca di un indizio significativo che possa liberarlo dalla quella sua crescente ansietà, da quella paura indistinta, che possa affrancarlo da certi pensieri bui e negativi che affollano la sua mente malata. Era rimasto sconvolto, in passato, da un doloroso episodio che aveva interessato un suo amico, affetto da un inguaribile attacco di follia; questa dolorosa vicenda lo aveva spinto a scrivere una lettera al fratello medico con cui lo supplicava - qualora avesse visto manifestarsi in lui i sintomi di una malattia mentale - di mettere fine immediatamente ai suoi giorni, in maniera sbrigativa e indolore, assolvendolo nel contempo da qualsiasi responsabilità.

Ma i suoi fantasmi continuano a visitarlo, gli offuscano il senno.  La sua incapacità di ricollegare con chiarezza gli avvenimenti lo tormentano sempre di più, una parte della sua passata esistenza sembra avvolta nelle buio e non riesce a districarsi bene dai ricordi del passato, tant’è che la sua mente lo ossessiona con idee assurde e maniacali. Si insinua imperiosamente in lui anche il sospetto di essere non solo l’assassino di sua moglie, ma anche della sua amante, di cui non aveva più notizie da tempo E’ vero che non esisteva alcuna prova, però più di una volta nel passato aveva avuto questi desideri malvagi, si era proposto e aveva desiderato di fare ciò che ora la sua mente gli ricordava. Nonostante tutto, il protagonista vive anche sprazzi di intensa felicità, ore di purissima gioia insieme a una donna di cui si innamora, ma questi momenti non bastano ad allontanare gli spettri delle sue paure e delle sue angosce che si agitano in lui e che albergano negli oscuri recessi dell’animo, non servono a placare la sua intima e profonda inquietudine.

E poi quella sciagurata lettera che aveva consegnato al fratello, con cui lo autorizzava a decidere della sua vita in caso di pazzia, lo perseguita, gli fa avvertire un’angoscia del tutto nuova, mai provata prima e lo spinge ad interrogarsi sulle sue reali condizioni di salute: è pazzo o è sano? ma a cosa gli serve essere sano se gli altri lo considerano pazzo?....ma i pazzi potevano essere anche gli altri...suo fratello, per esempio, che da un pò di tempo lo vede sotto una luce diversa, proprio quel fratello per il quale ha la certezza che non poteva esistere uomo al mondo che gli fosse più caro. E’ la sua ultima e delirante idea ossessiva: lo scruta in ogni occasione alla ricerca di qualche elemento che possa confermare i suoi timori, analizza i suoi comportamenti alla luce dei suoi oscuri presentimenti.

 
letto nel gennaio 2010

 

sabato 15 novembre 2014

Politici e televisione: farsa autoreferenziale



Non so voi, ma il sottoscritto, ormai da diversi anni,  si nutre di pochissima televisione. Però è noto: siamo un po’ masochisti e farsi del male è una caratteristica che appartiene  solo al genere umano. E allora, se proprio non mi va di leggere qualche buon libro o di scrivere sul blog, di cucinare o di fare la spesa, di passeggiare o di ascoltare la musica, di andare ad una mostra o perdermi in una libreria, di curiosare tra i banchi di un mercatino dell’usato o di prendere il sole sul balcone di casa, di andare in campagna a zappettare o dedicarmi al giardinaggio, di intavolare sane litigate con mia moglie o piacevoli discussioni con mio figlio…..insomma, se proprio non ho cose migliori da fare, mi capita di rimuovere le ragnatele che coprono quel 22 pollici fissato ad una parete di casa. E cosa appare, ogni volta, a qualsiasi ora? Che si discuta di musica o di calcio, di arte o di cucina, di ambiente o di economia, di cultura o di lavoro, di pace o di guerra, appare sempre lui: il politico di turno. Uno pensa: i parlamentari che siedono alla Camera e al Senato sono circa un migliaio e quindi è giusto che i cittadini che l’hanno eletti (o meglio li eleggevano…ora non succede più) abbiano la possibilità di sentirli, di vederli, di conoscerli. Macché! La pattuglia che sta sempre in televisione è composta da un numero esiguo di presenzialisti: saranno una ventina. Non di più. Potrei fare l’elenco, ma credo che chi segue un po’ i programmi televisivi li conosca uno ad uno questi esperti della comunicazione politica e del sapere universale.
E allora può accadere che il leader politico chiamato Tizio, che all’alba è stato ospite a “Uno Mattina” a parlare di economia, salti verso mezzogiorno nella trasmissione “ la prova del cuoco” a discutere di polenta insieme alla Clerici, per ritrovarsi poi la sera a “Ballarò”, facendo finta di litigare con il suo amico di partito, Caio (gli oppositori non esistono più) su un tema molto “spinoso” come “la Leopolda”; questo Caio, a sua volta, aveva fatto una breve comparsa la mattina nella trasmissione religiosa “sulla via di Damasco” a discettare sulla redenzione dell’anima e poi un salto, verso l’ora di pranzo, a “L’aria che tira” a pontificare sul “patto del Nazareno”, dove era presente anche il ministro Sempronio, il quale era stato intervistato, la mattina presto, dal TG1, quindi aveva rilasciato un breve comunicato mentre si recava a messa con la moglie, e in serata sarebbe stato ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa”, a presentare il suo ultimo libro.

Ma non è finita, perché se vi capita di incrociare di sfuggita qualche telegiornale – di qualsiasi televisione pubblica o privata – ebbene, le facce di bronzo che avevate visto disquisire a Porta a Porta…a Servizio Pubblico…a Otto e mezzo…a Piazza Pulita e chi più ne ha più ne metta (programmi che si distinguono solo per il nome), ve le ritrovate di nuovo nei vari notiziari. Ma la cosa buffa è che le immagini di repertorio – per esempio - di un Berlusconi, un Bersani, un Renzi che salgono o scendono da una macchina, o che stringono mani o accarezzano bambini – attorniati da guardie del corpo in assetto di guerra e da un nugolo di giornalisti che impugnano microfoni alla ricerca di scoop – vengono trasmesse, in maniera ossessiva anche tre/quattro volte durante lo stesso notiziario, a supporto visivo di servizi diversi. Insomma vanno bene per tutte le salse.
E’ il teatrino della politica che va in onda tutti i giorni negli studi televisivi, nei cosiddetti talk show; dove c’è poco talk e tanto show; dove le menzogne hanno la stessa dignità delle verità documentate con prove inoppugnabili; dove si consuma la quotidiana, ipocrita, miserabile celebrazione del reciproco scannamento, per il bene del Paese; dove il conduttore fa una domanda al politico, ma poi non replica alla risposta, qualunque essa sia; dove un pubblico, pagato e ammutolito, assiste in maniera passiva ad una falsa contrapposizione di idee e di intenzioni; dove i nostri cosiddetti “rappresentanti” – lo ripeto ancora – sempre gli stessi, possono esprimere qualsiasi insulsaggine, possono promettere mari e monti, possono mentire spudoratamente, perché tanto i cittadini italiani, di cui tanto si riempiono la bocca, sono ormai completamente sedati e rimbambiti davanti al televisore, incapaci di reagire e di comprendere. Mi chiedo: ma tali rappresentazioni apportano qualche contributo - non dico alla soluzione dei problemi - ma almeno alla loro conoscenza? C’è forse qualcuno che a fine trasmissione, avendo ascoltato le opposte fazioni politiche insultarsi, ricorda qualcosa di ciò che è stato discusso, dopo che gli uni hanno affermato una cosa e gli altri il suo contrario? Quando finirà questa farsa autoreferenziale?

