Cerca nel blog

venerdì 20 dicembre 2013

Perchè si scrive


Nonostante sia già stato scritto tutto ciò che c’era da scrivere in tremila e più anni, oggi tutti sentono il bisogno di scrivere qualcosa: un libro...un racconto...un diario...una poesia...un commento su un blog. Basta dare un’occhiata in giro: ci sono più scrittori che lettori.

“E’ bello scrivere perché riunisce due gioie: parlare da solo e parlare ad una folla”. Lo diceva Cesare Pavese. Lui continua a parlarci, con i suoi libri e le sue poesie.

Ma perché si scrive? Ma perché si decide, un bel giorno, di aprire un blog, di scavare un percorso di parole, in un mondo in cui le parole abbondano e si sprecano? In un mondo in cui l’informazione ci bombarda dalla mattina alla sera? Ma perché si sente il bisogno di lasciare una traccia su un foglio bianco?

Forse si scrive per un senso di vanità o anche per un desiderio di eternità
o forse si scrive per conoscersi e volersi bene,
e forse anche per umiliarsi e disprezzarsi,

e si scrive, chissà....per sentirsi normali in un mondo di pazzi, o per avere coscienza  di essere intelligenti in un mondo di mediocri.

Si scrive per migliorarsi e per migliorare
per insegnare e per imparare.
Si scrive per essere liberi.

Ma si scrive anche per distrarsi, per non pensare
per liberarsi dalle inquietudini, per fermare il tempo.

Si scrive perché si ha paura della morte,
e si scrive per sopportare meglio il dolore
e per sconfiggere le sofferenze,

si scrive per non soffrire,
si scrive per confessarsi.
 
Si scrive per viaggiare senza partire o meglio per partire senza più tornare,
ma si scrive anche per stare fermi,
per rallentare il tempo,
per tornare indietro nel tempo.

E perché no...si scrive per fuggire nel mondo dell’immaginazione
in un lontano “altrove”
dove il rischio di essere inseguiti è veramente minimo
dove è facile ritagliarsi un vasto territorio gratificante.

E si scrive per dimenticare le delusioni e le sconfitte
ma si scrive anche per sedurre ed incantare
per lodarsi ed esaltarsi
e si scrive per vendicarsi.

Si scrive spesso quando non si ha nulla da dire,
solo per farsi del male.

Ma si scrive sempre perché si ha qualcosa da trasmettere,
e si spera che quel messaggio scritto
quel grido di dolore o di speranza...quella richiesta di aiuto o di consenso...quell’urlo di gioia o di tristezza...insomma quel pensiero scritto
venga, solo per un momento,
accolto e catturato
e poi abbandonato.

 

sabato 14 dicembre 2013

Il barbone



Sai, fratello, t'ho visto l'altra sera!
T'ho visto, appena giunto alla stazione,
con un trancio di pizza e qualche pera,
con le tue cianfrusaglie e col cartone.

           Ti ho osservato aggirarti lentamente
            in cerca d'un posto un po' al riparo
            dal gelo, un po' nascosto dalla gente,
            per mandar giù qualche boccone amaro.

T'ho guardato in silenzio, con pietà,
ed ho provato a entrare nei tuoi panni,
cercando intorno un po' di umanità
qualcuno che mi strappasse dagli affanni.

            Ho trovato l'indifferenza più assoluta
            di tanta gente, che non volea capire,
            gente che al mio patir restava muta,
            quasi annoiata, senza intervenire.

Solo la strada avevo a fianco a me:
la strada che talvolta è più accogliente
e non ti lascia solo, anche perché
abbraccia nel suo grembo tanta gente

            d'ogni razza e d'ogni condizione,
             non chiede mai a nessuno il passaporto
             non guarda il ceto sociale o la nazione,
             non ride se sei brutto o se sei corto.

Forse domani ti troveran stecchito,
disteso su una panca o sotto un ponte,
oggi per te nessuno ha mosso un dito,
e pur 'io che t'ho avuto di fronte

             seduto a terra, là nella stazione,
             non t'ho allungato neppure mille lire
             e son passato anch'io con distrazione,
             fingendo di non vedere e non sentire.



Salvatore Armando Santoro

venerdì 13 dicembre 2013

RECENSIONE: "Giovannino" di Ercole Patti (Catania 1903 - Roma 1976)


 
Giovannino è un abulico e indeciso rampollo di una facoltosa famiglia della borghesia siciliana: il padre, notaio, proprietario di vasti possedimenti terrieri, vorrebbe che il figlio, laureato in giurisprudenza, intraprendesse la carriera di avvocato e si sposasse con una ragazza altolocata. Che fosse, insomma, provvista di “roba”, quella roba di verghiana memoria che assicurava potere e prestigio.

Tali paterne aspirazioni, rivolte più alla salvaguardia ed alla conservazione della posizione sociale del casato che al rispetto dei sentimenti personali, inizialmente non sembravano fare presa nell’animo dell’apatico Giovannino. Costui appariva privo di volontà, non sapeva impegnarsi in nulla, mostrava di avere idee confuse sul suo futuro, non sapeva bene che cosa avrebbe voluto dalla vita; pareva in attesa di qualcosa di impreciso che sarebbe dovuto accadere, aspettando chissà quale indistinto avvenimento che gli avrebbe potuto cambiare la vita. E sognava ad occhi aperti. “Sognava duelli non si sa con chi, duelli generosi e romantici dei quali avrebbe parlato tutta la città. Sognava amori con donne bellissime contese da tutti. Sognava onori che gli avrebbe tributato la cittadinanza per non si sa quali meriti”.

