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sabato 30 novembre 2013

RECENSIONE: "Le stelle fredde" di Guido Piovene (1907-1974)



Si presta a diverse chiavi di lettura questo singolare romanzo di Guido Piovene, vincitore del Premio Strega 1970. Intanto è un libro di difficile catalogazione: una via di mezzo tra il giallo  metafisico (che pur avendo certe caratteristiche iniziali del giallo tradizionale, se ne allontana velocemente per assumere connotazioni astratte) ed il racconto dell’assurdo, che trova riscontro soprattutto nelle opere di Kafka e di Camus (di quest’ultimo mi viene in mente “Lo straniero”). L’assurdità, però, non risiede tanto nella prosa, che è lineare e scorrevole (alcune descrizioni di ambienti sono veramente apprezzabili), quanto negli avvenimenti suggestivi ed irreali che si succedono nella narrazione.

Il protagonista del romanzo è un impiegato di una compagnia di aviolinee che si occupa di pubblicità; egli non crede più nell’uomo, quell’uomo che nel passato era stato il padrone del mondo e che adesso è “falso e abietto....che non domina, non trasforma, non esprime più nulla”. Per lui gli alberi sono migliori, più umani, come quel vecchio ciliegio davanti casa che aveva messo radici in un vecchio muro di cinta, che gli parlava e da cui “gli piaceva essere ricevuto dopo una lunga assenza”.

Con questi sentimenti, un bel giorno, senza un apparente motivo, lascia il lavoro e si ritira in campagna, in una casa ereditata dal nonno, nonostante non ami la vita agreste. Qui si verificano dei fatti molto strani perché il nostro personaggio – che anzitempo aveva lasciato anche la moglie – riceve minacce di morte da un abitante del posto che, a sua volte viene misteriosamente ucciso. Ma la cosa che più lo sconcerta - e ci sconcerta - è l’incontro con Dostoevskij, lo scrittore russo che aveva di più amato in vita sua, ritornato in vita dal mondo dei morti. “Avevo deliberato che niente di quanto accadeva dovesse interessarmi o sembrarmi strano. Dicevo che, se mai, ero io il vero morto; dunque, niente di strano che ne avessi incontrato un altro probabilmente meno morto di me”.

 Il protagonista del libro - che è anche l’io narrante e di cui non conosciamo il nome  - sembra soggiornare in un mondo dagli incerti e oscuri confini, dove i vivi e i morti abitano lo stesso spazio temporale, dove il passato è anche il presente e viceversa e dove le cose o le persone che non esistono più possono ritornare tra di noi, se solo riusciamo ad immaginarle nei loro posti originari.

Inizialmente, si ha l’impressione che il protagonista sia incapace di rapportarsi con i suoi simili, di vivere e di agire nella realtà circostante, di partecipare agli affetti e agli avvenimenti che lo riguardano e cerchi, invece, di trovare la sua dimensione umana e materiale in un altro mondo: il mondo dei morti, l’aldilà. Poi scopriamo che l’aldilà è la sua vita di prima, da cui egli stesso proviene e che il mondo (il passato e il presente) non è altro che un immenso archivio, in cui sono conservate, come tante fotografie, tutte le cose che accadono. Un mondo che esiste solo per essere catalogato. “Anche gli odi, le lagrime, le vite inutili e le morti fallite hanno soltanto questo scopo, in cui non falliscono mai; gli assassinii, i massacri, l’idiozia, la bassezza, le sofferenze degli amori traditi, accadono per essere fotografati”.

 Il tema della “morte” è ricorrente nel libro, anche quando lo scrittore racconta la “vita”. Vita e morte si sovrappongono, si compenetrano, si confondono; il mondo dei vivi sembra scivolare in quello dei morti e la verità sembra venire dall’aldilà, anzi tutte le cose arrivano a noi da un mondo lontano e quelle che ancora non sono arrivate, stanno viaggiando nello spazio infinito, come la luce di quegli astri che non vediamo, perché sta ancora percorrendo lo spazio prima di giungere ai nostri occhi.

La lettura di questo libro mi ha lasciato un po’ stordito. Se l’intento di Piovene era quello di disorientare il lettore, di proiettarlo in una dimensione sovrumana, ebbene, devo dire che ci è riuscito pienamente.

 

 

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