lunedì 3 novembre 2014

Il mare non bagna Napoli



Anna Maria Ortese nacque a Roma nel 1914, però Napoli può ben considerarsi la sua vera città, dove visse per molti anni e da cui trasse la sua maggiore ispirazione letteraria. Una città dove tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato, erano così saldamente strette, confuse, amalgamate tra loro, che il forestiero che giungeva in questa città ne aveva una impressione stranissima, come di una orchestra i cui istrumenti, composti di anime umane, non obbedissero più alla bacchetta intelligente del Maestro, ma si esprimessero ciascuno per proprio conto suscitando effetti di meravigliosa confusione...”. Così scriveva nel 1950, in un suo libro di racconti intitolato “L’infanta sepolta”.

Il Mare non bagna Napoli – che si aggiudicò il premio speciale per la narrativa nell’edizione del Viareggio 1953 – è una raccolta di 5 brevi racconti che hanno come tema narrativo le difficili condizioni socio-economiche della Napoli dell’immediato dopoguerra. Un mondo, quello napoletano degli anni ‘50, che “è meglio non vederlo che vederlo”, come sostiene una povera madre rivolta alla figlia cieca, nel primo racconto che si intitola “Un paio di occhiali”.

E ciò che era meglio non vedere, lo racconta – anzi lo denuncia - questa scrittrice poco ascoltata, invisa all’élite culturale del suo tempo,  la quale, girando per le vecchie e poverissime vie di Napoli ebbe modo di soffermarsi su quella realtà estremamente indigente e diseredata. Nessuna parola può valere la sua dura, spietata, lucida, toccante narrazione, di cui riporto un piccolo e significativo assaggio tratto dal terzo racconto, “Oro a Forcella”:

“…Come già a Forcella, non avevo visto ancora tante anime insieme, camminare o stare ferme, scontrarsi e sfuggirsi, salutarsi dalle finestre e chiamarsi dalle botteghe, insinuare il prezzo di una merce o gridare una preghiera, con la stessa voce dolce, spezzata, cantante, ma più sul filo del lamento che della decantata allegria napoletana. Veramente era cosa che meravigliava, e oscurava tutti i vostri pensieri. Sgomentava soprattutto il numero dei bambini, forza scaturita dall’inconscio, niente affatto controllata e benedetta, a chi osservasse l’alone nero che circondava le loro teste. Ogni tanto ne usciva qualcuno da un buco a livello del marciapiede, muoveva qualche passetto fuori, come un topo, e subito rientrava. (…) Alla base del vicolo, come un tappeto persiano ridotto ora tutto grumi e filamenti, giacevano frammenti delle immondizie più varie, e anche in mezzo a queste sorgevano pallide e gonfie, oppure bizzarramente sottili, con le grosse teste rapate e gli occhi dolci, altre figurette di bambini. Pochi quelli vestiti, i più con una maglietta che scopriva il ventre, quasi tutti scalzi e con dei sandaletti di altra epoca, tenuti insieme a furia di spago. (…) Cercare le madri, appariva follia. Di tanto in tanto ne usciva qualcuna da dietro la ruota di un carro, gridando orribilmente afferrava per il polso il bambino, lo trascinava in una tana da cui poi fuggivano urli e pianti, e si vedeva un pettine brandito in aria, o una bacinella di ferro appoggiata su una sedia, dove lo sfortunato era costretto a piegare la sua dolorosa faccia. Faceva contrasto a questa selvaggia durezza dei vicoli, la soavità dei volti raffiguranti Madonne e Bambini, Vergini e Martiri, che apparivano in quasi tutti i negozi di San Biagio dei Librai, chini su una culla dorata e infiorata e velata di merletti finissimi, di cui non esisteva nella realtà la minima traccia. Non occorreva molto per capire che qui gli affetti erano stati un culto, e proprio per questa ragione erano decaduti in vizio e follia; infine, una razza svuotata di ogni logica e raziocinio, s’era aggrappata a questo tumulto informe di sentimenti, e l’uomo era adesso ombra, debolezza, nevrastenia, rassegnata paura e impudente allegrezza. Una miseria senza più forma, silenziosa come un ragno, disfaceva e rinnovava a modo suo quei miseri tessuti, invischiando sempre più gli strati minimi della plebe, che qui è regina. Straordinario era pensare come, in luogo di diminuire o arrestarsi, la popolazione cresceva, ed estendendosi, sempre più esangue, confondeva terribilmente le idee all’Amministrazione pubblica, mentre gonfiava di strano orgoglio e di più strane speranze il cuore degli ecclesiastici. Qui, il mare non bagnava Napoli. Ero sicura che nessuna lo avesse visto, e lo ricordava…”

E’ una scrittrice ormai dimenticata, che meriterebbe maggiore attenzione, soprattutto per la sua grande libertà di pensiero. Le sue idee non sempre erano in linea con il mondo intellettuale dell’Italia dell’epoca, che lei criticò aspramente infischiandosene delle reazioni negative. Subì, in vita, un forte ostruzionismo e finì per essere osteggiata ed emarginata un po’ da tutti; morì a Rapallo nel 1998, in solitudine e povertà, con il vitalizio della legge Bacchelli che, come sappiamo, aiuta economicamente ancora oggi gli artisti in difficoltà.