Quando non andava nello studio di un avvocato a fare pratica forense, “lo studio dell’avvocato lo annoiava, la mattina quando vi si recava si sentiva stringere il cuore come ai tempi del liceo” trascorreva le sue giornate con indolenza, tra una chiacchiera e l’altra in “pasticceria”, le passeggiate in via Etnea a Catania e le brevi esperienze amorose consumate frettolosamente in qualche pensione della città. E così, dopo un breve e fallimentare soggiorno nella Capitale - dove si era trasferito per lavorare al Ministero delle Finanze, grazie ad una raccomandazione di un deputato - Giovannino finirà per assecondare le pressanti ambizioni del padre, sposando una ragazza non bella ma dalla ricchezza fuori del comune. Il prestigio del casato veniva così salvato.

Il racconto ci riporta nella Sicilia degli anni venti; i personaggi si muovono nella Catania di via Etnea, percorsa su e giù dalle carrozze ricche e lucenti dei notabili, dove passeggiavano le ragazze della borghesia in cerca di marito, accompagnate dalle mamme; la Catania delle pasticcerie dove si ritrovavano, all’ora dell’aperitivo, le signore e le signorine della buona società e le persone più in vista della città. Sono i luoghi simbolo di un mondo che forse non esiste più, un mondo rappresentativo di una certa sicilianità mirabilmente descritta anche da Vitaliano Brancati, grande amico di Ercole Patti. Erano i luoghi dove si intrattenevano i giovani dell’aristocrazia siciliana: baroni, duchi e marchesi, avvocati, notai e assicuratori sprovvisti di titoli nobiliari ma appunto per questo frequentatori assidui dell’ambiente dei nobili, i quali “organizzavano gite a Taormina, rievocavano la serata precedente trascorsa in una casa di tolleranza o parlavano delle relazioni segrete della moglie di qualcuno col marito di qualche altra”.

 E’ la Sicilia degli anni giovanili dello scrittore, che viene minuziosamente descritta anche attraverso gli odori, prima ancora che attraverso i paesaggi: gli odori della cioccolata e della frutta di marzapane colorato di cui erano piene le “dolcerie”; l’odore del latte di capra appena munto sulla soglia del cancello del capraio; l’odore dei cavolicelli bolliti e del pesce d’uovo che giungeva dalle porte aperte delle cucine; l’odore della campagna, misto di foglie di castagno, di fichi secchi, di mallo di noce; l’odore fresco della terra bagnata e dell’erba appena tagliata; l’odore delle soppressate, della pasta fatta in casa, dei mandarini.

In questo morbido contesto, la vita scorreva monotona, immobile, noiosa e dolce...”così dolce che si poteva invecchiare senza accorgersene e ritrovarsi ad averla vissuta tutta senza averne avuto coscienza, rimanendo sempre figli di famiglia. Questo era il dolcissimo veleno di Catania che Giovannino si sentiva entrare nelle vene”.

Lo scrittore siciliano, nel seguire le vicende del suo emblematico personaggio, dalla vita pigra e comoda dell’età adolescenziale fino alla maturità e quindi al matrimonio, sembra quasi voler ripercorrere il suo itinerario umano e letterario che si svolse tra Catania e Roma, veri luoghi dell’anima.

E lo fa con una narrazione gradevole, tratteggiando la variegata umanità di cui è costellato il libro, con bonaria e tollerante ironia, a volte con un pizzico di malinconia, senza mai infierire nei confronti di quella classe borghese opportunista e attaccata alla “roba”, di quell’aristocrazia sonnacchiosa che viveva sperperando le rendite del latifondo, interessata solo a realizzare forti alleanze familiari al fine di salvaguardare se stessa.

lunedì 9 dicembre 2013

RECENSIONE: "La strada per Roma" di Paolo Volponi (Urbino 1924 - Ancona 1994)



Con questo lungo e corposo romanzo Paolo Volponi vinse il premio Strega nel 1991. Va detto che tutta l’opera narrativa dello scrittore marchigiano è incentrata sull’antica e mai risolta contrapposizione tra operai e industriali, tra il mondo dei lavoratori e quello delle imprese. Volponi, prima ancora che scrittore, è stato un dipendente della Olivetti di Ivrea in qualità di direttore dei servizi sociali, oltre che Presidente della Fondazione Agnelli,  incarico, quest’ultimo, che dovette lasciare a seguito della sua adesione al Partito Comunista. Sensibile alle problematiche lavorative, lo scrittore era profondamente convinto che i contrasti tra lavoratori e padroni potessero essere risolti solo attraverso una concezione umanistica del rapporto lavorativo, al di fuori delle ferree logiche di profitto e di sfruttamento.

Il libro, ambientato negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, in un paese che faticosamente stava risollevandosi dalle estreme condizioni di difficoltà e di miseria in cui si trovava, scruta i sentimenti, i desideri, le illusioni, le aspettative, gli ideali politici di due giovani studenti di Urbino (Guido ed Ettore), rappresentativi di un’intera generazione che si apprestava a vivere, con trepidazione e contrastanti sentimenti, la rinascita economica dopo il buio del conflitto mondiale.

Non credo di sbagliare se dico che in questo romanzo riecheggiano echi autobiografici dell’autore, ben inseriti nei luoghi che descrive. Lo scrittore si cela nei suoi personaggi, si immedesima nei loro bisogni e nelle loro contraddizioni, ne descrive le irrequietezze e le insoddisfazioni, i cui eventi si snodano tra Urbino e Roma, ricalcando proprio le sue vicende umane e professionali, che lo avevano visto protagonista prima nella sua città natale e poi nella Capitale. Urbino è sempre presente nella narrazione: con i suoi palazzi, la sua architettura antica  e solenne, la sua gente. E’ presente con i suoi riti quotidiani sempre uguali e immobili: il pasto e poi la pennichella pomeridiana e poi il cinema e poi la passeggiata sotto il loggiato prima della cena. E poi le lunghe, interminabili e sterili discussioni incentrate sulla politica, sul gossip, sulle donne.

