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venerdì 13 dicembre 2013

RECENSIONE: "Giovannino" di Ercole Patti (Catania 1903 - Roma 1976)


 
Giovannino è un abulico e indeciso rampollo di una facoltosa famiglia della borghesia siciliana: il padre, notaio, proprietario di vasti possedimenti terrieri, vorrebbe che il figlio, laureato in giurisprudenza, intraprendesse la carriera di avvocato e si sposasse con una ragazza altolocata. Che fosse, insomma, provvista di “roba”, quella roba di verghiana memoria che assicurava potere e prestigio.

Tali paterne aspirazioni, rivolte più alla salvaguardia ed alla conservazione della posizione sociale del casato che al rispetto dei sentimenti personali, inizialmente non sembravano fare presa nell’animo dell’apatico Giovannino. Costui appariva privo di volontà, non sapeva impegnarsi in nulla, mostrava di avere idee confuse sul suo futuro, non sapeva bene che cosa avrebbe voluto dalla vita; pareva in attesa di qualcosa di impreciso che sarebbe dovuto accadere, aspettando chissà quale indistinto avvenimento che gli avrebbe potuto cambiare la vita. E sognava ad occhi aperti. “Sognava duelli non si sa con chi, duelli generosi e romantici dei quali avrebbe parlato tutta la città. Sognava amori con donne bellissime contese da tutti. Sognava onori che gli avrebbe tributato la cittadinanza per non si sa quali meriti”.

Quando non andava nello studio di un avvocato a fare pratica forense, “lo studio dell’avvocato lo annoiava, la mattina quando vi si recava si sentiva stringere il cuore come ai tempi del liceo” trascorreva le sue giornate con indolenza, tra una chiacchiera e l’altra in “pasticceria”, le passeggiate in via Etnea a Catania e le brevi esperienze amorose consumate frettolosamente in qualche pensione della città. E così, dopo un breve e fallimentare soggiorno nella Capitale - dove si era trasferito per lavorare al Ministero delle Finanze, grazie ad una raccomandazione di un deputato - Giovannino finirà per assecondare le pressanti ambizioni del padre, sposando una ragazza non bella ma dalla ricchezza fuori del comune. Il prestigio del casato veniva così salvato.

Il racconto ci riporta nella Sicilia degli anni venti; i personaggi si muovono nella Catania di via Etnea, percorsa su e giù dalle carrozze ricche e lucenti dei notabili, dove passeggiavano le ragazze della borghesia in cerca di marito, accompagnate dalle mamme; la Catania delle pasticcerie dove si ritrovavano, all’ora dell’aperitivo, le signore e le signorine della buona società e le persone più in vista della città. Sono i luoghi simbolo di un mondo che forse non esiste più, un mondo rappresentativo di una certa sicilianità mirabilmente descritta anche da Vitaliano Brancati, grande amico di Ercole Patti. Erano i luoghi dove si intrattenevano i giovani dell’aristocrazia siciliana: baroni, duchi e marchesi, avvocati, notai e assicuratori sprovvisti di titoli nobiliari ma appunto per questo frequentatori assidui dell’ambiente dei nobili, i quali “organizzavano gite a Taormina, rievocavano la serata precedente trascorsa in una casa di tolleranza o parlavano delle relazioni segrete della moglie di qualcuno col marito di qualche altra”.

 E’ la Sicilia degli anni giovanili dello scrittore, che viene minuziosamente descritta anche attraverso gli odori, prima ancora che attraverso i paesaggi: gli odori della cioccolata e della frutta di marzapane colorato di cui erano piene le “dolcerie”; l’odore del latte di capra appena munto sulla soglia del cancello del capraio; l’odore dei cavolicelli bolliti e del pesce d’uovo che giungeva dalle porte aperte delle cucine; l’odore della campagna, misto di foglie di castagno, di fichi secchi, di mallo di noce; l’odore fresco della terra bagnata e dell’erba appena tagliata; l’odore delle soppressate, della pasta fatta in casa, dei mandarini.

In questo morbido contesto, la vita scorreva monotona, immobile, noiosa e dolce...”così dolce che si poteva invecchiare senza accorgersene e ritrovarsi ad averla vissuta tutta senza averne avuto coscienza, rimanendo sempre figli di famiglia. Questo era il dolcissimo veleno di Catania che Giovannino si sentiva entrare nelle vene”.

Lo scrittore siciliano, nel seguire le vicende del suo emblematico personaggio, dalla vita pigra e comoda dell’età adolescenziale fino alla maturità e quindi al matrimonio, sembra quasi voler ripercorrere il suo itinerario umano e letterario che si svolse tra Catania e Roma, veri luoghi dell’anima.

E lo fa con una narrazione gradevole, tratteggiando la variegata umanità di cui è costellato il libro, con bonaria e tollerante ironia, a volte con un pizzico di malinconia, senza mai infierire nei confronti di quella classe borghese opportunista e attaccata alla “roba”, di quell’aristocrazia sonnacchiosa che viveva sperperando le rendite del latifondo, interessata solo a realizzare forti alleanze familiari al fine di salvaguardare se stessa.

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