sabato 25 ottobre 2014

Gli inetti al potere



Quando mi capita di vedere in televisione certi ministri e certi parlamentari ( a dir la verità cerco sempre di evitarli, per non rattristarmi), i quali dall’alto dei loro prestigiosi e strapagati incarichi istituzionali sciorinano in ogni occasione - con saccenteria e senza alcuna vergogna - le solite ovvietà spacciandole per grandi competenze, non posso non pensare a quello che diceva un poeta cinese, un certo Su Shih della dinastia Song, vissuto intorno all’anno 1100: “ogni famiglia, quando nasce un bimbo, lo vuole intelligente. Io con la mia intelligenza ho sofferto e mi sono rovinato tutta la mia vita. Spero solo che il mio bimbo sia stupido e ignorante: coronerà così una vita placida diventando ministro”.
Evidentemente, tale assunto avrà ispirato anche i genitori di alcuni degli attuali politici e amministratori pubblici, visto che quest’ultimi- da bambini stupidi e ignoranti quali erano - hanno potuto coronare la loro vita diventando ministri senza soffrire, così come si augurava per il figlio quel poeta cinese della dinastia Song. Stupidi si, ma ricchi e felici, considerato che lo stipendio medio lordo di un parlamentare sfiora i 20.000 euro. E già, perché la stupidità, la cialtroneria, la scarsa intelligenza, oltre a costituire “titoli di merito” per scalare le vette più alte della politica, pare che preservino pure dalle sofferenze e dagli affanni della vita. Ma non era solo il poeta cinese a pensarla così. C’è un famoso passo della Bibbia (nel libro di Qoelet) che recita: “grande sapienza è grande tormento; più intelligenza avrai, più soffrirai”. Vi risulta che i nostri politici, da come ci governano, siano intelligenti? O che abbiano grande sapienza? O che soffrano? La stupidità, l’incompetenza, l’ottusità dei loro cervelli sono una sorta di vaccino che li rende immuni da qualsiasi difficoltà dell’esistenza, da qualsivoglia angoscia esistenziale. Osservateli questi governanti nelle varie trasmissioni televisive: sono sempre sereni e felici; sorridono sempre, soprattutto le ministre. Essi restano imperturbabili anche di fronte ad una sciagura, anche quando un’alluvione distrugge un intero paese, anche quando le famiglie si ritrovano senza lavoro: loro non sono mai responsabili di quanto accade. E se c’è una responsabilità, ebbene questa appartiene sempre a qualcun altro.

Il politico, anche dinanzi a domande sgradevoli che lo inchiodano alle proprie responsabilità (a dire il vero di siffatte domande, da parte di un giornalismo sempre più asservito al potere, ne riceve davvero poche), non si scompone minimamente e sorridendo, ci illumina dicendo che “il paese ha bisogno di riforme, che non possono più essere rinviate”; ci spiega che “senza crescita economica le diseguaglianze sociali aumenteranno”; ci chiarisce che “ è disponibile al confronto con l’opposizione e le parti sociali”; ci fa capire che “ affermare che i politici dovrebbero prendere quanto gli altri lavoratori è solo demagogia”. E si potrebbe continuare all’infinito con queste frasi fatte e con tutte le altre banalità che vanno bene per ogni situazione.
Sconfiggere verbalmente il politico è un’impresa davvero impossibile. Odiarlo non serve a nulla. Dileggiarlo col sarcasmo e l’ironia non scalfisce le sue “certezze”, le sue ardite autoassoluzioni. Lui rimane impassibile, freddo, distaccato: ha sviluppato – dopo tantissime legislature e infinite battaglie verbali - una scorza talmente dura che difficilmente si piega. Tutto gli scivola addosso. La sua forza vincente sta nel fatto di non vedersi come noi lo vediamo, cioè incapace, né di dubitare mai di se stesso. Colpito dalle nostre invettive o dagli strali (finti) del giornalista di turno, resterà sempre in bilico, senza mai cedere, roteando all’infinito su se stesso e mostrando un ghigno folle e insulso, che lo libera da qualsiasi incertezza, da qualunque scrupolo di coscienza. E noi cittadini soffriamo in preda alla più cupa frustrazione.

Ricordate il principio di Peter, noto anche come principio di incompetenza?. E’ una tesi che sarebbe paradossale se non fosse vera e che riguarda le dinamiche di carriera all’interno di un’organizzazione gerarchica, formulata da uno psicologo canadese, tale Laurence Peter. Secondo me questo principio viene applicato anche in politica, altrimenti non si capisce perché ci siano tanti incompetenti. Peter afferma che “ in qualsiasi gerarchia, ognuno tende a salire di grado, finché non raggiunge il suo livello di massima incompetenza; pertanto ogni incarico elevato è destinato a finire nelle mani di un incapace”. In altre parole, se un cittadino svolge molto bene la sua attività lavorativa – facendo l’impiegato o l’avvocato o il medico, ecc. – passo dopo passo questo lavoratore farà la sua bella carriera all’interno dell’organizzazione in cui presta la sua opera. Scalando questa piramide, otterrà incarichi con un grado di difficoltà sempre superiore alle sue effettive competenze e capacità (per esempio verrà promosso Ministro della Repubblica). A questo punto la sua carriera avrà raggiunto l’apice e, pur essendo totalmente incompetente, non verrà mandato via ma conserverà quella poltrona per la quale si è dimostrato inadatto. E se proprio dovrà essere rimosso, allora gli verrà dato un incarico superiore. Così funziona la politica in Italia.

lunedì 20 ottobre 2014

Un omaggio agli innamorati dei libri



Non conoscevo lo scrittore ceco Bohumil Hrabal, morto a Praga nel 1997: sono rimasto attratto inizialmente dal bel titolo del suo libro “Una solitudine troppo rumorosa”. Succede quando mi capita tra le mani un testo di cui non so nulla: il titolo è il primo elemento che mi colpisce e mi spinge a  sfogliarlo; oppure a scartarlo.

Il libro è un monologo triste e crudele, tenero e amaro nello stesso tempo, poetico, con venature di piacevole ironia.

E’ la mia love story, così la chiama Hanta, il protagonista del romanzo, un uomo solitario che da 35 anni lavora in uno scantinato di un vecchio palazzo di Praga pressando carta vecchia e libri mandati al macero e bevendo ettolitri di birra, forse per dimenticare la sua condizione di solitudine. “..in questi trentacinque anni ho bevuto tanta birra che formerebbe una piscina da cinquanta metri…”.

Un libro, sotto certi aspetti, autobiografico, duro e appassionato: lo scrittore ceco, infatti, per un breve periodo della sua vita aveva lavorato ad una pressa meccanica ed anch’egli, come il personaggio del suo romanzo, era un grande bevitore di birra.

Hanta si nutre di libri, come i topi che affollano lo scantinato in cui lavora “tutti i topi hanno in comune con me il fatto che si nutrono di caratteri, ciò che trovano più saporito sono Goethe e Schiller rilegati in marocchino” e prima di distruggerli - trasformandoli in parallelepipedi pressati che lui ama avvolgere e ricoprire con riproduzioni di celebri dipinti, quasi a volerli ingentilire e dare loro un tocco artistico - quei libri li legge, li sfoglia, li accarezza, beve i pensieri in essi contenuti. “...Contro la mia volontà sono istruito e neppure so quali pensieri sono miei e provengono da me e quali li ho letti, e così in questi 35 anni mi sono connesso con me stesso e con il mondo intorno a me, perché io quando leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come una caramella, come se sorseggiassi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene “ .

I libri più importanti, quelli che meritano di essere salvati perché contengono idee e pensieri eterni, Hanta li salva dalla distruzione ed ogni sera, quando ritorna a casa, riempie la sua borsa di quel prezioso carico. E’ una sorta di premio che si concede quotidianamente. La sua casa è stracolma di libri, accatastati ovunque c’è spazio libero, incombono in ogni anfratto vitale: in cantina, in soffitta, in cucina, nel bagno, nelle camere. Una enorme biblioteca, con testi che arrivano fino al soffitto: “due tonnellate di libri ho portato a casa in questi trentacinque anni”. Ama i volumi che rappresentano il sapere, la conoscenza e in essi si immedesima, così come ama il suo lavoro e la sua vecchia pressa meccanica. E’ soddisfatto e, anche se puzza di birra e di sporcizia, è felice perché in borsa porta a casa sempre quei libri salvati dai quali si aspetta che a sera da loro apprenderà qualche cosa che ancora non sa. Predilige i libri di filosofia, quindi Erasmo da Rotterdam, Kant, Schiller, Nietzsche. Il nostro personaggio vive in una sorta di solitudine popolata di pensieri, quasi a voler immedesimarsi nell’eternità che solo le grandi opere dell’ingegno umano sanno dare, si astrae dalla realtà, ha un continuo dialogo con i grandi, che hanno saputo lasciare una traccia importante del loro passaggio attraverso quei libri che lui ha cura di salvare dal macero, dalla insensibilità e dalla negligenza degli uomini. Un omaggio ai libri e alla lettura.

Ma i tempi cambiano e il protagonista, dopo trentacinque anni di lavoro, deve fare i conti con la nuova realtà produttiva efficiente e inumana. Il suo lavoro amorevole e artigianale è destinato a trasformarsi, a modificarsi. Era abituato a lavorare alla vecchia maniera, con le mani e senza guanti, a puzzare, a bere birra e a salvare i suoi libri che tanta gioia gli avevano donato in tanti anni di lavoro e non riusciva a comprendere ed accettare i nuovi macchinari, le nuove logiche produttive. Credeva che quella vecchia pressa meccanica andasse in pensione con lui, che non lo abbandonasse mai. Pertanto, all’arrivo di due nuovi giovani operai, vestiti elegantemente con guanti e berretti americani arancioni e in tuta azzurra - espressione del nuovo potere dominante e industriale, indifferente alla cultura e ai libri, ma attento invece ai ritmi produttivi - il protagonista si culla nella vana speranza che la sua vecchia pressa testimone di tante ore passate insieme “avrebbe scioperato, si sarebbe data malata”. Ma così non è…
 

letto nel gennaio 2010

domenica 12 ottobre 2014

Applausi al morto



Viviamo in una società dove i mezzi di informazione – in primis la pubblicità - celebrano, incessantemente, il trionfo del corpo sano e giovane, rigettando qualsiasi immagine e qualsivoglia riferimento legati alla fine naturale di quel corpo; rifiutano ogni aspetto che possa far pensare alla morte. Anche gli anziani vengono presentati in atteggiamenti giovanili – magari con una bella e forte dentiera che frantuma con un solo morso una mela o con un apparecchio acustico per sopperire alla perdita dell’udito -  però sempre scattanti e propositivi, come se davanti a loro avessero ancora un’intera vita da consumare. La televisione, poi, si rivolge di continuo a un telespettatore che è essenzialmente un consumatore - qualunque età egli abbia – e gli parla di vita e mai di morte. Come se il trapasso non esistesse e non facesse parte della vita.
Eppure – nonostante blandisca persone sempre più passive, disposte a farsi adescare senza reagire - la TV ci ha ormai abituati a guardare anche la morte. Anzi lo spettacolo della morte.

Io credo che nessuno, prima dell’avvento della televisione, abbia mai assistito a tanti omicidi e a tanti funerali - tra film e orrori legati alla cronaca nera di tutti i giorni – quanti ne sono riservati a un normale cittadino della nostra epoca. Da un lato c’è il tentativo di fuggire dalla morte, di nasconderla agli occhi dei telespettatori, di evitarla in tutti i modi, mentre dall’altro irrompe ineluttabilmente sullo schermo televisivo come un vero spettacolo. La morte viene mostrata nelle sue varie ed innumerevoli  rappresentazioni; domina la fiction, naturalmente, ma l’informazione di sciagure, di massacri familiari, di efferati omicidi in questi ultimi tempi non sono da meno ed occupano sempre più spesso le prime pagine dei giornali e degli spettacoli televisivi di intrattenimento. E’ quasi sempre una morte drammatica, per uccisione o per incidente, condita con dovizia di particolari davvero raccapriccianti. Tanto per fare un esempio: se un aereo precipita in mare causando la morte di tutti i passeggeri, non ci sarebbe la necessità di indugiare su macabri particolari, perché ognuno di noi è in grado di immaginare la tragica sorte toccata a quelle persone. Tuttavia, pur di rendere lo spettacolo più forte e morboso, la telecamera si sofferma sui resti umani che galleggiano sull’acqua e quelle immagini vengono date in pasto ad un pubblico sempre più vorace ed esigente.
Tragedie che generano angoscia ma nello stesso tempo ci tranquillizzano perché non ci toccano direttamente, le osserviamo sgomenti ma ne usciamo liberati perché sono morti che appartengono ad altri.

Ma la cosa più aberrante si verifica dopo, a disgrazia avvenuta, quando tutti i mezzi di informazione ne hanno diffusamente parlato: succede che orde di curiosi – spinti dalle immagini televisive e dagli innumerevoli spettacoli pomeridiani dedicati all’evento - si rechino come in una gita domenicale sui luoghi del disastro, o dell’incidente, o dell’efferato delitto passionale a caccia di morbose curiosità, immortalando l’avvenimento con fotografie e filmini da mostrare ai loro amici e familiari che non hanno avuto questa possibilità. E se è presente anche la telecamera, allora qualche attimo di notorietà è assicurato. Potranno salutare con la manina e testimoniare la loro effettiva presenza sul luogo dello spettacolo.
Io di fronte a queste oscene esibizioni mi domando sempre: ma è la televisione a creare interesse per questo genere di informazione, oppure tale comportamento è dettato da un normale bisogno dell’animo umano nell’immedesimarsi in tragedie che si ripetono, purtroppo, da sempre? Sono i giornalisti con i loro servizi e con le loro telecamere impietose che fanno di una disgrazia uno spettacolo televisivo, o sono piuttosto i telespettatori che cercano emozioni sempre più forti? E come qualsiasi spettacolo che si rispetti – in presenza di una telecamera - non possono mancare gli applausi: e sono quelli che vengono tributati immancabilmente alla bara che esce dalla chiesa. Ma che significato hanno gli applausi durante un funerale? L’applauso dovrebbe sottolineare un momento di gioia non di dolore, è rivolto ai vivi non ai morti. Ma è possibile che per esprimere partecipazione e dispiacere si debba applaudire come allo stadio o al teatro? Non sarebbe un comportamento più rispettoso restare in silenzio?