E’ la storia di un’amicizia, prima ancora che la fotografia di un’intera generazione, quella che ci descrive Volponi, combattuta tra il desiderio di andare via o rimanere, cambiare vita o lasciarsi cullare dalla monotonia e dall’abbraccio del luogo nativo, che poi è quel sentimento che agita le coscienze di tutti i giovani che si trovano nella condizione di dover decidere sul loro futuro.

I due giovani – che sono i protagonisti principali del racconto, insieme a tante altre figure che costellano il romanzo - sebbene siano animati dalla stessa voglia di cambiamento, sono però divisi da due modi diversi di immaginare il proprio futuro: Guido (alias Volponi) si sente  animato da una sorta di destino superiore, sensibile alla ricchezza “anche se convinto di poterne controllare l’influenza con la forza delle sue idee...servendosene per diventare un uomo nuovo, che agisce soprattutto per uno stimolo sociale”; egli decide di andare via da Urbino ed intraprende la strada per Roma. Ettore, invece, è più realista, è convinto che si possa cambiare anche rimanendo; perciò non abbandona la sua Urbino, ma cerca di cambiarla attraverso la sua professione di insegnante.

E’ un libro che presenta una scrittura a volte ostica e ridondante; devo dire che alcune pagine si leggono con fatica e che tale difficoltà sembra scaturire proprio da quella visione cervellotica della realtà immaginata dai suoi personaggi.

sabato 7 dicembre 2013

Albero di Natale



Natale è alle porte.

Se dovessi fare un albero di natale addobbato con i libri che si vedono esposti in tutte le vetrine delle librerie – pare che siano attualmente i capolavori più venduti (de gustibus non disputandum est!) - il risultato sarebbe, per quanto mi riguarda, molto sconfortante: un albero decisamente kitsch, dal gusto estetico/letterario assai improbabile.

Un guazzabuglio di pseudo scrittori, che hanno il solo merito di essere personaggi noti del mondo dello sport e dello spettacolo, che fanno passerella in tutte le trasmissioni televisive per presentare i loro capolavori.

Sulla sommità dell’albero, come una stella cometa – immancabile strenna natalizia- metterei l’ultimo libro di Bruno Vespa: Sale, zucchero e caffè.
Poi, come tante palle colorate:

E’ pronto di Benedetta Parodi
Io nascerò di Loretta Goggi
Io ti voglio di Irene Cao
La vita non è in rima di Luciano Ligabue
La strada verso casa di Fabrizio Volo
Giocare da uomo di Javier Zanetti
Moscerine di Anna Marchesini
True. La mia storia di Mike Tyson
Open. La mia storia di Andre Agassi
Penso, quindi gioco di Andrea Pirlo
Testa, cuore e gambe di Antonio Conte
Cinquanta sfumature di grigio (oppure di nero o di rosso) di E.L. James
Tutto sommato di Gigi Proietti
L’oroscopo 2014 di Paolo Fox
Occhio allo spreco. Consumare meno e vivere meglio di Cristina Gabetti.

Per potersi reggere, un albero così carico di sapere ha bisogno di una base molto solida. E allora cosa c’è di meglio di quattro autentici pilastri della letteratura mondiale, che vanno per la maggiore, utilizzati a mò di piattaforma come:

L’inverno del mondo di Ken Follet
Joyland di Stephen King
Letto di ossa di Patricia Cornwell
Inferno di Dan Brown

Sono gradite altre palle colorate....Buon Natale

mercoledì 4 dicembre 2013

Residuo


 
Di tutto è rimasto un poco,
Della mia paura. Del tuo ribrezzo.

Dei gridi blesi. Della rosa
è rimasto un poco.

È rimasto un poco di luce
captata nel cappello.
Negli occhi del ruffiano
è restata un po' di tenerezza
(molto poco)

Poco è rimasto di questa polvere
che ti coprì le scarpe
bianche. Pochi panni sono rimasti,
pochi veli rotti,
poco, poco, molto poco.

Ma d'ogni cosa resta un poco.
Del ponte bombardato,
delle due foglie d'erba,
del pacchetto
- vuoto - di sigarette, è rimasto un poco

Che di ogni cosa resta un poco.
È rimasto un po' del tuo mento
nel mento di tua figlia.

Del tuo ruvido silenzio
un poco è rimasto, un poco
sui muri infastiditi,
nelle foglie, mute, che salgono.

È rimasto un po' di tutto
nel piattino di porcellana,
drago rotto, fiore bianco,
di rughe sulla tua fronte,
ritratto.

Se di tutto resta un poco,
perché mai non dovrebbe restare
un po' di me? Nel treno
che porta a nord, nella nave,
negli annunci di giornale,
un po' di me a Londra,
un po' di me in qualche dove?
nella consonante?
nel pozzo?

Un poco resta oscillando
alla foce dei fiumi
e i pesci non lo evitano,
un poco: non viene nei libri.

Di tutto rimane un poco.
Non molto: da un rubinetto
stilla questa goccia assurda,
metà sale e metà alcool,
salta questa zampa di rana,
questo vetro di orologio
rotto in mille speranze,
questo collo di cigno,
questo segreto infantile...
Di ogni cosa è rimasto un poco:
di me; di te; di Abelardo.
Un capello sulla mia manica,
di tutto è rimasto un poco;
vento nelle mie orecchie,
rutto volgare, gemito
di viscere ribelli,
e minuscoli artefatti:
campanula, alveolo, capsula
di revolver... di aspirina.
Di tutto è rimasto un poco.
E di tutto resta un poco.
Oh, apri i flacone di profumo
e soffoca
l'insopportabile lezzo della memoria.

