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domenica 10 novembre 2013

RECENSIONE: "LE AVVENTURE DI PINOCCHIO" di CARLO COLLODI

    Non amo le favole. Forse perché, quand’ero piccolo, nessuno me le ha mai raccontate; le favole vanno lette ai bambini, affinché da grandi possano rimanere vive nella memoria. Ma Pinocchio, o meglio “Le avventure di Pinocchio”, è un libro talmente speciale che  è conosciuto praticamente da tutti, anche da chi non l’ha mai letto e, comunque, lo si può leggere in qualsiasi stagione della nostra vita. Perché è un libro universale, per grandi e per piccoli; perché commuove e appassiona, fa ridere e fa piangere, diverte e istruisce. E’ un libro che racconta la vita, nelle sue innumerevoli vicissitudini, che racconta le passioni e le cattiverie dell’uomo, ma che si sofferma anche sugli slanci di altruismo e di solidarietà che attraversano l’animo umano.
    Pinocchio, questo simpatico e bellissimo burattino di legno, rappresenta nella sua reale semplicità un autentico capolavoro di ebanisteria – oserei dire - degna creazione di quel grande “maestro d’ascia” della letteratura che si è rivelato Collodi, pseudonimo di Carlo Lorenzini, lo scrittore fiorentino che pubblicò il libro nel 1883. Per me il burattino Pinocchio va tutelato come patrimonio dell’umanità, come il David di Michelangelo, perché incarna l’espressione fiabesca del genio italico nel mondo, considerato che il libro è stato praticamente tradotto in quasi tutte le lingue, ed è conosciuto nel mondo quanto il Colosseo o la Basilica di S. Pietro.
    Negli anni della fanciullezza avevo letto pagine sparse del libro, senza avere la capacità di fare una riflessione più profonda sul significato del testo; ora, rileggendolo, il mio pensiero è andato immediatamente al libro della Genesi, dove si legge che il Signore Dio creò l’uomo dal fango della terra, gli soffiò sul volto lo spirito della vita e quella creatura divenne un essere vivente. Il creatore, quindi, visto come una sorte di artigiano – non vorrei essere blasfemo – che modella l’argilla a sua immagine e somiglianza e ne ottiene il primo uomo.
    Mi piace immaginare un Collodi, che accingendosi a scrivere il suo libro, abbia pensato - almeno per un momento - al sacro libro della Genesi e si sia ispirato alla più grande e sublime delle creazioni divine (effettuata da Nostro Signore il 6° giorno) per portare a termine la sua fatica e quindi la sua personale “creazione”: quel burattino chiamato Pinocchio, costruito da un pezzo di legno dall’artigiano Geppetto. Certo, un accostamento alquanto azzardato, ma per me resta sicuramente affascinante. Sia l’uomo apparso per la prima volta sulla terra creato da Dio, che il bambino/burattino, nato dalla straordinaria fantasia di Collodi, sono stati modellati con un materiale molto comune presente in natura: nel primo caso, il fango; nel secondo un pezzo di legno, che non era “un legno di lusso, ma un semplice pezzo di catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze”, così si legge nel libro.
    E’ veramente incredibile come queste due meravigliose “creature”, ossia l’uomo, signore indiscusso dell’universo e Pinocchio, l’immaginario collettivo della fiaba universale che incarna il bambino indisponente e bugiardo che è in noi, siano nati non già da un materiale ricco e pregiato, come potrebbe essere l’oro o qualsiasi altra sostanza preziosa, ma dalla terra e dal legno. Quasi a voler significare che la bellezza si genera dalla semplicità piuttosto che dalla ricchezza. Esiste forse in natura un qualcosa di più bello della “persona umana”, intesa come la massima espressione dell’intelligenza e della perfezione? E forse esiste nel mondo delle favole un personaggio che sia più amato del burattino Pinocchio, che diventa bambino e quindi uomo nel momento stesso in cui sa prendersi le sue responsabilità?
    Pinocchio ci rappresenta e ci somiglia, con i suoi vizi e le sue virtù, con i suoi momenti di tristezza e con i suoi slanci di gioia e di affetto, con la sua furbizia, ma anche con la sua ingenuità. C’è forse qualcuno che non abbia mai disubbidito ai suoi genitori, o che non abbia mai pensato di marinare la scuola, almeno una volta nella sua vita? O che non si sia fatto imbrogliare da qualcuno più sveglio, pagandone le conseguenze?
    Personaggi come Geppetto, il Gatto e la Volpe, Mangiafoco, il Grillo parlante, la Fatina  e tante altre mirabili invenzioni restano indelebili nella memoria collettiva, miti intramontabili della nostra fanciullezza, a cui ricorriamo ogni qualvolta abbiamo desiderio di ritornare bambini e credere nelle favole.
    E poi come dimenticare quel finale, un po’ a sorpresa, che in qualche maniera ci sconcerta, in cui il burattino di legno diventa un ragazzo in carne e ossa. Una trasformazione che vuole rappresentare, metaforicamente, il passaggio dalla fanciullezza alla maturità, dalla spensieratezza e dalle imprudenze tipiche dei bambini alla consapevolezza ed alla responsabilità degli adulti. E quell’immagine del burattino inerme “appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo” non può che metterci un po’ di tristezza, perché perdiamo un amico a cui ci eravamo affezionati e in cui ci eravamo immedesimati allorquando, con le sue ribellioni e le sue disubbidienze, combatteva la sua personale battaglia contro il mondo degli adulti.

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