Mi vengono in mente le parole scritte da Antonio Scurati nel suo romanzo “Il sopravvissuto”: “Terminata la messa funebre, un applauso fragoroso e assurdo accolse le sette bare all’uscita della chiesa. In verità non c’era nulla di così sorprendente in quel battimano rivolto a dei cadaveri. Educata da milioni di ore trascorse davanti alla televisione, quella gente reagiva di fronte a ogni evento dell’esistenza, fosse anche gravemente luttuoso, con l’unico comportamento richiesto al pubblico televisivo: l’applauso”.

sabato 4 ottobre 2014

Rendere bello l'ospedale serve al bene



“…Un ospedale, oltre all’efficienza delle strutture, deve proprio contemplare una dimensione affettiva che compensi il malato di ciò che ha perduto, non solo la salute, quindi, ma i famigliari, gli affetti, che sono essenziali. E’ la cosa più importante: la dimensione umana, riflesso di quella umanistica. (…) Ma non basta che una cosa funzioni: occorre anche che una cosa sia bella, che corrisponda a un’esigenza interiore, e questa esigenza non è appunto quella della mera funzionalità. Il funzionalismo e il razionalismo hanno molto spesso ridotto l’uomo a una macchina che alla fine del lavoro deve essere parcheggiata come un’automobile in un deposito per essere umani. Questo ha distrutto il senso stesso dell’architettura. (…)
La sanità è una condizione normale, che non avverti. La malattia non la puoi scegliere: ti accade, è una violenza che tu subisci senza poter far nulla. Non puoi dire: scelgo tra l’essere sano e l’essere malato. La sanità ti accade e non la senti, la malattia ti accade e la senti. (…)

L’ospedale, come la prigione, è un luogo che cristianamente mira alla riparazione, alla possibilità (ma questo non capita quasi mai in prigione…) che uno ne esca migliorato. Non un luogo della scelta, ma della necessità. Quindi, la bellezza è un sostegno che consente di renderti più disponibile a guarire, a non lasciarti prendere dalla malattia, a non abbandonare la resistenza, a non lasciarti morire. L’ambiente, illuminato dalla bellezza, ti mette in buona disposizione rispetto alla guarigione. Ecco perché abbiamo detto, citando autori del passato, che un ospedale deve essere bello come una reggia, tale che anche un re sano possa andarci e starvi bene come fosse in vacanza. Se in una stanza di ospedale c’è un quadro o una piccola biblioteca, venti o trenta libri, il malato vede ricrearsi intorno a sé un ambiente che ha a che fare con la normalità, con la quotidianità, con il benessere. Rendere bello l’ospedale serve, cioè, al bene. E’ quello che hanno fatto le strutture ospedaliere del Quattrocento in poi. Perché il tema dell’assistenza è un tema sociale, civile. E’ la risposta della società al bisogno individuale urgente, improvviso, come è la malattia. La risposta della solidarietà umanistica. Se l’ospedale è un luogo di costrizione, quella costrizione deve essere allora temperata dalla bellezza. Diceva Palladio, delle sue architetture, che dovevano essere tanto comode quanto belle. “Perfettamente commode e onestamente belle”. E un ospedale, perciò, dev’ essere tanto comodo quanto bello, per le ragioni che ho appena esposto. Ricordiamo però che non si tratta di una bellezza messianicamente intesa, la bellezza estrema di una visione consolatoria, come in Morte a Venezia di Thomas Mann, quando il protagonista sta morendo e vede in lontananza il giovane Tadzio che gli piaceva…La bellezza negli ospedali è una bellezza funzionale alla sanità, al bene, alla guarigione. Uno strumento per un fine. Contro la fine”

(tratto da “Il bene e il bello” di Vittorio Sgarbi)

mercoledì 1 ottobre 2014

Fuga dal mondo






Ho letto il libro di Vittorino Andreoli “Fuga dal mondo”; questa lettura mi ha confermato che l'autore, oltre ad essere un grande psichiatra è anche un ottimo scrittore, il quale  probabilmente porta anche nei suoi libri e, quindi, nella finzione letteraria, la sua esperienza di lavoro, a contatto con la sofferenza e con il mondo della follia.
Io credo che le tematiche esistenziali trattate da Andreoli in questo libro siano anche le sue ossessioni e, attraverso questo suo originale romanzo, rappresenta la “sua” interpretazione della condizione umana intessuta di solitudine….paura….follia…malattia. Le percezioni che  ne ricaviamo, leggendolo, a volte non sono piacevoli, ci fanno male, in qualche maniera ci feriscono. Sono comunque dentro di noi e l’evocazione che ne fa lo scrittore attraverso il suo racconto turba la nostra coscienza, rattrista il nostro animo.
E’ pur vero che non possiamo considerare un buon libro solo quello che riesce a farci ridere, che ci mette di buon umore, che parla della bellezza e delle cose piacevoli della vita…esistono purtroppo anche altri aspetti della nostra esistenza che fanno riferimento alla tristezza, alla solitudine dell’uomo, alle sue ossessioni, alle sue paure. E’ come se dicessimo che sono belli solo i quadri che rappresentano un bel paesaggio, un bel ritratto e non quelli, invece, che ricordano la vecchiaia, la paura, la solitudine.
Intanto credo che il libro, in qualche maniera, può anche, “disturbare”,  creare disagio, prima di tutto perché in esso non c’è “amore” nella sua accezione nobile del termine. Non contiene quell’ottimismo che rende più leggera la vita e più sopportabile il dolore.
Può disturbare per esempio la nostra sensibilità quel continuo richiamo alla morte e ai cimiteri e poi… quella casa a forma di “Cubo” che il protagonista si fa costruire sull’orlo di un precipizio, simbolo delle distanze che vuole mantenere con il mondo intero, simbolo di solitudine e di incomunicabilità. Può disturbare quella sofferenza che aleggia sul libro, condizione insanabile e immodificabile e quella lunga disquisizione finale sulla vita e sulla morte.
 