Ma di tutto, terribile, resta un poco,
e sotto le onde ritmate,
e sotto le nuvole e i venti
e sotto i ponti e sotto i tunnel
e sotto le fiamme e sotto il sarcasmo
e sotto il muco e sotto il vomito
e sotto il singhiozzo, il carcere, il dimenticato
e sotto gli spettacoli e sotto la morte in scarlatto
e sotto le biblioteche, gli ospizi, le chiese trionfanti
e sotto te stesso e sotto i tuoi piedi già rigidi
e sotto i cardini della famiglia e della classe,
rimane sempre un poco di tutto.
A volte un bottone. A volte un topo.

Carlos Drummond de Andrade
(traduzione di Antonio Tabucchi)

 

sabato 30 novembre 2013

Foglie morte

Veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali
soprattutto se sono ippocastani
soprattutto se passano dei bimbi
soprattutto se il cielo è sereno
soprattutto se ho avuto, quel giorno, una buona notizia
soprattutto se il cuore, quel giorno, non mi fa male
soprattutto se credo, quel giorno, che quella che amo mi ami
soprattutto se quel giorno mi sento d'accordo con gli uomini e con me stesso
veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali dei viali d'ippocastani.

(Nazim Hikmet)

RECENSIONE: "Le stelle fredde" di Guido Piovene (1907-1974)



Si presta a diverse chiavi di lettura questo singolare romanzo di Guido Piovene, vincitore del Premio Strega 1970. Intanto è un libro di difficile catalogazione: una via di mezzo tra il giallo  metafisico (che pur avendo certe caratteristiche iniziali del giallo tradizionale, se ne allontana velocemente per assumere connotazioni astratte) ed il racconto dell’assurdo, che trova riscontro soprattutto nelle opere di Kafka e di Camus (di quest’ultimo mi viene in mente “Lo straniero”). L’assurdità, però, non risiede tanto nella prosa, che è lineare e scorrevole (alcune descrizioni di ambienti sono veramente apprezzabili), quanto negli avvenimenti suggestivi ed irreali che si succedono nella narrazione.

Il protagonista del romanzo è un impiegato di una compagnia di aviolinee che si occupa di pubblicità; egli non crede più nell’uomo, quell’uomo che nel passato era stato il padrone del mondo e che adesso è “falso e abietto....che non domina, non trasforma, non esprime più nulla”. Per lui gli alberi sono migliori, più umani, come quel vecchio ciliegio davanti casa che aveva messo radici in un vecchio muro di cinta, che gli parlava e da cui “gli piaceva essere ricevuto dopo una lunga assenza”.

Con questi sentimenti, un bel giorno, senza un apparente motivo, lascia il lavoro e si ritira in campagna, in una casa ereditata dal nonno, nonostante non ami la vita agreste. Qui si verificano dei fatti molto strani perché il nostro personaggio – che anzitempo aveva lasciato anche la moglie – riceve minacce di morte da un abitante del posto che, a sua volte viene misteriosamente ucciso. Ma la cosa che più lo sconcerta - e ci sconcerta - è l’incontro con Dostoevskij, lo scrittore russo che aveva di più amato in vita sua, ritornato in vita dal mondo dei morti. “Avevo deliberato che niente di quanto accadeva dovesse interessarmi o sembrarmi strano. Dicevo che, se mai, ero io il vero morto; dunque, niente di strano che ne avessi incontrato un altro probabilmente meno morto di me”.

 Il protagonista del libro - che è anche l’io narrante e di cui non conosciamo il nome  - sembra soggiornare in un mondo dagli incerti e oscuri confini, dove i vivi e i morti abitano lo stesso spazio temporale, dove il passato è anche il presente e viceversa e dove le cose o le persone che non esistono più possono ritornare tra di noi, se solo riusciamo ad immaginarle nei loro posti originari.

Inizialmente, si ha l’impressione che il protagonista sia incapace di rapportarsi con i suoi simili, di vivere e di agire nella realtà circostante, di partecipare agli affetti e agli avvenimenti che lo riguardano e cerchi, invece, di trovare la sua dimensione umana e materiale in un altro mondo: il mondo dei morti, l’aldilà. Poi scopriamo che l’aldilà è la sua vita di prima, da cui egli stesso proviene e che il mondo (il passato e il presente) non è altro che un immenso archivio, in cui sono conservate, come tante fotografie, tutte le cose che accadono. Un mondo che esiste solo per essere catalogato. “Anche gli odi, le lagrime, le vite inutili e le morti fallite hanno soltanto questo scopo, in cui non falliscono mai; gli assassinii, i massacri, l’idiozia, la bassezza, le sofferenze degli amori traditi, accadono per essere fotografati”.

 Il tema della “morte” è ricorrente nel libro, anche quando lo scrittore racconta la “vita”. Vita e morte si sovrappongono, si compenetrano, si confondono; il mondo dei vivi sembra scivolare in quello dei morti e la verità sembra venire dall’aldilà, anzi tutte le cose arrivano a noi da un mondo lontano e quelle che ancora non sono arrivate, stanno viaggiando nello spazio infinito, come la luce di quegli astri che non vediamo, perché sta ancora percorrendo lo spazio prima di giungere ai nostri occhi.

La lettura di questo libro mi ha lasciato un po’ stordito. Se l’intento di Piovene era quello di disorientare il lettore, di proiettarlo in una dimensione sovrumana, ebbene, devo dire che ci è riuscito pienamente.

 

 

mercoledì 27 novembre 2013

RECENSIONE: "La lucina" di Antonio Moresco



La trama è alquanto scarna: il protagonista, che è anche la voce narrante del racconto, un bel giorno decide di lasciare il mondo in cui vive e ritirarsi in una casupola in mezzo al bosco, nei pressi di un borgo abbandonato. Non ci è dato conoscere il perché di questa estrema decisione. “Sono venuto qui per sparire” questo l’incipit del libro “in questo borgo abbandonato e deserto di cui sono l’unico abitante”.