letto nel dicembre 2009
 
 
 

mercoledì 24 settembre 2014

I belli e i brutti



Nella società dello spettacolo in cui siamo immersi, la bellezza è diventata una sorta di obbligo sociale; mi riferisco, in primis, alla bellezza di un corpo e poi a quell’altra bellezza, molto più articolata e complessa, che si addice ai riti ed ai comportamenti sociali. Ricordate quando un tempo si diceva che l’importante è essere belli dentro? E’ un’ affermazione ormai desueta, perché l’uomo moderno, oggi, vuole essere soprattutto bello fuori. E’ uno dei bisogni primari della nostra epoca: essere desiderati. E ammirati. E come ben sappiamo si desidera ciò che è bello non ciò che è brutto.  In questa direzione ormai spingono tutti i mezzi di informazione, in particolare la televisione e la pubblicità quando celebrano l’efficientismo di un corpo sempre giovane e attraente.
Il modello di bellezza vagheggiato è quello che troviamo esposto nelle riviste patinate, è quello che si vede al cinema e in televisione. Sono gli ideali di bellezza proposti dal mondo dei consumi e del mercato. Ma per nostra fortuna i brutti esistono ancora. E godono della mia solidarietà. D’altra parte è come andare allo stadio a vedere una partita di calcio tra il Brasile e la Scafatese: io tiferei per quest’ultima. Non si possono sostenere sempre i belli; diamo un po’ di sostegno morale a chi ha avuto molto poco da madre natura. E in questo senso i brutti, senza aver commesso alcuna colpa, hanno molto da rammaricarsi nei confronti di un destino a loro avverso.

Io comunque non riesco ad immaginarmi una persona brutta: è forse quella con dei lineamenti non perfetti? col naso storto e senza denti? oppure quell’altra con la testa troppo grande e le orecchie a sventola? La stessa definizione di “brutto” è stata nei secoli passati ampiamente discussa da scrittori e filosofi, però non si è mai arrivati ad una descrizione che andasse bene per tutte le situazioni. Se proprio devo pensare ad un corpo sgraziato e disarmonico, allora vado a cercarlo in un quadro di Picasso, il maggiore esponente di quel movimento pittorico chiamato “cubismo”, il quale - rivoluzionando il modo di dipingere  – rappresentò soggetti spigolosi, deformati, mostruosi. Eppure quelle immagini, a dispetto dello la loro evidente deformità, appaiono artisticamente belle e procurano un piacere simile a quello che può destare un dipinto di Raffaello o di Caravaggio. Segno evidente, questo, che nel brutto c’è sempre qualcosa di bello. Basta saperlo individuare. Oppure basta guardare il mondo con occhi diversi e ciò che apparentemente sembra poco attraente può diventare appetibile.
E’ chiaro, però, che alla bruttezza non ci si rassegna e si fa di tutto per nasconderla: magari dietro l’intelligenza, un buon carattere, la simpatia, l’ironia: si cerca, in altre parole, di sopperire ad una mancanza estetica con una qualità morale, di conquistare gli altri perfino con una diversa abilità piuttosto che con il fascino di un bel viso. C’è da dire che mentre per gli uomini questo espediente può funzionare e risultare vincente, non altrettanto può dirsi per le donne. Infatti un uomo può essere anche la brutta copia di un Adone, ma se dotato di una colta intelligenza, risulta (agli occhi di una donna) quasi sempre interessante e affascinante; al contrario una donna (agli occhi di un uomo), seppure ugualmente intelligente, è improbabile che possa suscitare attrattiva se non rispetta determinati canoni estetici. Il suo incanto – secondo un pregiudizio difficile a morire - scaturisce solo dalla sua bellezza fisica. Si vuole la donna bella e oca, forse perché quella bella e intelligente suscita paura e soggezione.
 
E’ innegabile, però, che anche la bruttezza abbia un suo potere di seduzione e di persuasione, almeno in letteratura. Pensiamo, per esempio, alla bruttezza di “Fosca”, il personaggio femminile dell’omonimo romanzo di Igino Ugo Tarchetti: “tutta la sua orribilità era nel suo viso”. Tuttavia questa donna, grazie alla sua intelligenza superiore, riuscirà a conquistare il suo uomo perché era capace di illudere, con una tale forza passionale, da far dimenticare la sua “orribilità”. Ci troviamo nell’Ottocento: oggi, probabilmente, un intervento di chirurgia estetica avrebbe posto fine alla sua bruttezza.

martedì 9 settembre 2014

Pronto, dove sei?...io sono sul treno.



Mi trovo sul treno sulla direttrice Roma-Napoli: amo in maniera particolare questo mezzo di trasporto. Più della macchina. Attorno a me tutti hanno un telefonino o uno smartphone (non so quale sia la differenza) tranne il sottoscritto.

Devo dire che a volte mi sento un alieno, uno che vive fuori dal mondo; tantissime altre volte, invece, sono felice di esserlo, e di appartenere ad una piccola schiera di privilegiati, non ingabbiati nel sistema isterico della telefonia mobile. Mi sento più libero: gli altri li vedo pedinati, seguiti, spiati.

Di fronte a me siede un tizio dall’aria mesta, che cerca di darsi un contegno, una certa importanza, attraverso l’esposizione, in bella mostra sul tavolinetto dello scompartimento, dei suoi tre cellulari di colore e grandezza diversi.

Il silenzio regna sovrano nello scompartimento, mentre il treno procede veloce la sua corsa, un piacevole silenzio che incoraggia la lettura e la meditazione. Inoltre, poter ammirare il panorama dal finestrino di un treno, per me, costituisce sempre un piacere raro. Questa pace dura poco, perché all’improvviso inizia una sinfonia di trilli che tocca tutte le possibili sonorità: Mozart, Leoncavallo, il canto del passerotto, il valzer, il chicchirichì del gallo, le campane a festa. Addirittura il fischio del treno. Ciò, mentre l’altoparlante interno avverte gentilmente la clientela di abbassare la suoneria dei cellulari, per non disturbare gli altri viaggiatori. Mi chiedo: ma chi sono questi altri viaggiatori?

Mi accorgo che il mio dirimpettaio (quello con i tre telefonini colorati) – che nel frattempo leggeva uno di quei giornaletti per semianalfabeti che distribuiscono gratis nelle stazioni – comincia a dare segni di impazienza: nessuno lo chiama, nemmeno per chiedergli se il treno è partito. Si sa che il servizio ferroviario lascia molto a desiderare. Ogni tanto, sempre più nervoso, alza lo sguardo dal “giornale” per vedere se c’è qualche segnale, invidioso degli altri passeggeri che già sono stati tutti chiamati e che hanno intavolato dotte disquisizioni sul più e sul meno. C’è una signora di una certa età, per esempio, tutta ingioiellata, che sfoggia pure una vistosa minigonna, la quale sta chiamando tutte le sue amiche per dire loro che, prima di salire sul treno, ha incontrato – pensate un po’ - Gigi Marzullo. E gli ha detto buongiorno. E lui ha risposto buongiorno. Che signora fortunata!