Da queste prime battute, sono andato con il pensiero indirettamente a David Thoreau, lo scrittore americano dell’800, noto per il suo libro autobiografico “Walden, ovvero la vita nel bosco”, in cui raccontò la sua esperienza di vita alternativa in una casetta di legna nel bosco, lontano dalla civiltà e dal consorzio umano, nel completo abbraccio con la natura, in felice e solitaria contemplazione.
 
Devo dire, però, che ho dovuto subito abbandonare questo confronto, perché l’autore del romanzo, già dalle prime pagine, mi fa capire che il suo intento non è quello di proporre un modello alternativo di vita, di aprire una finestra spalancata su un altro modo di vivere e di sentire l’esistenza. No. Egli si incammina, invece, verso un tortuoso percorso di ricerca interiore e ci conduce in un mondo in cui la natura – metafora della vita - sembra una sorta di selva oscura in cui gli alberi e tutte le altre forme vegetali sono in lotta tra di loro per occupare un proprio spazio vitale. In altre parole, la natura selvaggia in cui lui si è rifugiato per trovare quella pace e quella serenità interiore, anziché accoglierlo benevolmente, pare vogliano respingerlo inesorabilmente verso l’abisso. Ma ecco che nel suo vivere quotidiano appare qualcosa di inaspettato; di notte, quando il buio si fa più fitto, il protagonista vede accendersi, dall’altra parte del bosco, sempre alla stessa ora, una strana ed insolita lucina. Incuriosito, dopo qualche giorno, decide di raggiungere il luogo e con sua grande sorpresa appare di fronte a lui un bambino, che vive da solo in mezzo al bosco, nelle sue stesse condizioni, in una piccola casa di pietra.

Chi sarà quel bambino che si materializza attraverso una luce di notte? E’ forse il protagonista stesso che diventa bambino o, piuttosto, è quel “bambino” che alberga nell’animo dell’autore/protagonista e quindi in ognuno di noi?

La cosa che più mi ha colpito di questo romanzo - al di là della trama che sconfina nel surreale - è certamente la scrittura: essenziale, asciutta, quasi elementare in alcune circostanze, soprattutto quando lo scrittore si dilunga in talune descrizioni che riguardano il vivere quotidiano del suo personaggio.

In una nota introduttiva al libro, Antonio Moresco scriveva che questo racconto, proprio per la sua particolare natura intima e segreta, sarebbe stato una sorta di testamento spirituale, qualora fosse “crepato” il giorno dopo averlo scritto. L’essenza di tale affermazione io l’ho trovata proprio nell’ultima pagina.

 

 

martedì 26 novembre 2013

Il telefonino



Non possiedo un telefonino e non sopporto quello degli altri, quando gli altri  mi costringono ad ascoltare le loro telefonate. Non capisco perché se uno deve fare una telefonata la debba fare per strada e non a casa. Non capisco perché se uno deve dire qualcosa a qualcuno, lo possa dire solo se è circondato da altre persone. Non capisco perché tutto sia diventato urgente. Hanno fatto una legge sulla privacy in un momento storico in cui la privacy non la vuole nessuno.
 
 Siamo al primo posto nel mondo per il consumo di questo oggetto. Ce l’hanno tutti, cani e porci, lo usano anche coloro che non sanno né parlare né stare zitti. Lo tengono sempre in mano, bene in vista,  sia gli uomini che le donne.  Alcuni luoghi, ormai, sono diventati impraticabili, come i treni, gli autobus, tutti i locali pubblici. Squillano dappertutto: nelle chiese, negli obitori, negli ospedali, nei cinema, nei cessi. E’ un continuo mostrare a chi ce l’ha più bello, più alla moda, più grande. Una vera pornografia telefonica.
 
Nel libro di Philiph Roth “Il fantasma esce di scena” c’è una pagina memorabile che dipinge molto bene l’isteria collettiva per il telefonino.
“…Ovunque andassi, qualcuno mi veniva incontro parlando al telefono e qualcuno mi seguiva parlando al telefono. Quando presi un taxi, l’autista era al telefono. Per uno che spesso passava molti giorni di seguito senza parlare con qualcuno, fui costretto a domandarmi cos’era crollato nella gente, di ciò che prima la teneva insieme, per rendere l’incessante chiacchiericcio telefonico preferibile a una passeggiata sotto la sorveglianza di nessuno, a un momento di solitudine che permetteva di assimilare le strade attraverso i propri sensi corporei e di pensare la miriade di pensieri che ispirano le attività di una città. Per me, faceva sembrare comiche le strade e ridicole le persone. Eppure sembrava anche un’autentica tragedia. Sradicare l’esperienza della separazione doveva avere inevitabilmente un effetto drammatico. Quali saranno le conseguenze? Tu sai che puoi raggiungere l’altra persona in ogni momento, e se non puoi diventi impaziente, impaziente e irritato come un piccolo, stupido dio. Sapevo bene che il silenzio di fondo era stato abolito da un pezzo nei ristoranti, negli ascensori e nei campi da baseball, ma che l’immensa solitudine degli esseri umani dovesse produrre questo sconfinato desiderio di essere ascoltati, unito al disinteresse per chi ascolta le tue conversazioni…be’, essendo io vissuto largamente nell’era delle cabine telefoniche, le cui solide porte a fisarmonica potevano essere ermeticamente chiuse, rimasi colpito dalla cospicuità di tutto questo e mi sorpresi a nutrire l’idea per un racconto in cui Manhattan diventava una sinistra collettività dove tutti spiano tutti gli altri, tutti sono controllati dalla persona all’altro capo della linea, anche se, nel telefonarsi senza posa da ogni parte,all’aria aperta, chi telefona crede di godere della massima libertà…”.

sabato 23 novembre 2013

RECENSIONE: "Noi credevamo" di Anna Banti

   

    Anna Banti, pseudonimo di Lucia Lopresti, è una scrittrice toscana, di origine calabrese. Con questo bel libro “Noi credevamo”, poco conosciuto al grande pubblico dei lettori  - da cui peraltro il regista Mario Martone ha tratto un suo film, che ha il merito di aver rilanciato anche la lettura del romanzo – rivive le aspirazioni ed i ricordi del nonno (Don Domenico Lopresti) un fervente repubblicano mazziniano, il quale si era illuso che l’unificazione d’Italia avesse finalmente cambiato in meglio anche le sorti della sua Calabria, nonché le condizioni di vita di tutto il Meridione.
     Ora, alla soglia dei suoi settant’anni - a poco più di vent’anni dall’Unità d’Italia (siamo nel 1883) - questo ormai decaduto nobiluomo calabrese, che in gioventù aveva patito 12 anni di dura detenzione nelle carceri borboniche di Procida, Montefusco e Montesarchio, per essere stato un fomentatore di disordini sociali, ormai solo, malato e amareggiato, si ritrova a scrivere le sue memorie attraverso i ricordi di una vita, e lo fa quasi di nascosto dalla moglie e dai suoi due figli, nella sua casa di Torino, dove si era trasferito da due anni, per la gioia della moglie piemontese Annetta.
    Non ama nulla di Torino: né il suo ordine, né la sua mediocre civiltà piena di sussiego, né il razzismo strisciante dei suoi abitanti nei confronti dei meridionali, che sono tutti “napoletani, soggetti da guardarsene, da sorvegliare, qualcosa di mezzo fra il brigante e l’imbroglione”. Questi dissapori, questi contrasti nei confronti di Torino e dei Piemontesi hanno il merito, però, di sortire “il piacere amaro e inebriante della nostalgia” della sua terra lontana che, seppure da giovane gli facesse paura, nell’arida vecchiaia rappresentava senz’altro una meritata conquista.
    Il libro è pervaso da un velo di rassegnata delusione, che appare chiara quando, attraverso la scrittura, Don Domenico rivive i momenti più significativi del suo passato e si sofferma, con il pensiero, sugli ideali risorgimentali traditi e calpestati dagli eventi, ripensando a tutti gli anni durante i quali aveva lavorato e cospirato per il riscatto dei poveri della sua terra, nei cui confronti aveva riposto fiducia e comprensione per convincersi, alla fine, che si era ingannato, perché “i pregiudizi dell’ignoranza secolare erano il vero nemico da vincere e che le nostre povere armi di settari fanatici li lasciavano freddi e indifferenti”.
    Nato nel fondo di una terra arretrata, com’era la Calabria dell’800, il giovane Domenico Lopresti, nel guardarsi intorno non vedeva altro che grandi miserie e sporchi privilegi e, immaginando un futuro migliore, com’era giusto che fosse a quell’età, le sue legittime aspirazioni si scontravano inesorabilmente con l’esempio di uomini oziosi e prepotenti e con la necessità di dover servire “un governo torpido e crudele”, rappresentato dalla dinastia borbonica; scegliere, quindi, di mutare il corso delle cose attraverso l’attività politica voleva dire abbracciare una setta segreta, così come facevano certi uomini, i più coraggiosi, quelli a cui il giovane avrebbe voluto somigliare, che venivano designati come giacobini e carbonari.
    Ma cambiare quella realtà significava anche dover fronteggiare un mondo ostile rappresentato da una società contadina fondata su arcaiche credenze, che guardava con pregiudizio e sospetto chi rappresentava loro la possibilità di poter costruire una società migliore, libera dai lacci e dalle angherie di una monarchia straniera. E bisognava tener conto anche dei “traditori”, che per lo più erano uomini poverissimi e ignoranti i quali, sebbene avessero creduto inizialmente nella rivoluzione, fidando nel riscatto sociale, spinti dalla fame e dalla miseria finivano per riabbracciare l’antica reputazione per i Borboni, quali protettori dei poveri e nemici dei feudatari prepotenti.
    Ha quasi l’impressione, il nostro personaggio, di aver vissuto e sofferto invano per la realizzazione di quella sua idea repubblicana di Risorgimento, contrapposta all’idea monarchica; non saprà mai se agendo diversamente, con più accortezza e minore orgoglio, avrebbe meglio giovato alla causa di quelle idee che ancora crede giuste: e questo dubbio rappresenta l’unica salvezza che gli è rimasta.
    Nel suo monologo interiore, portato avanti attraverso la scrittura, Don Domenico Lopresti percepisce per la prima volta di sopravvivere, anzi di non essere mai stato così vivo come nel momento stesso in cui racconta la propria esistenza. Egli, che mal sopportava gli uomini di penna, avverte finalmente questo piacere e comprende di essere cambiato perché riconosce la propria memoria quale unica speranza di sopravvivenza: “in vecchiaia ho scoperto che scrivere aiuta a pensare, finché scrivo penso, non ci rinuncerò...”
    Quella memoria che - mentre se ne sta a letto nella sua casa torinese, dove gli ha dato appuntamento la morte – lo esorta a rintracciare, tra i suoi ricordi legati alle sue responsabilità e a quelle degli altri “l’errore in cui siamo caduti, l’inganno che abbiamo tessuto senza volerlo...eravamo in tanti...noi credevamo”.