Osservo il tale con i tre telefonini colorati: ha lo sguardo perso nel vuoto. E’ in piena crisi di astinenza; e allora stanco di aspettare, afferra il primo apparecchio che gli capita (quello di colore rosso), compone il numero e chiama soddisfatto e sollevato: “pronto, dove sei?...io sono appena partito...sono sul treno”.

Dopo una lunga e “interessantissima” telefonata che mi son dovuto sorbire  e su cui stenderei un velo pietoso, ho appreso che l’interlocutore del mio occasionale compagno di viaggio si trovava sullo stesso treno: però due vetture più avanti. Per fortuna – ho pensato – che esistono i telefoni cellulari!

sabato 6 settembre 2014

Ulivi, sempre ulivi...


Posto, di seguito, un mio articolo apparso su http://www.lamandragola.org/

Chi percorre le strade del Cilento – sia quella che costeggia il mare da Agropoli fino a Sapri, passando per Pisciotta e Palinuro, sia le vie dell’entroterra che si inerpicano da sud a nord-ovest e attraversano le colline che gravitano intorno al Monte Stella e al fiume Alento, raggiungendo le località dei Monti Alburni fino alla gola del fiume Calore – ha il piacere di ammirare, lungo tutto il percorso, una distesa di bellissimi uliveti adagiati su dolci declivi che guardano verso il mare. Sono gli stessi ulivi che avevano ispirato il grande poeta Giuseppe Ungaretti, quando nel 1933, durante una sua visita nel territorio cilentano, scriveva: “Ulivi, sempre ulivi! In mezzo sono ulivi, come pecore a frotta”. Nessuno, meglio di un poeta, poteva esprimere un’immagine di tale forza evocativa per rappresentare le caratteristiche di un territorio come quello del Cilento.
La storia di intere famiglie contadine è legata indissolubilmente a queste piante, molte delle quali secolari, da cui hanno tratto il loro sostentamento, soprattutto nei secoli passati, attraverso la produzione di un ottimo olio. Secondo la leggenda, le prime piante di olivo furono introdotte nel Cilento dai Focesi (popolazione proveniente dall’antica Grecia) che – come scrive Erodoto – furono i primi ad intraprendere lunghi viaggi marittimi per sfuggire alla pressione militare dei Persiani; durante la permanenza in questo territorio fondarono, nella seconda metà del VI sec. A.C., l’antica polis Elea-Velia e vi piantarono l’olivo.

Esistono molte varietà autoctone di piante attualmente coltivate e tramandate da secoli, tra cui si distinguono: il leccino, la frantoiana, la rotondella e la pisciottana, le cui caratteristiche si sono ormai rivelate le più adatte alla coltura e all’ambiente naturale circostante. Soprattutto le ultime due (la rotondella e la pisciottana) essendo le più diffuse (si trovano maggiormente nel basso Cilento, tra Agropoli e Sapri) potrebbero essere le varietà introdotte dai Focesi nel VI sec. A.C., considerata anche la dimensione che presentano alcuni esemplari. Ne viene estratto un olio extravergine di altissima qualità, dal gusto delicato e fresco, la cui acidità è quasi sempre inferiore all’1%. Grazie a queste sue proprietà organolettiche e in virtù di appropriate e controllate fasi di lavorazione – raccolta (svolta a mano e con l’ausilio di mezzi meccanici), trasporto e conservazione – a partire dal 1998 ha acquisito il marchio “DOP Cilento” che ne certifica la qualità e ne garantisce la tutela. In contemporanea, è stato costituito un Consorzio i cui produttori sono rappresentativi della maggior parte dei Comuni del Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni, con oltre 18 mila ettari di terreno dedicato a tale produzione. Naturalmente l’olio del Cilento costituisce l’elemento basilare della famosa dieta mediterranea. Va detto, al riguardo, che della bontà di tale prodotto ne aveva diffusamente scritto, nel passato, un biologo e nutrizionista americano, Ancel Keys, il quale – avendo appreso della bassa incidenza di malattie cardiovascolari nel territorio campano – nel 1962 si trasferì a Pioppi per studiare il fenomeno; giunse alla conclusione, dopo anni di studi, che la sana alimentazione a base di legumi, di pasta, di pane fatto in casa e di verdure – il tutto condito con l’olio locale – era il segreto della buona salute di quella popolazione.
Confesso che tra tutti gli alberi, quello a cui sono più affezionato è proprio l’olivo: sarà per quel suo tronco contorto e scavato dagli anni che lo caratterizzano, tanto che al solo guardarlo uno si chiede come possa stare in piedi; sarà per la sua longevità (nel Cilento ne esistono tantissimi plurisecolari ); sarà per la sua utilità o per quel senso di pace, di saggezza e di antica bellezza che ispira, sta di fatto che quando mi trovo a passeggiare tra i miei ulivi, alcuni secolari (ho ereditato un piccolo terreno in collina, nel Cilento), mi soffermo sovente ad osservarli con commozione e ammirazione. E allora mi viene in mente quello che scriveva Giuseppe Dessì, in un suo famoso romanzo ambientato nella Sardegna dei primi anni del ‘900, “Paese d’ombre” a proposito di queste piante secolari, che sembrano sfidare il tempo ovunque esse si trovino, in Sardegna o nel Cilento:
“ erano simili a enormi pachidermi, con il loro tronco colossale, sproporzionato e gibboso (….) Il ragazzo camminava nell’oliveto silenzioso, e camminando contava gli olivi. A vederli dalla strada, sembravano tutti uguali; ora invece, per la prima volta, si accorgeva che erano diversi: avevano ognuno una fisionomia particolare, come persone. Se guardi da lontano la gente che affolla una piazza, o una processione che ti viene incontro, ti sembra che tutte le persone siano uguali: se invece ci vai in mezzo ti accorgi che si assomigliano, ma nella somiglianza sono diverse. Così era anche per quegli alberi di cui percepiva il silenzio, non come si percepisce il silenzio delle cose, ma come si percepisce il silenzio di persone che stanno zitte e pensano “. Parole di straordinaria bellezza.
Mi preme sottolineare, a questo punto, che così come vengono tutelati i monumenti storico-artistici del nostro territorio, analoga salvaguardia e valorizzazione andrebbe  riservata anche al paesaggio degli olivi del Cilento, alcuni dei quali – grazie alla loro imponenza – rappresentano autentici monumenti naturali. Non dimentichiamo che esiste anche una legge dello Stato che tutela gli alberi monumentali: i Comuni dovrebbero censirli e catalogarli. E non credo sia una cosa difficilissima da realizzare quella di individuare le piante “monumentali” di olivo nel nostro territorio, visto che oggi sono disponibili moderni e sofisticati mezzi di rilevamento e di tracciabilità. Quindi, tutelare l’olivo del Cilento, vero simbolo naturale che caratterizza sia il paesaggio che l’economia di questa terra, significa non solo proteggere il territorio dal dissesto idrogeologico, ma anche preservare un patrimonio di notevole pregio storico-naturalistico che ci è stato tramandato dalle generazioni precedenti.