 

venerdì 22 novembre 2013

RECENSIONE: "ELOGIO DELL'EGOISMO" di ARMANDO TORNO


 
    Dopo le “Virtù dell’ozio”, scritto nel 2001, il cui titolo già sintetizzava una filosofia di vita, Armando Torno appare nelle librerie con questo suo ultimo libro “Elogio dell’egoismo” con cui sembra voler riflettere ancora una volta su alcune tematiche a lui molto care: il tempo vissuto freneticamente, l’amor proprio, i falsi valori che spadroneggiano in questa nostra società.
    Attraverso una scrittura pacata e piacevole, ci invita a vincere l’ansia e gli affanni che ci assillano quotidianamente, a coltivare con più attenzione il nostro amor proprio, insomma a pensare di più a noi stessi, ad essere un po’ egoisti e a non lasciarci schiacciare da quelle false sirene che in ogni momento della giornata sembrano volerci catturare.
    Ci ricorda che su questa terra abbiamo a disposizione una sola esistenza e, pertanto non ci conviene buttarla via. Viviamo in un tempo in cui siamo portati a fare troppe cose insieme. Da qui nasce l’ansia. E allora limitiamoci alle azioni essenziali, impariamo a guardare le cose con il giusto distacco.
    Attraverso le sue pagine, lo scrittore ci invita a diffidare da coloro che appaiono sempre impegnati e che non riposano mai; si scaglia con ironia contro la consolidata abitudine delle “riunioni” sui posti di lavoro “chissà perché la nostra epoca ne ha un bisogno forsennato, continuo, irrefrenabile...ci si riunisce a volte senza una precisa ragione, senza nemmeno accorgersi che si sarebbero potute evitare ottenendo risultati migliori”. Ci mette in guardia dal dio denaro, che sembra essere diventato il valore assoluto, una vera schiavitù, con cui misurare  ogni azione, ogni comportamento umano; ci consiglia di adoperare con parsimonia il telefonino, perché se da un lato ci consente di comunicare velocemente con tutti, dall’altro “ci assilla e mette a dura prova il nostro sistema nervoso”.
    Il libro è costellato di citazioni, di consigli, di osservazioni essenziali sulla natura umana, tratte dalle opere dei grandi della letteratura e della filosofia. Si affida, a conforto delle sue riflessioni, alle parole di Seneca  e di Marco Aurelio, di Montaigne e di Oscar Wilde, di Epicuro e di Orazio e di tanti altri pensatori della nostra antica e recente storia.
    Un libro da gustare, oserei dire da tenere sul comodino, con cui riflettere per combattere gli egoismi del mondo contemporaneo e conoscere un po’ la natura umana.
 
 

martedì 12 novembre 2013

LA LIBRERIA


    Per me la libreria - la mia libreria - è fatta di desideri: di leggere ...(libri che sono in attesa di essere letti); di rileggere ...(libri che vorrei tanto riprendere in mano); di possedere ... (ah! questo libro mi piacerebbe averlo).

 
    È fatta di sbagli : libri di cui se ne poteva fare a meno, ma l'ho capito tardi, ed ora mi dispiace rivenderli, darli via.

    E’ fatta di forzature: quel libro l’ho preso perché non potevo uscire dalla libreria senza niente.

    E’ fatta di prestiti: libri mai restituiti (ebbene sì, un paio.... dimenticanze).

    È fatta di assenze: tutti quelli che stanno ancora altrove e che per ora qui non trovano posto; tutti quelli che avrei voluto comprare ma per i quali sto esercitando la virtù della moderazione;  tutti quelli che spero arriveranno.

    È fatta di gran confusione: libri alti e bassi, grandi e piccoli, bianchi e gialli, rossi e blu, neri e verdi, belli e brutti, tascabili e rilegati, sporchi di muffa e ancora profumati di carta nuova, comprati nuovi di zecca o trovati nei mercatini, parcheggiati in doppia fila, accucciati di piatto davanti agli altri, accatastati sopra gli altri.

    E’ fatta di difficoltà: libri che ho cominciato a leggere, ma che non riesco a portare a termine.

    E’ fatta di ricordi: libri  ricevuti in regalo, tra le cui righe posso scorgere o ritrovare la persona che me li ha regalati; libri che mi riportano alla mia giovinezza ed alle mie prime letture; libri che non si dimenticano mai, come il primo amore.

    E’ fatta di rimpianti: nel guardare tutti quei libri che stanno davanti a me, non posso non pensare che a volte la vita si prende gioco di loro e si vendica, maltrattando l’intelligenza.

 

domenica 10 novembre 2013

RECENSIONE: "LE AVVENTURE DI PINOCCHIO" di CARLO COLLODI

    Non amo le favole. Forse perché, quand’ero piccolo, nessuno me le ha mai raccontate; le favole vanno lette ai bambini, affinché da grandi possano rimanere vive nella memoria. Ma Pinocchio, o meglio “Le avventure di Pinocchio”, è un libro talmente speciale che  è conosciuto praticamente da tutti, anche da chi non l’ha mai letto e, comunque, lo si può leggere in qualsiasi stagione della nostra vita. Perché è un libro universale, per grandi e per piccoli; perché commuove e appassiona, fa ridere e fa piangere, diverte e istruisce. E’ un libro che racconta la vita, nelle sue innumerevoli vicissitudini, che racconta le passioni e le cattiverie dell’uomo, ma che si sofferma anche sugli slanci di altruismo e di solidarietà che attraversano l’animo umano.
    Pinocchio, questo simpatico e bellissimo burattino di legno, rappresenta nella sua reale semplicità un autentico capolavoro di ebanisteria – oserei dire - degna creazione di quel grande “maestro d’ascia” della letteratura che si è rivelato Collodi, pseudonimo di Carlo Lorenzini, lo scrittore fiorentino che pubblicò il libro nel 1883. Per me il burattino Pinocchio va tutelato come patrimonio dell’umanità, come il David di Michelangelo, perché incarna l’espressione fiabesca del genio italico nel mondo, considerato che il libro è stato praticamente tradotto in quasi tutte le lingue, ed è conosciuto nel mondo quanto il Colosseo o la Basilica di S. Pietro.
    Negli anni della fanciullezza avevo letto pagine sparse del libro, senza avere la capacità di fare una riflessione più profonda sul significato del testo; ora, rileggendolo, il mio pensiero è andato immediatamente al libro della Genesi, dove si legge che il Signore Dio creò l’uomo dal fango della terra, gli soffiò sul volto lo spirito della vita e quella creatura divenne un essere vivente. Il creatore, quindi, visto come una sorte di artigiano – non vorrei essere blasfemo – che modella l’argilla a sua immagine e somiglianza e ne ottiene il primo uomo.
    Mi piace immaginare un Collodi, che accingendosi a scrivere il suo libro, abbia pensato - almeno per un momento - al sacro libro della Genesi e si sia ispirato alla più grande e sublime delle creazioni divine (effettuata da Nostro Signore il 6° giorno) per portare a termine la sua fatica e quindi la sua personale “creazione”: quel burattino chiamato Pinocchio, costruito da un pezzo di legno dall’artigiano Geppetto. Certo, un accostamento alquanto azzardato, ma per me resta sicuramente affascinante. Sia l’uomo apparso per la prima volta sulla terra creato da Dio, che il bambino/burattino, nato dalla straordinaria fantasia di Collodi, sono stati modellati con un materiale molto comune presente in natura: nel primo caso, il fango; nel secondo un pezzo di legno, che non era “un legno di lusso, ma un semplice pezzo di catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze”, così si legge nel libro.
    E’ veramente incredibile come queste due meravigliose “creature”, ossia l’uomo, signore indiscusso dell’universo e Pinocchio, l’immaginario collettivo della fiaba universale che incarna il bambino indisponente e bugiardo che è in noi, siano nati non già da un materiale ricco e pregiato, come potrebbe essere l’oro o qualsiasi altra sostanza preziosa, ma dalla terra e dal legno. Quasi a voler significare che la bellezza si genera dalla semplicità piuttosto che dalla ricchezza. Esiste forse in natura un qualcosa di più bello della “persona umana”, intesa come la massima espressione dell’intelligenza e della perfezione? E forse esiste nel mondo delle favole un personaggio che sia più amato del burattino Pinocchio, che diventa bambino e quindi uomo nel momento stesso in cui sa prendersi le sue responsabilità?
    Pinocchio ci rappresenta e ci somiglia, con i suoi vizi e le sue virtù, con i suoi momenti di tristezza e con i suoi slanci di gioia e di affetto, con la sua furbizia, ma anche con la sua ingenuità. C’è forse qualcuno che non abbia mai disubbidito ai suoi genitori, o che non abbia mai pensato di marinare la scuola, almeno una volta nella sua vita? O che non si sia fatto imbrogliare da qualcuno più sveglio, pagandone le conseguenze?
    Personaggi come Geppetto, il Gatto e la Volpe, Mangiafoco, il Grillo parlante, la Fatina  e tante altre mirabili invenzioni restano indelebili nella memoria collettiva, miti intramontabili della nostra fanciullezza, a cui ricorriamo ogni qualvolta abbiamo desiderio di ritornare bambini e credere nelle favole.
    E poi come dimenticare quel finale, un po’ a sorpresa, che in qualche maniera ci sconcerta, in cui il burattino di legno diventa un ragazzo in carne e ossa. Una trasformazione che vuole rappresentare, metaforicamente, il passaggio dalla fanciullezza alla maturità, dalla spensieratezza e dalle imprudenze tipiche dei bambini alla consapevolezza ed alla responsabilità degli adulti. E quell’immagine del burattino inerme “appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo” non può che metterci un po’ di tristezza, perché perdiamo un amico a cui ci eravamo affezionati e in cui ci eravamo immedesimati allorquando, con le sue ribellioni e le sue disubbidienze, combatteva la sua personale battaglia contro il mondo degli adulti.

PRESENTAZIONE DEL BLOG

    Se mi chiedessero qual è il tuo rammarico più grande, non avrei dubbi nel rispondere che è quello di non aver dedicato un po’ di tempo della mia vita alla scrittura.
    “Nulla dies sine linea” diceva lo scrittore romano Plinio il Vecchio: non lasciar passare neanche un giorno senza scrivere una riga.
    Fermare i propri pensieri su un foglio, trascrivere tutte quelle riflessioni, quelle considerazioni che attraversano la nostra mente in un determinato momento, significa essenzialmente fermare il tempo e non disperdere ciò che ci appartiene.
    Sono stato da sempre un discreto lettore, per mia grande fortuna. Ma non ho mai scritto un libro, per la grande fortuna degli altri. Ho grande rispetto per i libri e, pertanto, non avrei mai la spudoratezza di scriverne uno. Basta entrare in una grande libreria, per capire che il mondo non ha bisogno di un libro in più.
    E allora, abbandonata l’idea del libro, perché non scrivere una recensione di ogni libro letto? Perché non tracciare un percorso formativo fatto di letture? Da qui nasce questa idea – iniziata nel 2009 - che io trovo estremamente interessante perché mi dà la possibilità di esercitare quella che io ritengo una delle attività più nobili che l’uomo abbia inventato: la scrittura.
    Ora, attraverso questo blog, ho deciso di divulgare queste mie, seppure modeste recensioni, congiuntamente ad altre riflessioni che mi passano per la testa, per soddisfare, forse, quell’intimo desiderio insito in ogni uomo che scrive di essere letto e – chissà – per invogliare qualcuno che dovesse passare da queste parti a leggere qualche libro.