giovedì 28 agosto 2014

Paestum: il fascino antico di una Basilica



Paestum è universalmente conosciuta per il suo famoso Parco Archeologico; ma non tutti sanno che a pochi metri dal tempio di Cerere, sul lato sinistro della statale 18 (provenendo da Battipaglia) e un po’ prima del museo archeologico, si apre una deliziosa piazzetta su cui si affaccia una chiesa di grande suggestione e di notevole pregio architettonico, che nessun visitatore dovrebbe ignorare: mi riferisco alla Basilica Paleocristiana della SS. Annunziata, addossata a un palazzetto settecentesco, già sede vescovile.
Normalmente, di qualsiasi monumento si parli, noi vediamo lo stato in cui si trova nella fase finale della sua vita, e spesso si tratta di vita millenaria. E tale è la condizione storica di questa chiesa – intitolata all’Annunciazione della Beata Vergine Maria – emersa così come noi oggi la possiamo ammirare dopo vicissitudini secolari, fra distruzioni, ricostruzioni e restauri. La primitiva struttura, risalente agli inizi del V secolo d.c. era del tipo “basilica aperta”  – secondo l’ipotesi del prof. Gabriele de Rosa – trasformata in “basilica chiusa” agli inizi del VI secolo, che è la forma che oggi conosciamo. A Paestum il cristianesimo cominciò a diffondersi a partire dal 344 d.c.; ed è proprio in quel periodo che l’antica colonia romana divenne sede vescovile. Dopo la distruzione di Paestum ad opera delle incursioni saracene (nell’anno 877) ed a seguito del progressivo abbandono in cui caddero quelle terre (come viene ricordato in quasi tutte le relationes ad limina dei vescovi, ossia i resoconti al soglio papale) gli abitanti si rifugiarono sul vicino monte Calpazio, dove “vi fabbricarono in breve tempo Capaccio” e dove i vescovi trasferirono la loro cattedra (l’attuale Santa Maria del Granato, che era la chiesa, a quei tempi, più conosciuta e ricordata della zona), pur continuando a definirsi “pestani” fino al XII secolo.

Nel XII secolo la chiesa dell’Annunziata venne ampliata, in stile romanico, e ripartita in tre navate tramite due file di colonne antichissime e di rara eleganza. Apprendiamo, inoltre, che intorno all’anno 1504 fu in parte rifatta dal vescovo di origine cipriota Ludovico Podocataro, il cui intervento avrebbe tra l’altro comportato un parziale interramento della chiesa con elevazione dell’originario livello del pavimento di oltre un metro. Ma fu Agostino Odoardi “il vero restauratore della chiesa pestana”, come lo definisce il prof. De Rosa, colui che ad essa diede l’impronta dello stile del secolo e, in ogni caso, con interventi poco rispettosi dell’antica struttura paleocristiana. Quando l’Odoardi fu eletto vescovo di Capaccio (14 febbraio 1724) a Paestum non esisteva una cattedrale, ma solo una chiesa antica oramai decaduta, priva di ogni suppellettile sacra, al punto che si poteva chiamare “profanus locus”. In una sua relazione il prelato scriveva che la cattedrale assomigliava più a una stalla o a una spelonca di predoni, che a una casa di Dio. E siccome il territorio – popolato da coloni e da custodi di armenti – aveva comunque  bisogno di un luogo sacro (la cattedrale della vecchia Capaccio era alquanto distante, con vie di accesso aspre e impraticabili) egli la rinnovò dalle fondamenta, inglobando il primitivo colonnato con pilastri di stile settecentesco e innalzando ulteriormente il portale d’ingresso; fece inoltre costruire un cimitero che mancava, ornò la sacrestia di paramenti sacri, aggiungendo sul fianco della chiesa un campanile a vela con due campane (andato distrutto durante un successivo restauro). Le campane, invece, ci sono pervenute, una delle quali, datata 1732, si può ammirare presso l’ingresso.
Il successore di Odoardi – il vescovo Raimondi – fu artefice di uno degli ultimi restauri della chiesa, fornendola a sue spese di marmi e ornamenti per l’altare maggiore e facendo edificare nel 1760, adiacente alla cattedrale, un elegante palazzetto “un palatiolum” che per lungo tempo servì di abitazione ai vescovi.
Solo nella seconda metà del Novecento la Basilica – così come noi oggi la vediamo – è stata riportata alle sue forme autentiche, spogliata del suo precedente “abito” settecentesco, con la restituzione dell’originario pavimento, più basso di circa due metri dal livello stradale (si accede alla chiesa attraverso una scala). Va detto che non è stata un’impresa facile liberare l’antica struttura architettonica dagli interramenti avvenuti durante i secoli passati, così come scorporare le antiche colonne dalle forme barocche da cui erano state ricoperte e che ne avevano alterato l’antica e suggestiva bellezza.
Vorrei infine soffermarmi su quell’antico palazzetto settecentesco, addossato alla Basilica, che come sopra specificato fu l’antica residenza vescovile. Ebbene, la struttura per alcuni anni è stata abbandonata e trascurata tant’è che in un recente passato il già nominato prof. Gabriele De Rosa, eminente storico meridionale, scriveva:“ (…) ora che la cattedrale pestana ci è stata restituita nella sua primitiva suggestiva bellezza, è una pena vedere a fianco l’ex episcopio sciupato e abbandonato. Tutte le strutture interne sono logore: la cappella del vescovo è stata trasformata in una latrina. Le pubbliche autorità dovrebbero preoccuparsi perché anche questo edificio venga restaurato e riscoperto come la sua vicina antica chiesa. E’ un elegante edificio che deve essere restituito al patrimonio artistico di Paestum, assicurando ad esso anche un retroterra che lo preservi dal rischio delle speculazioni edilizie”. Ebbene, cosa hanno fatto “le pubbliche autorità” per restituire alla collettività questo patrimonio? L’hanno venduto ai privati.